Giornalismo - attualità

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faberhood
00mercoledì 1 giugno 2011 14:01
Perché mi sento vicino a quei papà
28 maggio 2011
VORREI abbracciarlo quel povero papà perché sono papà come lui e so che il piccolo Jacopo è morto per uno dei paradossi dell' amore. Difatti pure io mi porto i figli dietro, in auto, mentre lavoro, al supermercato e, come ormai succede a moltissimi altri padri, mi piace essere anche la madre dei miei bambini, partecipare allo svezzamento, nutrirli e spupazzarmeli fisicamente, e magari lo faccio per surrogare quei nove mesi che mi mancano, chissà. Ma sono padre e dunque come madre sono goffo sino alla sbadataggine, sino alla distrazione o sino all' apprensività più ansiosa che è poi la medesima cosa, l' altra faccia della stessa inadeguatezza. Certo, per istinto di autodifesa il mio primo pensiero è stato «a me non sarebbe successo». Ma non è vero. E anche Sergio Riganelli deve avere pensato la stessa cosa quando, la settimana scorsa, ha letto della piccola Elena che è morta a Teramo, dimenticata nell' auto dal suo papà: «Al mio Jacopo non potrebbe succedere mai». E invece è successo. E quel primo pensiero di presunzione io l' ho buttato via. Può infatti accadere a tutti i papà, e soprattutto ai papà più amorevoli del mondo perché sono quelli che hanno il complesso dell' ippocampo, l' unico animale maschio che prende su di sé la gestazione e si occupa lui delle uova. Ma è appunto lì che sta in agguato la disgrazia, nell' avere un cuore troppo grande e due occhi soltanto, nel volere fare quelle mille cose che mia zia "la signorina" avrebbe commentato cosi: «' mbriachi e picciriddi, centu occhi li devono guardare». Dunque la sola cosa che possiamo permetterci è sentirci solidali con quel che resta di un padre consapevole di avere ammazzato la persona che più amava al mondo. Deve essere così l' inferno: chiamare Jacopo e non averlo più o peggio sentirlo dentro come un fantasma, come un eterno rimorso, come un perenne nodo in mezzo al petto che ogni tanto ridiventa fuoco. E rivedere il suo sorriso senza mai più gioirne, immaginarne la vita, risentire sui polpastrelli il tepore della pelle e custodirne il ricordo nel cavo della mano. Questo papà è un vivo con la morte addosso. Gli si deve dare amore. Anche se è inutile, anche se non ne spegnerà il senso di colpa, se non lenirà il dolore suo e quello di mamma Eva, né tanto meno resusciterà il bimbo di 11 mesi che sulla riva del lago Trasimeno è morto asfissiato in un' auto arroventata dal sole. E mi viene in mente che un po' di colpa ce l' ha anche la dannatissima macchina, che è diventata il nostro guscio di lumaca, la viviamo come un' appendice di casa e si sa che in casa ci si può dimenticare la caffettiera sul fuoco e anche il bambino che dorme senza che accada l' irreparabile. E' di Buzzati quel piccolo capolavoro che è ' La dimenticanza' di una madre che aveva lasciato la bambina in casa e finalmente se ne ricordò mentre qualcuno le domandava se avesse chiuso l' acqua: «Ada divenne del colore della morte. D' improvviso le era venuto un pensiero orrendo... come se nella memoria si fosse aperto un buco ... Il caldo! Immaginò la bambina ormai distrutta dal caldo e dalla fame e pensò che forse la pazzia comincia così». Ma neppure la fantasia di Buzzati nel 1950 poteva immaginare la morte nell' automobile-casa, in una scatola di latta che ovviamente si arroventa sotto il sole, automobileculla, e chissà quanti altri bimbi non sono morti solo perché sono stati dimenticati in primavera o magari all' imbrunire di un' estate un po' più dolce. Ma le tragedie solo sfiorate sono tragedie cancellate che non ti lasciano neppure l' insegnamento di non farlo. A un mio amico è accaduto di chiacchierare al telefonino mentre suo figlio di tre anni in piscina perdeva il controllo e veniva salvato da un altro bimbo un po' più grande. E c' è anche il caso del «ci vai tu o ci vado io?» che è il primo anello di una catena di sbadataggini che arrivano a valanga, una dietro l' altra, compresa quella di pagare al supermercato mentre il bimbo si allontana e prima si perde tra la folla e dopo raggiunge l' uscita e finisce in strada dove sfrecciano le macchine e dove si salva solo quando, preso dalla paura, comincia a piangere. E dunque bisogna accostarsi e subito ritrarsi rispettosamente dinanzi a queste tragedie della distrazione, lasciare al giudice l' impaccio di gestire l' omicidio come un paradosso dell' amore paterno.A noi spetta di dire chiaroe forte che non c' è dolo e che nessuno psicanalista deve permettersi di immaginare padri che inconsapevolmente vogliono liberarsi della paternità e dunque ricorrono alla sbadataggine come a un trucco della coscienza. Abbiamo già letto le loro dichiarazioni, ci auguriamo di non sentirli e soprattutto di non vederli ' incattedrati' a Porta a Porta. E' la solita intelligenza dei cretini che non è verificabile e dunque non è neppure contestabile. C' è una sola certezza in questa tragedia: è morto il figlio di un padre affettuoso, vittima dell' amore di suo padre. Sul lago Trasimeno le luci dell' amore sono diventate così abbaglianti da oscurare la vista.
- FRANCESCO MERLO


Forse una tra i più belli degli editoriali di Francesco Merlo.
gianpaolo77
00mercoledì 1 giugno 2011 18:28
io non posso certamente giudicare perchè per fortuna non mi sono mai trovato in una situazione simile(mancandomi proprio la materia prima...)
però davvero mi chiedo come sia possibile dimenticare un bambino in macchina, mi pare allucinante sinceramente...
Sound72
00giovedì 30 giugno 2011 09:57
Il morto in fin di vita...


[SM=g27993]

29 giu 2011

MORTO MUSICISTA AGGREDITO A ROMA, LA POLIZIA FERMA DUE GIOVANI
ROMA (ITALPRESS) – Il giovane musicista aggredito a calci e pugni, nel rione Monti, a Roma, e’ morto questa mattina, in ospedale, a causa delle ferite riportate al termine del violento pestaggio. La vittima, nella notte fra sabato e domenica, quando e’ stato
aggredito, si trovava nel centro storico della Capitale, in compagnia di alcuni amici, ed aveva appena terminato di suonare in un locale. La Polizia, oggi, ha fermato due giovani, entrambi romani, con precedenti, sospettati di aver preso parte al pestaggio del musicista, scomparso all’eta’ di 29 anni.
(ITALPRESS).




29 GIU 2011


Un aggressore: «Passavo di lì, ho dato solo du' pugni, e che sarà mai...»

Fonte: Il Messaggero

ROMA - «Stavo passando di lì, ho dato solo dù pugni e me ne sono andato via. E che sarà mai...». Così ha tentato di difendersi Cristian Perozzi, uno dei due arrestati per l'OMICIDIO di Alberto Bonanni. Gli arrestati hanno genitori e nonni che abitano ancora nel rione, a Monti sono cresciuti e forse hanno tentato di marcare il territorio aggredendo i giovani che stavano infastidendo i residenti.

Perozzi e Carmine D'Alise sono stati riconosciuti da alcuni testimoni grazie alle foto postate sui loro profili Facebook. Solo uno dei due ha precedenti per stupefacenti ma tutti e due secondo gli agenti sono ragazzi che vivono al limite della legalità e in quartieri come Tor Bella Monaca. Gli investigatori sono ora sulle tracce delle altre persone del branco.







30 giu 2011

Rione Monti, pestato dal branco
GIOVANE MUSICISTA IN FIN DI VITA
Lite per gli schiamazzi, poi l'aggressione: colpito alla testa con un casco. Due arresti


repubblica.it

..............

faberhood
00lunedì 4 luglio 2011 17:14
Quanno li sordi!!!! non sapevo dove postarlo....e lo metto qua
Predappio, cuore a sinistra e portafogli a destra: il turismo fascista la prima industria

Una gelateria si inventa il gelato del duce, ovunque poster, fotografie e accendini con la foto di Mussolini. Neanche il sindaco di centrosinistra è riuscito a fermare i pellegrinaggi. E Forlì prende l'esempio: vuole diventare capitale dell'architettura del Ventennio. Giusto per prendersi un po' di fondi dall'Ue
Non bastavano i negozi stracolmi di souvenir con i ritratti del Duce. A Predappio d’ora in poi i nostalgici del Ventennio avranno anche un gelato pensato apposta per loro. Rigorosamente nero, a base di cioccolato fondente, è l’ultima trovata turistica della città che ha dato i natali a Benito Mussolini. Una paternità che, con buona pace del sindaco di centrosinistra Giorgio Frassineti, ha trasformato negli anni questa piccola realtà della Romagna nella meta preferita di curiosi e militanti, veri motori del turismo locale.

E allora ecco che, come in ogni bottega che si rispetti, in una gelateria di viale Matteotti si è pensato di adeguare i prodotti alle preferenze (non solo culinarie) della clientela abituale, dando vita al ‘gelato del Duce’. La trovata, come riferisce la Voce di Romagna, è di due donne, Anahiti e Concetta, rispettivamente originarie di Cuba e del sud Italia, che da poco hanno aperto un locale nel centro della città. Lavorato con acqua al posto del latte, il gelato è scurissimo, di colore quasi nero, in pieno stile fascista. E può essere addirittura abbinato a una crema alla vaniglia, denominata ‘crema anni Venti’.

Questione di gusti, precisano le due donne, secondo le quali alla base dell’idea non c’è nessuna simpatia politica, ma solo l’intenzione di offrire qualcosa di diverso diverso alla clientela, che pare apprezzare. E c’è da scommettere che la nuova “golosità” tra qualche giorno andrà a ruba. Predappio, infatti, si prepara ad accogliere le decine di comitive che ogni anno, il 29 luglio, fanno tappa nella città per celebrare l’anniversario della nascita di Mussolini.

Un appuntamento chiave non solo per gli appassionati del littorio, ma anche per i negozianti di questa piccola realtà sulle colline dell’Appenino forlivese, che conta poco più di seimila abitanti. Qui il commercio locale vive soprattutto sul ricordo del Ventennio. Dall’accendino alla maglietta, fino alla sveglia che scandisce le ore al suono di “Boia chi molla!”, a Predappio sembra che prima dell’appartenenza politica si guardi il portafoglio. Del resto i pellegrinaggi in camicia nera alla casa del Duce, e al cimitero di San Cassiano che accoglie le sue spoglie, non si sono mai fermati. Nemmeno dopo gli strali del sindaco Frassineti che, senza troppi giri di parole, nel 2009 invitò i turisti del fascismo a starsene a casa.

Una tendenza alla rievocazione del passato che quest’anno ha contagiato anche l’amministrazione rossa di Forlì. È di qualche settimana fa infatti l’avvio del progetto Atrium che punta a rendere a tutti gli effetti la città romagnola “capitale” dell’architettura fascista. Sul piatto circa mezzo milione di euro per 30 mesi, fondi che oltre che sul capoluogo (destinatario di 390 mila euro circa) pioveranno su Castrocaro e, naturalmente, anche su Predappio.

Sound72
00domenica 31 luglio 2011 12:37
Addio a D'Avanzo, grande firma di Repubblica
Da rapimento Abu Omar a Telecom Serbia. Sue le '10 domande'



ROMA - Il giornalista Giuseppe D'Avanzo, una delle firme di spicco del quotidiano La Repubblica, autore anche di numerosi libri di denuncia, e' morto improvvisamente oggi di infarto nei pressi di Calcata (Viterbo). Nato a Napoli il 10 dicembre 1953, laureato in filosofia, dopo aver lavorato al Corriere della Sera, nel 2000 era approdato a La Repubblica.

E' stato autore, spesso con i colleghi Attilio Bolzoni e Carlo Bonini, dei principali scoop investigativi nei quali la cronaca nera si e' incrociata con la politica, soprattutto estera e militare. Molte le inchieste che lo hanno visto in prima linea. Dal Nigergate alla vicenda Telecom Serbia, al rapimento di Abu Omar, da lui ripetutamente ricollegato a un'attivita' clandestina della Cia in territorio italiano, ma anche a una operazione congiunta degli americani con il Sismi.

Ma anche il caso delle ''dieci domande'' rivolte al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, scaturite dalle rivelazioni della redazione di Napoli di Repubblica sulla partecipazione del premier alla festa di compleanno di Noemi Letizia a Casoria, fino al caso delle ''escort di Tarantini''. Scrisse le '10 domande' a Berlusconi in un editoriale del 15 maggio 2009, diventate poi uno spazio fisso delle pagine del giornale.

Nell'aprile scorso, fuori dall'aula del Palazzo di Giustizia di Milano, D'Avanzo aveva chiesto a Silvio Berlusconi, imputato al processo sul caso Mediaset, perche' non avesse reso dichiarazioni ai giudici invece che alla stampa. ''Senta Signor Stalin'', lo aveva apostrofato il premier.

Tra i suoi libri, sono da ricordare I giorni di Gladio, scritto con Giovanni Maria Bellu (Sperling & Kupfer, 1991); Il capo dei capi. Vita e carriera criminale di Toto' Riina, con Attilio Bolzoni (Mondadori, 1993); Il mercato della paura. La guerra al terrorismo islamico nel grande inganno italiano, con Carlo Bonini (Einaudi, 2006); La giustizia e' Cosa Nostra, con Attilio Bolzoni (Mondadori, 1995); Rostagno: un delitto tra amici, con Attilio Bolzoni (Mondadori, 1997

RIP..
Sound72
00lunedì 5 settembre 2011 17:23
QUEST'AMERICA di Anna Guaita
Undici Settembre 2001. Lo ricordo così.

Era davvero una bella giornata. Di quelle giornate cristalline che New York ti regala alla fine dell’estate, con l’aria trasparente in cui si avverte il salmastro dell’Oceano. Tanto era bella, che quasi accettai l’idea di tornare a vedere le Torri insieme ai miei amici Vittorio e Claudia, che erano ospiti da me per qualche giorno. Ma loro avevano ancora il jet lag, e volevano muoversi prestissimo, e io non morivo dalla voglia di tornare ad affacciarmi da quelle altezze che mi facevano sempre venire un po’ di vertigini.

Così vado in ufficio. Ma mi attardo a un bancomat, sulla Sesta Avenue, a quattro isolati dalla redazione. Riponendo i soldi in borsa, mi avvio verso nord. Pochi passi. Alzo lo sguardo, e resto di sale: le facce delle persone che mi vengono incontro, nel senso inverso, da nord a sud, si contorcono tutte insieme, di colpo, in una smorfia di orrore. E’ una foto indelebilmente scolpita nella mia memoria.

Mi volto anche io e laggiù alla fine della dirittura della Sesta Avenue, contro il cielo di un blu quasi irreale, una grande nuvola di fumo nero avvolge la Torre nord. Di quei minuti ricordo l’improvviso silenzio. E poi l’esplosione di grida.

Faccio di corsa i quattro isolati, arrivo trafelata in redazione, dove il mio collega Stefano Trincia è già attaccato al telefono con il giornale, con i due televisori accesi su due canali diversi. Mio marito mi chiama dall‘università, mi vuole ricordare l’incidente avvenuto nel 1945, quando un aereo era andato a sbattere contro l’Empire State Building. Siamo in quella breve parentesi in cui crediamo ancora che sia stato un incidente. Sarebbe ben strano, considerata la giornata limpida e la tecnologia ben diversa da quella degli aerei di 50 anni prima. Eppure vogliamo crederci.

Poi arriva il secondo aereo.

Riesco a chiamare i miei, a Firenze: «Non so cosa sta succedendo. Forse è la guerra. Sto bene. Ma non so quando potrò richiamare». Mi rispondono incoraggiandomi, ma sento il pianto sommesso di mia madre.

Stefano è al telefono con la scuola dei figli: insiste che la scuola chiuda e mandi i ragazzi a casa. Ma è la scuola delle Nazioni Unite, ci sono figli di diplomatici e persone in vista e il direttore non vuole prendere l'iniziativa. «Faccia quel che vuole, ma i miei li faccia uscire, li mandi a casa ora, subito!» finisce per urlare Stefano. Se è un attentato terroristico, quella scuola potrebbe essere un altro bersaglio. Finalmente lo capisce anche il direttore.

E poi i crolli.

Stefano si mette le mani nei capelli, bianco in volto, immobile. Una morsa mi chiude lo stomaco. C’è gente che sta morendo in questo momento, sotto i nostri occhi. Forse amici, di certo conoscenti, gente che abbiamo intervistato, che abbiamo visto a conferenze, a mostre, a presentazioni di libri. Stanno morendo in un modo terribile, e nessuno può far nulla.

Cominciamo a scrivere. Non alziamo quasi la testa dalle tastiere, se non per guardare le tv e il cielo, laggiù, sempre più buio. Vittorio e Claudia arrivano anche loro in ufficio, sono sotto shock e coperti di una polvere che puzza di bruciato. Vittorio Giacopini è un giornalista dell’agenzia ApBiscom. Gli prestiamo un tavolo, un terminale, comincia anche lui a scrivere. Non sono saliti alle Torri, perché voleva farsi un’altra sigaretta: ”Non mi dite più che il fumo mi fa male”.

Più tardi, insieme a Luciana Capretti, giornalista della Rai e moglie di Stefano, ci avventuriamo verso sud. Miracolosamente ci fanno arrivare molto vicino. Non è ancora stata organizzata la cintura di sicurezza, con le barriere e i controlli strettissimi. Per ora sembra di camminare dentro un incubo senza trama. Polvere e detriti ovunque, e fogli di carta, scarpe, pezzi di vetro, plastiche contorte, stracci di vestiti, fumo, e quell’odore, quel misto di bruciato, di metallico, di acido, che si ferma in gola come se fosse qualcosa di solido. Fra qualche anno sapremo che è un veleno complesso e micidiale che si sta infiltrando nei polmoni dei soccorritori e che mieterà vittime. Le vittime dell’undici settembre che sono morte dopo, nelle corsie degli ospedali.

File di persone si dipanano agli ingressi degli ospedali: vogliono offrire il sangue. Si crede che ci saranno tanti feriti da salvare. E invece ce ne saranno pochi: chi è riuscito a scappare si è fatto solo qualche graffio, chi non è riuscito a scappare è morto.

Sono i giorni della solidarietà. C’è sgomento ma anche voglia di stare in compagnia, di fare del bene. La gente si ferma alle caserme dei vigili del fuoco che hanno subito forti perdite, solo per dire grazie, vedo alcuni di questi omoni grandi e muscolosi sciogliersi in pianto quando qualcuno li abbraccia.

Passo all’Armory, dove riposano le persone che lavorano a Ground Zero, e dove centinaia di disperati si soffermano alla ricerca di parenti dispersi: sui pali della luce elettrica, sulle lavagne, sui muri, innumerevoli fotografie scattate in momenti felici rimandano volti sorridenti, irreali nel dolore che ci circonda. Vari volontari portano roba da mangiare, leccornie che dovrebbero rallegrare. Portano i loro cani, perché con quelle code scodinzolanti diano un po’ di coraggio. C’è anche un pappagallo, «chiudi la porta, fa freddo» ripete ottusamente, e riesce a guadagnarsi qualche sorriso.

Sono anche giorni di lavoro, di interviste, di visite a famiglie, a vigili del fuoco, agli ospedali. Lavorare aiuta a tenere a bada i pensieri più foschi: le linee telefoniche funzionano male, i cellulari sono zitti, ma il cavo internet funziona e posso mandare messaggi alla mia famiglia attraverso il giornale.


Devo andare a Washington. Toccherà a me seguire le reazioni della Casa Bianca.

Arrivo di sera. In treno. La stazione è un deserto. Un tassì mi porta fino al Marriott, proprio dietro la Casa Bianca. Su Pennsylvania Avenue ci siamo solo noi e i mezzi blindati ai posti di blocco, e sopra le nostre teste gli F-16 che passano e ripassano sulla città. Questa è la colonna sonora della prima settimana: il rombo dei jet militari. E il ticchettio delle mie scarpe lungo corridoi deserti.

Per entrare al Marriott, chiuso dietro una trincea e guardato da poliziotti armati, devo mostrare il tesserino da giornalista e il passaporto. Controllano che io abbia davvero una prenotazione e poi mi lasciano passare. Di solito, la hall di questo grande albergo è popolata di gente, con negozi affollati, ristoranti pieni, e un costante brusio. Stasera è vuota. Mi avvio verso il check in, tirandomi dietro la valigia, e mi sembra di fare un fracasso incredibile. Mi verrebbe da camminare in punta di piedi.

E arrivano i giorni della politica. C’è un via vai di primi ministri, presidenti, vip di tutto il mondo che vengono a dire a George Bush che la ferita all’America è una ferita anche per loro. Passo giorni a seguire notabili di ogni angolo del pianeta, ad ascoltare discorsi in tutte le lingue, spesso molto elegiaci e commoventi.

Ma intanto si prepara la guerra.

Non è più il momento della solidarietà. Sta arrivando il momento della vendetta. Ma quella è un’altra storia.
lucolas999
00lunedì 5 settembre 2011 17:29
oh no! so passati 10 anni, sai che palle che ce faranno !!! [SM=g11561]
Sound72
00lunedì 10 ottobre 2011 12:26


Scooter contro un albero Muore il giornalista tv Andrea Pesciarelli Rincasava dopo una cena con amici. Lavorava al Tg5.

Il ricordo di Guido De Angelis

Ci sono nella vita quelle persone che sfiori, quelle che vivi alla lontana e quelle che senti sempre nel cuore, anche se non sempre , per forza di cose,sono materialmente vicine a te: Andrea era una di queste. A volte sentivi il sigaro… e capivi c’era lui. Era puntuale, preciso, professionale. E’ da sabato, da quando ho saputo la notizia, che non faccio altro che pensare a lui, al suo carattere, alla sua allegria. E’ proprio quando perdi una persona a te cara che la tua testa ti restituisce una “cassetta del tempo” ed inizi a pensare intensamente a lei… e quante cose ho ritrovato in questa cassetta.
L’incidente è accaduto a 300 mt da Piazza della Libertà, vicino P.zza Mazzini; c’erano, nelle vicinanze, le telecamere di un hotel, che sono state ritirate per essere analizzate e per poterci dare qualche notizia in più su questa triste dinamica. Un detto dice che “chi muore giovane è caro agli Dei”: sarà, ma è difficile darsi una spiegazione di come, ad una persona così piena di vita, questa stessa possa essere tolta in un breve attimo.
Giornalista con ottima dizione, abile, che sapeva stare sulla notizia; una persona squisita, una di quelle che tutti dovrebbero conoscere nella propria vita. Sabato, in memoria di un altro mio caro amico che ci ha lasciati qualche anno fa, Pino Sanna, abbiamo organizzato come ogni anno un memorial in suo onore… e proprio lo scorso anno, a questo memorial, aveva partecipato anche lui. Non potevamo non ricordarlo, un momento straziante.
Avrebbe compiuto 47 anni il prossimo 20 ottobre. E’ ingiusta la vita, è crudele il destino. Non si può morire così giovani, proprio nel momento più ricco della propria esistenza. Andrea era davvero un Laziale con la L maiuscola: lui sì, era un giornalista, ma credetemi…era prima laziale. Ed è proprio per questo che io vorrei tanto che la Lazio facesse qualcosa per lui, per ricordarlo.
Questa settimana sarà tutta per lui: personalmente, io Andrea ce l’ho fisso nella mia testa, non credo possa essere diversamente; non sappiamo ancora nulla in merito al suo ultimo saluto, si suppone domani ma non è ancora certo…daremo notizie non appena sapremo qualcosa di più. Ciao Andrea, per sempre con me.


Rip
Sound72
00lunedì 31 ottobre 2011 18:10
Addio al giornalista Lino Cascioli, cantore dello sport

ROMA – Giornalismo in lutto per la morte di Lino Cascioli. All’età di 76 anni se n’è andato un cronista di razza che, come pochi, ha saputo narrare con poesia uno sport, il calcio, del quale era svisceratamente innamorato.
Nato a Roma il 18 marzo 1935, Pasquale Cascioli era giornalista professionista dal 1 aprile 1969. Storico cronista sportivo del Messaggero, ha dedicato, con passione e competenza, la sua vita alla professione nutrendo una mai celata passione nei confronti della sua squadra del cuore, la Roma. E in occasione della sua morte, l’As Roma lo ha voluto ricordare sul proprio sito ufficiale piangendo commossa lo “stimato e popolare giornalista della capitale”.
Esperto di calcio, dopo gli anni trascorsi a Momento Sera, era approdato al Messaggero, lasciato alla vigilia dei mondiali del ‘90 per lanciarsi in una nuova avventura, quella di una editrice (Parnaso) dedicata ad arte, poesia, letteratura e sport.
“Il più vivo cordoglio” è stato espresso dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno. “Cascioli – ricorda Alemanno – è riuscito a legare il suo nome alla nostra città anche attraverso pubblicazioni che ci hanno consentito di conoscere e approfondire la cultura romana”.
Anche il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, si è detto addolorato dalla notizia della scomparsa del giornalista. “

Cascioli – sottolinea Zingaretti – sapeva raccontare come pochi altri la storia e gli aneddoti della nostra città e della provincia, a cui ha dedicato diversi volumi che oggi costituiscono un prezioso patrimonio a disposizione dei cittadini. Grande tifoso della Roma aveva saputo fare di questa passione la propria professione, un amore corrisposto che lo ha portato a diventare una delle penne piu’ importanti nel panorama sportivo italiano”.

RIP..
altro stile proprio rispetto a tanti rampanti moderni privi di cuore e passione sincera..
Sound72
00giovedì 1 marzo 2012 17:45



oggi se ne è andato anche il giornalista Mosconi, famoso bestemmiatore in diretta e nei fuori onda
lucolas999
00mercoledì 21 novembre 2012 11:33
La Repubblica cancella il post di Odifreddi su Israele. Lui lascia: “Meglio fermarsi”.
Il matematico aveva scritto parole dure sul conflitto in Medio Oriente accusando lo Stato ebraico di "logica nazista", ma il suo intervento è scomparso dopo 24 ore. Oggi il saluto ai lettori: "Continuare sarebbe un problema. D’ora in poi dovrei ogni volta domandarmi se ciò che penso o scrivo può non essere gradito a coloro che lo leggono"
Qui il suo ultimo post: odifreddi.blogautore.repubblica.it/2012/11/20/809-giorni-di-...

Di seguito il post di Odifreddi cancellato dal blog

Uno dei crimini più efferati dell'occupazione nazista in Italia fu la strage delle Fosse Ardeatine. Il 24 maggio 1944 i tedeschi "giustiziarono", secondo il loro rudimentale concetto di giustizia, 335 italiani in rappresaglia per l'attentato di via Rasella compiuto dalla resistenza partigiana il 23 maggio, nel quale avevano perso la vita 32 militari delle truppe di occupazione. A istituire la versione moderna della "legge del taglione", che sostituiva la proporzione uno a uno del motto "occhio per occhio, dente per dente" con una proporzione di dieci a uno, fu Hitler in persona.

Il feldmaresciallo Albert Kesselring trasmise l'ordine a Herbert Kappler, l'ufficiale delle SS che si era già messo in luce l'anno prima, nell'ottobre del 1943, con il rastrellamento del ghetto di Roma. E quest'ultimo lo eseguì con un eccesso di zelo, aggiungendo di sua sponte 15 vittime al numero di 320 stabilito dal Fuehrer. Dopo la guerra Kesselring fu condannato a morte per l'eccidio, ma la pena fu commutata in ergastolo e scontata fino al 1952, quando il detenuto fu scarcerato per "motivi di salute" (tra virgolette, perché sopravvisse altri otto anni). Anche Kappler e il suo aiutante Erich Priebke furono condannati all'ergastolo. Il primo riuscì a evadere nel 1977, e morì pochi mesi dopo in Germania. Il secondo, catturato ed estradato solo nel 1995 in Argentina, è tuttora detenuto in semilibertà a Roma, nonostante sia ormai quasi centenario.

In questi giorni si sta compiendo in Israele l'ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine. Con la scusa di contrastare gli "atti terroristici" della resistenza palestinese contro gli occupanti israeliani, il governo Netanyahu sta bombardando la striscia di Gaza e si appresta a invaderla con decine di migliaia di truppe. Il che d'altronde aveva già minacciato e deciso di fare a freddo, per punire l'Autorità Nazionale Palestinese di un crimine terribile: aver chiesto alle Nazioni Unite di esservi ammessa come membro osservatore! Cosa succederà durante l'invasione, è facilmente prevedibile. Durante l'operazione Piombo Fuso di fine 2008 e inizio 2009, infatti, compiuta con le stesse scuse e gli stessi fini, sono stati uccisi almeno 1400 palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15 morti israeliani provocati in otto anni (!) dai razzi di Hamas. Un rapporto di circa 241 cento a uno, dunque: dieci volte superiore a quello della strage delle Fosse Ardeatine. Naturalmente, l'eccidio di quattro anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dall'esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi.

Ma a far condannare all'ergastolo Kesserling, Kappler e Priebke ne è bastato uno solo, e molto meno efferato: a quando dunque un tribunale internazionale per processare e condannare anche Netanyahu e i suoi generali?
giove(R)
00giovedì 22 novembre 2012 18:14
Re:
lucolas999, 21/11/2012 11:33:

La Repubblica cancella il post di Odifreddi su Israele. Lui lascia: “Meglio fermarsi”.
Il matematico aveva scritto parole dure sul conflitto in Medio Oriente accusando lo Stato ebraico di "logica nazista", ma il suo intervento è scomparso dopo 24 ore. Oggi il saluto ai lettori: "Continuare sarebbe un problema. D’ora in poi dovrei ogni volta domandarmi se ciò che penso o scrivo può non essere gradito a coloro che lo leggono"
Qui il suo ultimo post: odifreddi.blogautore.repubblica.it/2012/11/20/809-giorni-di-...

Di seguito il post di Odifreddi cancellato dal blog

Uno dei crimini più efferati dell'occupazione nazista in Italia fu la strage delle Fosse Ardeatine. Il 24 maggio 1944 i tedeschi "giustiziarono", secondo il loro rudimentale concetto di giustizia, 335 italiani in rappresaglia per l'attentato di via Rasella compiuto dalla resistenza partigiana il 23 maggio, nel quale avevano perso la vita 32 militari delle truppe di occupazione. A istituire la versione moderna della "legge del taglione", che sostituiva la proporzione uno a uno del motto "occhio per occhio, dente per dente" con una proporzione di dieci a uno, fu Hitler in persona.

Il feldmaresciallo Albert Kesselring trasmise l'ordine a Herbert Kappler, l'ufficiale delle SS che si era già messo in luce l'anno prima, nell'ottobre del 1943, con il rastrellamento del ghetto di Roma. E quest'ultimo lo eseguì con un eccesso di zelo, aggiungendo di sua sponte 15 vittime al numero di 320 stabilito dal Fuehrer. Dopo la guerra Kesselring fu condannato a morte per l'eccidio, ma la pena fu commutata in ergastolo e scontata fino al 1952, quando il detenuto fu scarcerato per "motivi di salute" (tra virgolette, perché sopravvisse altri otto anni). Anche Kappler e il suo aiutante Erich Priebke furono condannati all'ergastolo. Il primo riuscì a evadere nel 1977, e morì pochi mesi dopo in Germania. Il secondo, catturato ed estradato solo nel 1995 in Argentina, è tuttora detenuto in semilibertà a Roma, nonostante sia ormai quasi centenario.

In questi giorni si sta compiendo in Israele l'ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine. Con la scusa di contrastare gli "atti terroristici" della resistenza palestinese contro gli occupanti israeliani, il governo Netanyahu sta bombardando la striscia di Gaza e si appresta a invaderla con decine di migliaia di truppe. Il che d'altronde aveva già minacciato e deciso di fare a freddo, per punire l'Autorità Nazionale Palestinese di un crimine terribile: aver chiesto alle Nazioni Unite di esservi ammessa come membro osservatore! Cosa succederà durante l'invasione, è facilmente prevedibile. Durante l'operazione Piombo Fuso di fine 2008 e inizio 2009, infatti, compiuta con le stesse scuse e gli stessi fini, sono stati uccisi almeno 1400 palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15 morti israeliani provocati in otto anni (!) dai razzi di Hamas. Un rapporto di circa 241 cento a uno, dunque: dieci volte superiore a quello della strage delle Fosse Ardeatine. Naturalmente, l'eccidio di quattro anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dall'esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi.

Ma a far condannare all'ergastolo Kesserling, Kappler e Priebke ne è bastato uno solo, e molto meno efferato: a quando dunque un tribunale internazionale per processare e condannare anche Netanyahu e i suoi generali?




CVD
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lucolas999
00giovedì 31 gennaio 2013 11:12


Eroina, cresce l’uso tra i giovani
L’unico antidoto? Tifare rivolta


Quando sono venuta ad abitare all’Alberone, un quartiere semiperiferico di Roma, era il 1990 e mi capitava ancora di trovare siringhe usate in un angolo buio vicino al cancello del garage. A metà del 1992 le siringhe sono scomparse, da allora in poi l’eroina in giro si è vista sempre meno, poi non si è vista più. Si trovavano cocaina a mucchi, pasticche, molte altre sostanze, ma non la roba. Da qualche mese, quasi un anno, invece, la siringa è tornata nell’angolo. Dapprima raramente, poi sempre più spesso. Una notte di dicembre, tornando a casa alle due del mattino, ho fatto conoscenza con il nostro tossico. Anzi, mi ha parlato. “Non le dispiace se sto qui, vero?” ha chiesto, educatissimo. Un ragazzo biondo, con le occhiaie, un vestituccio corretto, le scarpe nuove. Aveva il laccio emostatico in mano, proprio quello da infermiere. Un tossico col laccio non l’avevo mai visto, i miei amici usavano la cintura. Gli ho detto: “Senti, però portati via la siringa”. Sudava, anche se eravamo un grado sotto zero. Gli oppiacei riscaldano. Volendo fare cosa gradita ai pastori himalayani, si porta in dono qualche pallina d’oppio. Allora le capre smettono di belare per la fame e il freddo, e intanto sonnecchiano. Dunque è possibile perfino tagliargli via una fettina sottile di carne viva (bella metafora, eh?). I pastori con quella carne preparano un brodo per i vecchi e le donne che hanno partorito da poco, o almeno così mi raccontava un amico che per ragioni mistiche si arrampica fin lassù da anni, e sa bene che cosa scambiare con un riparo per la notte.

Nella mia generazione (ho 54 anni) siamo divisi in due gruppi: chi si è fatto di roba e chi no. Io non mi sono mai fatta per paura degli aghi e perché l’odore dell’eroina – nel caso avessi voluto spararmela su per il naso – mi faceva vomitare.

Ma non avevo, e non ho, nessuna estraneità verso chi si faceva, come verso chi ha sparato, si è ucciso, si è perso in Oriente, oppure è impazzito. Dentro di me, dentro tutti quelli della mia età e oltre, c’è un cimitero, un mantra di nomi e di amici perduti, pianti e sepolti. Per questo sono in grado di riconoscere un segno particolare che chiamo il “teschio dell’oppio”. È qualcosa di indelebile che resta per sempre, anche quando si sopravvive, o si smette. Traspare persino sotto i segni dell’età, nel viso reso più carnoso dagli anni, sotto qualunque calvizie o sistemazione con la chirurgia plastica, a dispetto del lavoro di un ottimo dentista. Non so perché, ma gli oppiacei lasciano un imprinting che non se ne va più nel corpo e nello spirito, una specie di marchio. E mi accorgo che il teschio dell’oppio è di nuovo in circolazione. Se prendo la metropolitana o salgo sul tram di notte ormai becco almeno un teschio, talvolta due.

Ho un amico che ha cominciato a farsi a 14 anni, il primo e il più giovane tossico della mia città. Era l’inverno del ’74 e l’eroina costava niente. La spingevano a tutta forza sui muretti e davanti ai licei. L’erba e il fumo erano scomparsi, al loro posto offrivano questa polvere a basso prezzo, ce n’era quanta ne volevi. Il mio amico, era bellissimo, efebico, scriveva poesie. Girava anche in inverno con le braccia nude, perché tutti vedessimo i segni dell’ago. I suoi genitori telefonavano ai nostri e li mettevano in guardia, raccontavano di furti di argenteria, sparizioni di quadri preziosi dalla loro bella casa. Alla fine lui si è salvato attraverso peripezie inenarrabili. Ora vive lontano, fuori dall’Italia, esercita con profitto una professione liberale adatta alla sua origine, è tornato nella culla borghese da cui aveva cercato di strapparsi a forza di endovenose di eroina. Eppure, ogni volta che mette piede in città, che torna a rivedere gli anziani genitori o i fratelli, va in giro a cercarsi una dose. E se la spara. Ho un’amica che si è fatta per trent’anni. Nel frattempo ha fatto famiglia, si è inventata un mestiere di enorme successo. Qualche anno fa ha deciso di piantarla lì, si è ricoverata in una clinica. Teme la vecchiaia, il giorno in cui non potrà più uscire a cercare il pusher, immagina di dover chiedere a uno dei suoi figli: vammi a cercare la dose. Un’altra nostra vecchia conoscenza sta facendo i bagagli per trasferirsi in un posto qualunque nel Triangolo d’oro. Là potrà permettersi una pipa al mattino e una alla sera. Qui, una volta andato in pensione, al massimo può farsi di psicofarmaci – almeno finché non crolla la sanità pubblica. A lui gli psicofarmaci non piacciono.

Dopo l’incontro con il tossico sulla rampa del garage, ho passato una notte di insonnia ricordando quello che è successo a noi, e temendo quello che può succedere ai ragazzi cui voglio bene. La fascia a rischio è fra i 15 e i 19 anni, dicono gli esperti. La via è già spianata dall’alcol, il consumo è aumentato moltissimo. Sarà una strage, a meno che non scoppi una rivolta. Io tifo rivolta, sì. Nella rivolta c’è senso, c’è la speranza di rifare il mondo, ci sono creatività, socialità, erotismo. Non vedo altre vie d’uscita. E so per esperienza che la giusta, motivata, sacrosanta rabbia, quando non si rivolge contro un sistema che la crea e la rinnova, allora quasi invariabilmente viene rivolta contro se stessi. Del resto per i ragazzi non c’è niente: non c’è più sicurezza che la scuola serva a qualcosa, non c’è lavoro, non c’è cultura, non c’è protezione, non ci sono attenzione né amore, c’è la brown a sette euro a dose. Ho chiesto in giro: sette euro. Meno della bamba. Roba molto pesante, mi assicurano.

Ad aggravare la situazione, l’eroina è considerata una droga sconfitta, scomparsa, e quindi non c’è allarme sociale, non si riconoscono i sintomi, non si vedono per tempo i segnali. I genitori sono distratti, preoccupati dalla miseria che avanza per tutti, dalla disoccupazione, dai prezzi, da tutto quello che sappiamo, e che viviamo. Il marketing dell’eroina ha ricominciato a lavorare a pieno ritmo. I servizi sono stati smantellati, in modo che gli assassini possano organizzare meglio i profitti, e una potenziale generazione di ribelli – che hanno imparato a battersi allo stadio, e hanno partecipato agli scontri in piazza del Popolo e a piazza San Giovanni – finisca preferibilmente con un ago nel braccio sinistro. I benpensanti, indignati perché i ginnasiali tiravano i sassi agli autoblindo rovinando la loro Bella Festa di Sinistra, oppure quelli che predicano la morale senza chiedersi che cosa brucia dentro i nostri figli, scanseranno le siringhe con il piede, tireranno diritto. Sugli stessi giornali dove ricompaiono in cronaca trafiletti sui morti da overdose, alcuni scriveranno editoriali pensosi perché il loro cane si è punto con un ago ai giardinetti. A proposito: anche la diffusione dell’Aids fra i giovanissimi cresce, e non certo perché fanno l’amore senza protezione.

P.s. Per gli amici cani: ai giardinetti state attenti.

Paola Tavella
BeautifulLoser
00giovedì 31 gennaio 2013 11:56
Re:
lucolas999, 1/31/2013 11:12 AM:



Eroina, cresce l’uso tra i giovani
L’unico antidoto? Tifare rivolta


Quando sono venuta ad abitare all’Alberone, un quartiere semiperiferico di Roma, era il 1990 e mi capitava ancora di trovare siringhe usate in un angolo buio vicino al cancello del garage. A metà del 1992 le siringhe sono scomparse, da allora in poi l’eroina in giro si è vista sempre meno, poi non si è vista più. Si trovavano cocaina a mucchi, pasticche, molte altre sostanze, ma non la roba. Da qualche mese, quasi un anno, invece, la siringa è tornata nell’angolo. Dapprima raramente, poi sempre più spesso. Una notte di dicembre, tornando a casa alle due del mattino, ho fatto conoscenza con il nostro tossico. Anzi, mi ha parlato. “Non le dispiace se sto qui, vero?” ha chiesto, educatissimo. Un ragazzo biondo, con le occhiaie, un vestituccio corretto, le scarpe nuove. Aveva il laccio emostatico in mano, proprio quello da infermiere. Un tossico col laccio non l’avevo mai visto, i miei amici usavano la cintura. Gli ho detto: “Senti, però portati via la siringa”. Sudava, anche se eravamo un grado sotto zero. Gli oppiacei riscaldano. Volendo fare cosa gradita ai pastori himalayani, si porta in dono qualche pallina d’oppio. Allora le capre smettono di belare per la fame e il freddo, e intanto sonnecchiano. Dunque è possibile perfino tagliargli via una fettina sottile di carne viva (bella metafora, eh?). I pastori con quella carne preparano un brodo per i vecchi e le donne che hanno partorito da poco, o almeno così mi raccontava un amico che per ragioni mistiche si arrampica fin lassù da anni, e sa bene che cosa scambiare con un riparo per la notte.

Nella mia generazione (ho 54 anni) siamo divisi in due gruppi: chi si è fatto di roba e chi no. Io non mi sono mai fatta per paura degli aghi e perché l’odore dell’eroina – nel caso avessi voluto spararmela su per il naso – mi faceva vomitare.

Ma non avevo, e non ho, nessuna estraneità verso chi si faceva, come verso chi ha sparato, si è ucciso, si è perso in Oriente, oppure è impazzito. Dentro di me, dentro tutti quelli della mia età e oltre, c’è un cimitero, un mantra di nomi e di amici perduti, pianti e sepolti. Per questo sono in grado di riconoscere un segno particolare che chiamo il “teschio dell’oppio”. È qualcosa di indelebile che resta per sempre, anche quando si sopravvive, o si smette. Traspare persino sotto i segni dell’età, nel viso reso più carnoso dagli anni, sotto qualunque calvizie o sistemazione con la chirurgia plastica, a dispetto del lavoro di un ottimo dentista. Non so perché, ma gli oppiacei lasciano un imprinting che non se ne va più nel corpo e nello spirito, una specie di marchio. E mi accorgo che il teschio dell’oppio è di nuovo in circolazione. Se prendo la metropolitana o salgo sul tram di notte ormai becco almeno un teschio, talvolta due.

Ho un amico che ha cominciato a farsi a 14 anni, il primo e il più giovane tossico della mia città. Era l’inverno del ’74 e l’eroina costava niente. La spingevano a tutta forza sui muretti e davanti ai licei. L’erba e il fumo erano scomparsi, al loro posto offrivano questa polvere a basso prezzo, ce n’era quanta ne volevi. Il mio amico, era bellissimo, efebico, scriveva poesie. Girava anche in inverno con le braccia nude, perché tutti vedessimo i segni dell’ago. I suoi genitori telefonavano ai nostri e li mettevano in guardia, raccontavano di furti di argenteria, sparizioni di quadri preziosi dalla loro bella casa. Alla fine lui si è salvato attraverso peripezie inenarrabili. Ora vive lontano, fuori dall’Italia, esercita con profitto una professione liberale adatta alla sua origine, è tornato nella culla borghese da cui aveva cercato di strapparsi a forza di endovenose di eroina. Eppure, ogni volta che mette piede in città, che torna a rivedere gli anziani genitori o i fratelli, va in giro a cercarsi una dose. E se la spara. Ho un’amica che si è fatta per trent’anni. Nel frattempo ha fatto famiglia, si è inventata un mestiere di enorme successo. Qualche anno fa ha deciso di piantarla lì, si è ricoverata in una clinica. Teme la vecchiaia, il giorno in cui non potrà più uscire a cercare il pusher, immagina di dover chiedere a uno dei suoi figli: vammi a cercare la dose. Un’altra nostra vecchia conoscenza sta facendo i bagagli per trasferirsi in un posto qualunque nel Triangolo d’oro. Là potrà permettersi una pipa al mattino e una alla sera. Qui, una volta andato in pensione, al massimo può farsi di psicofarmaci – almeno finché non crolla la sanità pubblica. A lui gli psicofarmaci non piacciono.

Dopo l’incontro con il tossico sulla rampa del garage, ho passato una notte di insonnia ricordando quello che è successo a noi, e temendo quello che può succedere ai ragazzi cui voglio bene. La fascia a rischio è fra i 15 e i 19 anni, dicono gli esperti. La via è già spianata dall’alcol, il consumo è aumentato moltissimo. Sarà una strage, a meno che non scoppi una rivolta. Io tifo rivolta, sì. Nella rivolta c’è senso, c’è la speranza di rifare il mondo, ci sono creatività, socialità, erotismo. Non vedo altre vie d’uscita. E so per esperienza che la giusta, motivata, sacrosanta rabbia, quando non si rivolge contro un sistema che la crea e la rinnova, allora quasi invariabilmente viene rivolta contro se stessi. Del resto per i ragazzi non c’è niente: non c’è più sicurezza che la scuola serva a qualcosa, non c’è lavoro, non c’è cultura, non c’è protezione, non ci sono attenzione né amore, c’è la brown a sette euro a dose. Ho chiesto in giro: sette euro. Meno della bamba. Roba molto pesante, mi assicurano.

Ad aggravare la situazione, l’eroina è considerata una droga sconfitta, scomparsa, e quindi non c’è allarme sociale, non si riconoscono i sintomi, non si vedono per tempo i segnali. I genitori sono distratti, preoccupati dalla miseria che avanza per tutti, dalla disoccupazione, dai prezzi, da tutto quello che sappiamo, e che viviamo. Il marketing dell’eroina ha ricominciato a lavorare a pieno ritmo. I servizi sono stati smantellati, in modo che gli assassini possano organizzare meglio i profitti, e una potenziale generazione di ribelli – che hanno imparato a battersi allo stadio, e hanno partecipato agli scontri in piazza del Popolo e a piazza San Giovanni – finisca preferibilmente con un ago nel braccio sinistro. I benpensanti, indignati perché i ginnasiali tiravano i sassi agli autoblindo rovinando la loro Bella Festa di Sinistra, oppure quelli che predicano la morale senza chiedersi che cosa brucia dentro i nostri figli, scanseranno le siringhe con il piede, tireranno diritto. Sugli stessi giornali dove ricompaiono in cronaca trafiletti sui morti da overdose, alcuni scriveranno editoriali pensosi perché il loro cane si è punto con un ago ai giardinetti. A proposito: anche la diffusione dell’Aids fra i giovanissimi cresce, e non certo perché fanno l’amore senza protezione.

P.s. Per gli amici cani: ai giardinetti state attenti.

Paola Tavella




in realtà l'eroina è già da parecchio che è tornata alla grande proprio perché costa molto meno della cocaina: cinque o sei anni fa la stazione ostiense, appena sceso il buio, iniziava ad essere un ritrovo per chi si bucava con dosi da cinque euro. una cosa triste che mi ha ricordato il fatto che tipo il 30-40% dei ragazzi che ho conosciuto quando nella seconda metà degli anni 70 vivevo ad ancona è morto per motivi relativi all'eroina. chi pensa che questo comeback sia dovuto alla crisi economica (l'eroina costa meno della cocaina) sbaglia.
la vera ragione è l'enorme aumento della produzione di oppio nell'afghanistan dei talebani e dei warlord. e ci sarebbe da discutere quanto e in quale modo i vari contingenti della nato partecipino all'affare o lo tollerino.
lo stesso discorso va esteso ad altre sostanze stupefacenti. chi crede che il giro di affari attorno al thc sia pacifico o magari che non ci sia proprio un giro di affari e che sia una cosa ecologico se lo si produce in casa, sprechi qualche pensiero al fatto che la guerra attorno ai semi (spesso e volentieri modificati geneticamente) è altrettanto sanguinosa. ogni negozietto di quartiere che offre in vendita semi vive grazie alla guerra dei cartelli in altri continenti.
lucolas999
00giovedì 31 gennaio 2013 12:07
E che cazzo Bloser manco una canna in santa pace me posso fa ?
giove(R)
00giovedì 31 gennaio 2013 12:09
beh....
però direi che tra un mattone e la Piramide di Keope una differenzuccia ci sia...

coltivazione a casa tutta la vita altrochè.
quanti soldi in meno entrano alle mafie? ai cartelli?

non c'è proprio paragone.

e poi devo dirlo: vuoi mettere la soddisfazione. e CHE soddisfazione!!! ma CAZZO che soddisfazione!!!
giove(R)
00giovedì 31 gennaio 2013 12:11
Re:
lucolas999, 31/01/2013 12:07:

E che cazzo Bloser manco una canna in santa pace me posso fa ?




manco l'acqua ti puoi bere, e i pomodori in balcone?
diciamo che spinto al massimo il ragionamento dovremmo spararci in bocca immediatamente, perchè ogni secondo in più che viviamo è un foraggiamento alle speculazioni, alle guerre e alle ingiustizie.

siamo foraggio per il Male per il solo fatto di essere in vita.

in ultima analisi l'Uomo dovrebbe smettere di esistere.
jandileida23
00giovedì 31 gennaio 2013 12:14
Me pare un po' estrema come soluzione :)))
lucolas999
00giovedì 31 gennaio 2013 12:16
E sì appunto , se pure la sera in relax assaporo qualcosa selfmade e devo pensare alla provenienza dei semi , basta ma neanche l'acqua pure l'aria è di dubbia provenienza !
giove(R)
00giovedì 31 gennaio 2013 12:18
ammazza che soddisfazioni st'autunno inizio inverno che me sò preso CAZZO...
BeautifulLoser
00giovedì 31 gennaio 2013 12:54
mi spiace ragazzi, ma purtroppo è la realtà dei fatti.
nell'occidente chi consuma sia fa complice di una violenza perpetuata altrove, che si tratti del consumo di un prodotto legale o illegale o *semi*legale non importa.

il valore aggiunto (in senso economico), la prosperità, la ricchezza non sono entità o risorse infinite. si tratta di un torta che va divisa. e sulla grandezza dei vari spicchi di torta ci si fa la guerra. quella vera, con i morti veri.
sentivo il bisogno di ricordarlo, pensando alla gente persa per strada.

in questo contesto non esiste nemmeno l'autarchia, come invece vorrebbero farci credere parecchi gruppi no global o i propagandisti della regionalizzazione e della localizzazione (il made in "dove ti pare").

per quanto riguarda gli stupefacenti, si tratta di un mercato sommerso, nel senso che non è "aperto" (in realtà non è mai un'apertura ma un monopolio) e controllato da cartelli "ufficiali" come ad esempio quelli del caffè, del tè, della vaniglia o della cannella. o quelli dei diamanti e dello zolfo. (chi più ne ha più ne metta.)
il monopolio garantisce che la violenza necessaria per imporsi sul mercato si trasformi in violenza strutturale: i prezzi bassissimi pagati al produttore, le miserabili condizioni di lavoro ecc.
nel mercato sommerso la violenza non può essere strutturale ma ha le sembianze di una guerra tra cartelli illegali.
le varie politiche antidroga dei vari paesi consumatori, di cui fa parte anche l'italia, sono riuscite a spostare quasi totalmente la guerra tra questi cartelli nei paesi di produzione. un'eccezione sono le droghe chimiche prodotte spesso nei laboratori delle periferie europee, mentre negli stati uniti sono prodotti nelle periferie dei grandi centri (e lì la guerra tra cartelli impera eccome).
del thc e della canna fatta in santa pace si parla poco. semplicemente perché è chic (quasi quasi mi verrebbe da dire: "radical chic"). perché ha quell'immagine a metà tra medicinale, prodotto ecologico (con il cannabis ci si fanno anche i vestiti), prodotto di bricolage pseudo-autarchico (coltivato nella serra fatta in casa) e droga leggera (che in realtà non vuole dire niente). e perché c'è tutta un'ideologia semiscientifica e giustificativa che si accampa attorno al semplice fatto che si tratta di un mercato *enorme* in cui girano cifre *enormi*. ed è sicuro come la morte che dove ci sono cifre di una certa entità c'è, appunto, anche la morte.
inutile farsi illusioni.

BeautifulLoser
00giovedì 31 gennaio 2013 13:11
Re: Re:
giove(R), 1/31/2013 12:11 PM:




manco l'acqua ti puoi bere, e i pomodori in balcone?
diciamo che spinto al massimo il ragionamento dovremmo spararci in bocca immediatamente, perchè ogni secondo in più che viviamo è un foraggiamento alle speculazioni, alle guerre e alle ingiustizie.

siamo foraggio per il Male per il solo fatto di essere in vita.

in ultima analisi l'Uomo dovrebbe smettere di esistere.




in realtà non è quello il senso del ragionamento.
e lo scopo non è spingerlo al massimo o di semplificarlo al minimo a forza di fucilate in bocca.

l'acqua è motivo di guerra lì dove non c'è.
altrove la si vuole "privatizzare" o "statalizzare" (dov'è la differenza?), mentre la si spreca o la si avvelena.

un altro discorso sarebbe da fare sulla produzione e distribuzione di semi agricoli in scala industriale controllata da certi cartelli e sull'interesse dei cartelli farmaceutici (monsanto, basf, bayer, syngenta, dupont, dow chemical) di imporre i propri semi geneticamente modificati.

lo scopo sarebbe quello di ridurre il proprio grado di complicità e di optare per modi di fare economia che producono meno violenza.
jandileida23
00giovedì 31 gennaio 2013 13:43
Re: Re: Re:
BeautifulLoser, 31/01/2013 13:11:



altrove la si vuole "privatizzare" o "statalizzare" (dov'è la differenza?), mentre la si spreca o la si avvelena.





La differenza ci sarebbe eccome e sarebbe pure sostanziale se solo non fosse che anche gli "stati" sono orami asserviti a logiche economiche rispondenti al più bieco liberismo
BeautifulLoser
00giovedì 31 gennaio 2013 14:03
Re: Re: Re: Re:
jandileida23, 1/31/2013 1:43 PM:




La differenza ci sarebbe eccome e sarebbe pure sostanziale se solo non fosse che anche gli "stati" sono orami asserviti a logiche economiche rispondenti al più bieco liberismo




bingo!
giove(R)
00giovedì 31 gennaio 2013 15:58
conosco benissimo le logiche dei monopoli, delle multinazionali, i semi geneticamente modificati perchè diano piante che non facciano semi...dei cartelli, ecc... Patric.

tuttavia penso che coltivare ..ciò che si può coltivare (ad esempio non l'haschish ma la marijuana) come prodotto finito, ognuno a casa sua, sia una bella mazzata per le mafie e i loro traffici.

se la cosa fosse sdoganata, dal primo ciccetto d'erba che ti capita in mano (quello si, di provenienza sporca), ci prendi i 5,6 7 semi.
e da lì ti sdogani.

e diventa persino un bene "gratis".

non sto dicendo una cosa campata chissà dove... tant'è vero che la coltivazione ognuno pe li cazzi sua è osteggaita e perseguita, nonostante alcune aperture.

ti ricordo che la marjuana è stata bandita a tavolino.
si è scelto che la marjuana è pericolosa e l'uva o il luppolo o il malto no.

poi vai a vedere morti per alcolissmo ne sono alstricate le vie dell'aldilà.

mentre, per dirla con i Pitura Feska:

"de marjuana NON E' MAI MORTO NISUNI!!"

avoja a stroncare escobar, talebani, messicani e thailandesi, totò riina, u' curtu, u' sciancatu, ecc ecc.

secondo me è proprio il proibizionismo una delle migliori sponde ai mali che hai spiegato.
lucolas999
00lunedì 16 febbraio 2015 10:09
per Luca
Pubblichiamo alcuni stralci del saggio di Massimo Fini “Una vita – un libro per tutti o per nessuno”, appena uscito per Marsilio.

La mia vita, che qui racconto, ha attraversato questa terra di nessuno. Anche se ha qualche peculiarità (sono figlio di tre culture, italiana, russa, francese e ho fatto un mestiere, quello del giornalista, che mi ha permesso, forse, di avere un angolo di visuale privilegiato e più ravvicinato su certi protagonisti e su alcune situazioni, sociali, antropologiche e, in misura minore, politiche) non si differenzia da quelle degli uomini e delle donne delle generazioni che si sono susseguite nel dopoguerra”. (…)

La lettera ad Agnelli mai spedita da De Bortoli. Un giorno di dicembre del 1987 Ferruccio de Bortoli, capo delle pagine economiche del Corriere della Sera, mi telefonò: voleva propormi una serie di servizi e desiderava vedermi. Andai a trovarlo al giornale. Mi disse che sotto le feste aveva intenzione di pubblicare una serie di lettere di auguri di Natale ad alcuni dei più importanti imprenditori italiani. “Naturalmente mi spiegò la lettera dovrà essere un pretesto per fare dei ritratti polemici, dissacranti, come sai fare tu”. “Non hai bisogno di incoraggiarmi su questa strada”, dissi io, tetro. “Insomma voglio che tu scriva come sai, ti ho chiamato per questo”. Mi disse di buttar giù una lista di cinque, sei nomi e di portargliela. Io ci misi Ligresti, Lucchini, De Benedetti, Gardini e un altro di cui ora non ricordo il nome. De Bortoli approvò, ma sostituì Gardini con Gianni Agnelli. “Agnelli? Ma sei sicuro? – dissi io– È il padrone del Corriere…”. “Non ti preoccupare, io e Anselmi vogliamo dare una maggior aggressività alle pagine economiche e in una lista come questa Agnelli non puo mancare”. Poi mi porto da Anselmi che era condirettore (direttore era l’ultrasettantenne Ugo Stille, il mitico ‘ Misha’) e con lui mettemmo a punto gli ultimi dettagli.

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Io che ero un po’ stupito di questi improvvisi coraggi che non erano mai appartenuti alla storia del Corriere chiesi timidamente ad Anselmi: “Ma Stille è d’accordo?”. “Il giornale lo gestisco io” rispose lui, gelido. La prima ‘lettera’ la mandai a Ligresti e non ci furono problemi, venne pubblicata con bella evidenza il 20 dicembre 1987. (…) La ‘lettera’ a Lucchini fu pubblicata il 22 dicembre. Quelle a De Benedetti e ad Agnelli avrebbero dovuto uscire nei due giorni successivi. Preparai il pezzo sul presidente dell’Olivetti e lo portai a De Bortoli (il fax non si usava ancora) poi me ne tornai a casa per scrivere quello su Agnelli. Mentre ero lì che battevo sui tasti, scervellandomi su come cavarmela senza scrivere un soffietto ma anche senza toccare nervi troppo scoperti, mi telefonò De Bortoli: la ‘lettera’ a De Benedetti era troppo hard. “Bisogna fare dei ritocchi, degli aggiustamenti, ammorbidire, smussare. Vieni domani mattina al giornale”. Ci andai portando, già che c’ero, anche il pezzo su Agnelli. Ferruccio mi segnalò i punti a suo dire scabrosi, mi indicò una scrivania e una macchina da scrivere e mi misi al lavoro. Quando finii consegnai il tutto a De Bortoli che lesse con molta attenzione, approvò e scrisse di suo pugno in testa al pezzo le indicazioni per mandarlo in tipografia. Ma prima lo fece vedere ad Anselmi. Che a sua volta lesse, rilesse e diede l’ok. “Però – disse – bisogna farlo vedere a Stille. E anche l’articolo su Agnelli”. Prese i due pezzi e sparì nella stanza del direttore del Corriere che era poco più in là. Ritornò dopo una ventina di minuti. “Stille dice che è troppo duro, che non è da Corriere, che bisogna aggiustare, ritoccare, ammorbidire, smussare”. “Se è così – risposi io – non facciamone nulla e non se ne parli più”. “No, no – disse spaventato Anselmi – abbiamo annunciato una serie, che figura ci facciamo? Gli deve essere saltata la mosca al naso, a Stille, prima o poi gli passa. Tu aspetta qui, tra poco ci torno e lo convinco”.

Da quel momento nei severi e austeri corridoi del Corriere, onusti di gloria e di prestigiosi fantasmi, in un’atmosfera ovattata, gallonata e quasi surreale, insomma in mezzo a quella paccottiglia retorica che tende a occultare che questo giornale è da sempre schierato col Potere, quale che sia, cominciò un penoso deambulare, un andirivieni sempre più frenetico e imbarazzante di Anselmi e De Bortoli e poi del solo Anselmi con la stanza che era stata di Albertini, ora occupata da Stille. Io guardavo e rabbrividivo. (…) La cosa durò quattro ore. Ritornando affranto dall’ennesima sosta nella stanza di Stille, Anselmi (che, come De Bortoli, è una bravissima persona, cosa rara in giornalismo dove i gaglioffi, oggi più di ieri, abbondano) mi disse, allargando le braccia: “Mi spiace, Stille in genere controlla un pezzo su quattrocento, purtroppo è toccato al tuo”. “Pazienza – risposi – sarà per un’altra volta”, sapendo che non ci sarebbe stata. Naturalmente della ‘serie’ sugli imprenditori non si parlò più né tantomeno del pezzo su Agnelli di cui però feci in tempo a vedere che avevano tagliato il passo sulle concentrazioni editoriali in cui la Fiat, allora più di oggi, era implicata in prima linea. (…)

L’alcol, la depressione e Catherine Spaak. Nel novembre 1981, a due anni circa dall’inizio della depressione, il direttore di Penthouse italiano, Gian Franco Vene, che voleva dare un po’ di spessore a quel giornale, mi chiese di fare un’intervista jusqu’au bout a Catherine Spaak. Per me prendere un aereo per Roma era ancora un grande sforzo. Incontrare la Spaak, che era stata un mito della mia generazione, aggravava le cose. Arrivai in via dell’Anima dove aveva una bellissima casa che, da un lato, dava su piazza Navona. Nei suoi 38 anni, con i biondi capelli raccolti da un nastrino rosso, era bellissima e affascinante, molto più dell’implume ragazzina che fa impazzire Ugo Tognazzi ne La voglia matta. Io mi sentivo svenire. Temevo di morire davanti a lei. L’ignominia assoluta. Catherine si accorse quasi subito che c’era qualcosa che non andava. “Non si sente bene?”. “Sì, non mi sento bene”, ebbi il coraggio di confessarle. Lei fu molto comprensiva, accuditiva, quasi materna, caratteristiche che, avendola conosciuta meglio in seguito, non direi che facessero proprio parte del suo carattere.

Era rigida. Incasellava ogni cosa in certe cellette del suo cervello, ben ordinate e separate come quelle dell’alveare di un apicultore. Questo bisogno d’ordine, quasi maniacale, si notava anche nella sua casa, non c’era incartamento, plico, mazzo di matite che non fosse accuratamente avvolto in un vezzoso nastrino, ognuno di diverso colore. Io la chiamavo ‘la tedesca’. A quell’età, non più ninfetta, aveva il fascino e l’eleganza di una donna della grande borghesia europea. Suo zio, Henry Spaak, era stato, con Adenauer e De Gasperi, uno dei padri dell’idea di un’Europa unita. In quel periodo si era messa a fare la giornalista e lavorava con impegno e diligenza per pochi soldi, lei ricchissima. “Venga, andiamo di là, in cucina, a farci un caffè”. Chiacchierammo per un po’ e poi, tornati in sala, facemmo l’intervista. Rientrato a Milano scrissi, di notte, l’articolo di 15 cartelle che mi era stato richiesto, cui Vene diede il titolo Catherine Spaak – Una donna dell’Europa borghese (Penthouse, novembre 1981). Quella confessione fu liberatoria. La depressione si affievolì fino a sparire del tutto. In seguito capii cosa era successo. Per vent’anni l’alcol mi aveva protetto come una seconda pelle. Dopo mi ritrovai come se al posto della pelle ci fosse la carne viva, allo scoperto. Nei due anni di depressione avevo dovuto ricostruire la mia personalità, senza la difesa dell’alcol. Giurai a me stesso che non avrei piu toccato una goccia di liquore. Ero stato troppo male. (…)

Le tre domandine che spaventarono B. Il terzo incontro con Silvio Berlusconi fu un non-incontro. C’erano le elezioni del 1996. Mi telefonò la direttrice di Annabella: “Vogliamo fare due interviste, una a Prodi e una a Berlusconi. Ma vogliamo che chi li intervista non sia un giornalista compiacente, ma che sia anzi un antagonista. Per Prodi abbiamo pensato a Giordano Bruno Guerri, quella a Berlusconi vorremmo che la facessi tu”. “Ma guarda che a me l’intervista non la dà”. “Figurati, siamo sotto elezioni e Berlusconi ha tutto l’interesse a parlare su un giornale ‘femminile’ come il nostro. Eppoi siamo già d’accordo. Devi solo telefonare all’ufficio stampa di Milano di Forza Italia”. Telefonai. L’accordo era che avrei fatto delle domande scritte cui Berlusconi avrebbe risposto e poi ci saremmo visti per un vis-à-vis di 45 minuti ad Arcore. Mandai le domande all’Ufficio Stampa di Milano che le trasmise a quello di Roma per un vaglio definitivo. Dovevo quindi telefonare a Roma.

Mi rispose Paolo Bonaiuti. “Ah, sei tu?” domandai un po’ sorpreso. Quando eravamo stati colleghi al Giorno negli anni Ottanta Bonaiuti era di sinistra, per lui io ero un mezzo fascista. “Ma qui ci sono delle domande…”. “Paolo, sono domande scritte, lui, o chi per lui, ha tutto il tempo di rifletterci sopra e di rispondere a tono”. “Ma ci sono queste domande sulla mafia…”. Avevo posto la questione più o meno in questi termini: “Lei dà molta importanza ai valori di lealtà e di fedeltà. Ma questi sono anche i valori omertosi della mafia. In che modo i suoi concetti di lealtà e fedeltà si differenziano da un legame mafioso?”. All’interno delle tre domande che vertevano su questo argomento davo naturalmente per scontato che per Berlusconi i valori di lealtà e di fedeltà fossero interpretati in modo molto diverso da quello dell’omertà mafiosa. Ma questo a Bonaiuti non bastava. “Non potresti togliere quelle tre domande? Eppoi ce ne sono anche un altro paio…”. “No”. “Fammici riflettere. Ne parlerò col Presidente. Ti richiamo io”. Non richiamò. Quell’intervista non si fece.

Mandai a Berlusconi un biglietto: “Egregio Cavaliere, io l’ho sempre criticata ma non le ho mai negato il coraggio. Vederla fuggire, come una lepre impaurita davanti a tre domandine scritte non mi pare degno di lei. Massimo Fini”. Il biglietto glielo avevo mandato brevi manu spedendo ad Arcore un fattorino dell’Indipendente. Dopo nemmeno tre ore suonano alla mia porta. È un gigantesco valet gallonato che mi consegna una lettera. È di Berlusconi che mi copre di insulti di ogni genere. Ma, come scrive Nietzsche, “anche la lettera più villana lo è meno del silenzio”. Anche questo, a suo modo, era un segno di attenzione. Che poteva importargli di una zanzara, sia pur molesta, quale ero io ai suoi occhi? Considero Silvio Berlusconi deleterio nella storia del nostro Paese, perché, col supporto dei suoi ‘ servi liberi’, ha contribuito a togliere agli italiani quel poco di senso della legalità, e oserei dire anche della dignità, che gli era restato.

da il Fatto Quotidiano del 15 febbraio 2015

Una vita. Un libro per tutti o per nessuno
di Massimo Fini
casa editrice “Marsilio”
2015
pp. 252
lucaDM82
00lunedì 16 febbraio 2015 19:22
grazie luco,su fb avevo letto di questo libro in uscita.
In realtà vorrei comprare qualche suo vecchio libro,ne ha fatti di interessanti,non solo sui soliti temi ma anche biografie di personaggi letti a modo suo.
giove(R)
00giovedì 19 febbraio 2015 15:43
me piace, lo prendo.

grandi palle e non solo, e anzi devo ringraziare Luca perchè non lo conoscvo fino a qualche anno fa in cui ne parlasti.
giove(R)
00giovedì 19 febbraio 2015 15:54
eheheh stavo a rilegge la querelle sulla maria self made....

certo, l'essere intelligenti e l'essere pure informati è una gran cosa.
un pò meno essere tanto rigidi da annullare queste qualità.

lucaDM82
00martedì 24 febbraio 2015 23:14
[SM=x2478856] riguardo al libro di m fini,feltri nel suo editoriale praticamente dopo che gli ha fatto i complimenti gli ha detto che è un pirla perchè non si è piegato agli editori dunque non ha fatto carriera.
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