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Guerre

Ultimo Aggiornamento: 28/06/2023 21:50
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18/03/2011 11:09
 
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La guerra thailandese che non va sui giornali


Nel "Sud musulmano", a poche ore dalle spiagge dei turisti, dal 2004 a oggi una guerriglia separatista ha causato 4.500 morti


Nelle ultime 24 ore, si sono contati otto morti: e circa 4.500 vittime dal 2004, quando è iniziata questa nuova ondata di violenza. Ma quanti di voi hanno mai sentito parlare della situazione nell'enclave meridionale della Thailandia a maggioranza musulmana e di etnia malay? La guerriglia separatista nelle province di Pattani, Yala e Narathiwat è una tra le storie meno raccontate dai media mondiali. I turisti lì non vanno, anche i thailandesi confinano il problema in un recinto e preferiscono non pensarci, il conto delle vittime è uno stillicidio, quasi mai fatto di atti clamorosi. E quindi, “non fa notizia”.
Ho passato la settimana scorsa in quelle zone. Senza sentirmi mai in pericolo, nonostante il solo menzionare la mia destinazione provocasse costanti raccomandazioni (“è pericoloso!”) da parte di svariati conoscenti, a riprova di quanto le tre province siano separate – geograficamente e idealmente – dal resto della Thailandia. Purtroppo, questo essere “accantonate” lì dove non possono nuocere a chi non ci abita rende ancora più complicata la soluzione di una questione che la Thailandia si porta avanti da inizio Novecento.

Fino a quel periodo, il sultanato di Patani era uno dei tanti territori semi-indipendenti del Sud-est asiatico, pagando però un tributo al regno di Siam (prima della delimitazione di confini certi su pressione della Francia e dell'Inghilterra, questi territori spesso pagavano tributi a più Stati, in un sistema che lo storico thailaldese Thongchai Winichakul ha paragonato a una vera e propria “mafia”). Il fatto che una regione di etnia malay e religione musulmana sia stata poi inglobata in una Thailandia monoliticamente buddista ed etnicamente sino-thai-laotiana, a oltre mille chilometri da Bangkok, è una specie di incidente della Storia.

Un'analisi completa delle ragioni dietro la violenza richiederebbe troppo spazio anche per un blog. Diciamo che ci sono due modi di vedere il problema. Uno parte dall'aspetto religioso, e inquadra il problema nell'ambito di un risveglio islamico sull'onda di Al Qaeda: è la versione, non a caso, di alcuni analisti americani specializzati sul terrorismo. L'altra interpretazione, prevalente, sposta l'attenzione più sulle rivendicazioni storico-politiche e sulla mancanza di “legittimità” - come ben spiegato dallo studioso inglese Duncan McCargo – dello Stato thailandese in quelle zone.

Gli omicidi, gli agguati e occasionalmente gli attentati esplosivi sono quasi quotidiani, in questa zona abitata da 1,8 milioni di persone e dove i ribelli – senza un nome, un logo, un leader riconosciuto né rivendicazioni dei loro attacchi – si mescolano tra la popolazione. I posti di blocco dell'esercito sono frequenti. Militari e paramilitari armati di fucile pattugliano le strade delle città. Nei luoghi più affollati i motorini devono essere parcheggiati con il sedile sollevato, per il timore di bombe. Molti funzionari pubblici – impiegati, insegnanti – vanno al lavoro con la scorta. Sono in particolare i buddisti ad avere più timore delle violenze, anche se buona parte dei 4.500 morti sono musulmani, uccisi dai ribelli perché sospetti collaboratori da militari e paramilitari o da civili buddisti, in vendette incrociate.

Nonostante molti musulmani di Pattani, Narathiwat e Yala simpatizzino con il sogno dell'indipendenza, per calmare la situazione probabilmente basterebbe una sostanziale autonomia alla regione. Che invece, come tutta la Thailandia, viene in sostanza gestita da Bangkok, dove vengono nominati i governatori provinciali. Ma le autorità thailandesi temono che una potenziale autonomia sia il primo passo verso una richiesta di indipendenza, e in sostanza non hanno mai presentato nessuna proposta in merito.

Su qualche editoriale, purtroppo raramente, si trovano commenti in questa direzione. Ma il problema è anche che il sistema politico thailandese, operando sotto la premessa che il re Bhumibol è il più virtuoso dei regnanti, quasi non concepiscono come degli abitanti del glorioso Siam possano ambire all'autodeterminazione e a una forma di governo migliore. Parte di questo discorso è sicuramente di convenienza; ma più sto qui e più noto che, gratta gratta, questo concetto è profondamente impresso anche nella popolazione.

Dell'argomento, sui media thailandesi si parla molto poco. La conta delle vittime viene ridotta quasi allo spazio di una breve sui giornali, tanto è diventata routine. Soprattutto, la mia impressione è che non si vada mai a fondo sulle cause della situazione. Anche un incoraggiante film come “Citizen Juling”, un documentario che parte dalla storia di una giovane insegnante buddista uccisa in un villaggio del “Sud musulmano”, a me era sembrato più un'occasione sprecata per spiegare ai thailandesi il problema: mostrava – per oltre tre ore e mezza – la sofferenza di molti innocenti, ma senza grattare la superficie o fornire un minimo di contesto. Il “Sud” non turba il sonno del thailandese medio. E anche per questo, lo stillicidio dei morti sembra destinato a continuare.



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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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