Il ponte sul fiume Kwai
Cosa rimane del ponte reso celebre dal film premio Oscar? La terribile e avventurosa storia della ferrovia che a Kanchanaburi è diventata una meta turistica
- Cosa resta oggi dell’originario ponte sul fiume Kwai, a parte l’omonimo film di David Lean (tratto dal romanzo di Pierre Boulle), sette premi Oscar nel 1958? A Kanchanaburi, il ponte è diventato una meta turistica, circondato da bancarelle di souvenir e attraversato da un improbabile treno colorato ideato ad hoc per i turisti, mentre le vie delle guesthouses portano i nomi dei Paesi coinvolti nella Seconda Guerra Mondiale.
Del ponte originario - distrutto, nella parte centrale, dai bombardamenti alleati nel ‘45 - restano le campate esterne, fatte con il legno tagliato e trasportato da sessantamila prigionieri di guerra australiani, inglesi, tedeschi e americani e duecentomila asiatici costretti ai lavori forzati. Eccola la ferrovia della morte, scavata a mani nude nella roccia, nel mezzo della jungla thailandese: 415 chilometri di linea fatti costruire dai giapponesi nel ‘42 per unire la Thailandia alla Birmania (Myanmar). Si costruiva da entrambi i Paesi: il 16 settembre 1942 i prigionieri alleati e gli asiatici cominciarono a lavorare sia dalla base di Kanchanaburi, dove c’erano nove reggimenti, sia dalla base giapponese di Thanbyuzayat dove ve ne erano cinque. Centinaia di chilometri di jungla, di ponti da costruire e di strada ferrata da scavare nei fianchi della montagna. Centinaia di chilometri di alberi da abbattere, di tronchi giganteschi da trasportare in spalla camminando nell'acqua del fiume, aiutandosi con gli elefanti, sotto i quali spesso si moriva. Tronchi pesantissimi da mettere in piedi per costruire non uno ma due ponti sul fiume Kwai a circa due chilometri di distanza dal punto in cui si unisce al Kwai Noi (small Kwai) formando il Mae Klong. Un punto strategico dato che, poco dopo Kanchanaburi, il Mae Klong si allarga per poi sfociare nel golfo di Thailandia, a Samut Songkram, 70 chilometri a sud est di Bangkok. Un’impresa ingegneristica gigantesca a cui i giapponesi pensavano dal ‘41 ma alla quale avevano quasi subito rinunciato perché considerata impossibile in quelle zone impervie. Un’opera che si è trasformata in una vera mattanza per i prigionieri Alleati, costretti dai propri carcerieri a costruire la linea ferroviaria che andava contro gli interessi dei propri eserciti di appartenenza. Memorabile il loro sottile tentativo di sabotare il ponte che essi stessi costruivano, con le termiti.
Secondo i calcoli degli ingegneri dell’epoca, ci sarebbero voluti cinque anni per costruire la ferrovia, ma i giapponesi avevano fretta, volevano subito un percorso alternativo per i rifornimenti in vista della conquista di altri Paesi dell’Asia occidentale. E la vollero in soli sedici mesi (il loro obiettivo era dodici). In particolare, dall’aprile 1943 i lavori accelerarono: è la fase nota come “Speedo period” che coincise con il colera, la malaria, la dissenteria e varie malatttie tropicali. Si lavorava giorno e notte, mangiando solo una ciotola di riso con vegetali, due volte al giorno. Porzioni misere per sostenere la fatica e il clima nella jungla, uniti alle terribili punizioni da parte dei giapponesi che in ogni modo costringevano i loro “schiavi” a lavorare al massimo per abbreviare i tempi. Porzioni che diminuirono con i bombardamenti degli Alleati sulle risaie.
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola