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Liberarsi dalle catene

La sfida più difficile è incrinare il pensiero unico israeliano.

Internazionale 829, 14 gennaio 2010

Davanti a me, in un caffè di Tel Aviv, sedeva un giovane dall’aria seria. Era un soldato riservista che alcuni anni fa ha preso parte – contro la sua volontà – all’arresto di un palestinese. L’episodio ha fatto scattare qualcosa in lui.

L’anno scorso ha rifiutato di partecipare all’offensiva a Gaza, ed era pronto a essere processato e condannato. Ma un comandante in gamba lo ha mandato a servire lontano da Gaza, evitando all’esercito cattiva pubblicità.

“Le mie affermazioni si basano sulla conoscenza diretta dei fatti”, ha garantito. Poi ha analizzato – con grande eloquenza – i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni nella strategia militare israeliana, soffermandosi sui rapporti tra il comando superiore e il comando sul campo. Era chiaro che aveva riflettuto molto e che era molto interessato alle conseguenze etiche e morali del comportamento suo e dei suoi colleghi. Non mi ha raccontato niente di nuovo, ma la nostra chiacchierata mi servirà sicuramente quando capiteranno altri casi come questo.

“Sto chiudendo un cerchio”, mi ha detto all’inizio della conversazione. Sei o sette anni fa studiava giornalismo e voleva intervistarmi, perché era interessato al mio modo di lavorare fuori dai canali ufficiali. Avevo accettato, ma gli avevo detto qualcosa che lo aveva spaventato: “E io vorrei sapere qualcosa sul tuo servizio militare”. Così non mi aveva richiamato, come ha ammesso questa settimana. “Ma oggi ho capito di averla cercata perché all’epoca avevo già dei dubbi”, ha precisato.

È incredibile quanto sia difficile per persone rigorose, intelligenti e capaci liberarsi dalle catene del pensiero unico israeliano.

Signori e sionisti

Riflessioni a margine delle manifestazioni contro il muro di separazione


Internazionale 830, 21 gennaio 2010

Khawaja significa “signore” in arabo, ma è usato per rivolgersi agli stranieri. Un freddo lunedì mattina Mohammad Khatib stava osservando alcune persone che assistevano al suo processo, quando con un sorriso ha detto: “I khawajat” (plurale). Purtroppo l’umorismo rischia di perdersi nella traduzione. Devo spiegare.

Prima del 1948, cioè prima della nascita d’Israele, i palestinesi si rivolgevano così ai loro vicini, gli ebrei. Oggi non lo fa più nessuno. Mohammad, invece, l’ha pronunciata in modo affettuoso. Più tardi mi ha spiegato: “Nelle manifestazioni contro il muro di separazione definisco gli israeliani sahayna (sionisti). Ma dato che ti ho vista tra loro, ho detto khawajat””. In realtà non ho l’onore di essere “una di loro”, cioè una delle decine di ostinati attivisti che ogni settimana, da sei anni, protestano contro il muro.

Le autorità israeliane hanno deciso di impedire queste manifestazioni, che hanno prodotto una sentenza favorevole dell’alta corte (ancora non applicata) sul cambiamento del tracciato del muro. L’esercito non si limita a reprimere le proteste, ma compie anche irruzioni violente nei villaggi. Mohammad è stato arrestato l’estate scorsa, ma è stato rilasciato su cauzione perché il suo avvocato israeliano, Gaby Laski, ha dimostrato che il giorno in cui secondo l’accusa avrebbe “lanciato sassi” era all’estero per una conferenza. Laski rappresenta molti altri attivisti accusati dagli stessi testimoni: due impauriti ragazzini che non sanno leggere né scrivere.

Tra le decine di palestinesi che ogni giorno affollano il piccolo tribunale militare, ci sono i giovani khawajat”. Assistere alle udienze è il minimo che possono fare.