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Guerre

Ultimo Aggiornamento: 28/06/2023 21:50
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01/09/2010 10:24
 
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Obama: "La guerra in Iraq è finita ma la nostra missione continua"

"Ho mantenuto la promessa sul ritiro, la lotta sarà ancora dura". Prima del messaggio televisivo dallo Studio Ovale una telefonata a George W. Bush, l'artefice della "guerra sbagliata"


WASHINGTON - "Questa sera vi annuncio che la missione di combattimento dell'America in Iraq è finita". Barack Obama ha scelto lo Studio Ovale della Casa Bianca, il quadro più solenne, per parlare alla nazione alle otto di sera. Un annuncio storico, "una pietra miliare", l'ha definita: "L'Operazione Iraqi Freedom è chiusa. Da questo momento sono gli iracheni ad avere la responsabilità della sicurezza del loro paese". Con orgoglio Obama ha rivendicato di aver mantenuto la promessa agli americani: "Questo fu il mio impegno da candidato. Dissi che avrei ritirato tutte le truppe da combattimento e l'ho fatto. Quasi centomila dei nostri soldati hanno lasciato l'Iraq". Obama nel pomeriggio aveva spiegato che "non è il momento di celebrare vittorie". E in serata ha ricordato il "prezzo immenso" che gli Stati Uniti hanno pagato, in vite umane e in risorse economiche, "per mettere il futuro dell'Iraq nelle mani del suo popolo, dare un nuovo inizio a questa culla della civiltà umana". Dopo quello che ha definito "un capitolo eccezionale nella storia, abbiamo assolto la nostra responsabilità, adesso è tempo di voltare pagina".

Un discorso misurato, difficile: lontano dai toni pacifisti della campagna elettorale che esaltarono l'ala sinistra del suo partito. Obama ha dovuto ricordare l'altra guerra in corso, l'Afghanistan, dove ha ammonito che "i combattimenti continueranno ad essere molto difficili": 22 morti negli ultimi 5 giorni, è il bilancio peggiore dall'inizio della guerra.

Sull'Iraq è stato attento a non ripetere l'errore di George Bush quando annunciò trionfalmente "Mission accomplished" a pochi mesi dall'invasione. Ma il presidente in carica non può tagliare ogni continuità con il suo predecessore che, infatti, ha chiamato al telefono poco prima di parlare al paese: se da candidato attaccò l'invasione dell'Iraq come "sbagliata", ora Obama non può prenderne le distanze senza offendere la memoria dei 4.427 soldati americani che hanno perso la vita su quel fronte (più oltre 34.000 feriti e mutilati).

"Rendo omaggio al milione mezzo di americani in uniforme che hanno servito in Iraq. Sono fiero di essere il vostro comandante capo, avete fatto un lavoro straordinario". Poi l'appello ai dirigenti iracheni: "È ora che facciate un passo avanti, che prendiate in mano voi la sicurezza del paese". Un'allusione alle faide interne che impediscono la formazione di un nuovo governo da marzo.

È essenziale che funzionino le istituzioni locali, ha detto Obama, perché lui manterrà anche l'altra promessa: "Il ritiro entro la fine del 2011 dei soldati rimanenti", quei 50.000 militari Usa che tuttora restano in Iraq anche se ufficialmente in posizioni di supporto e addestramento. Un ritiro indispensabile per "spostare risorse verso il rilancio dell'economia, la priorità assoluta", in un'America stremata dal costo delle guerre. Muovendosi su un sentiero stretto, per non contraddire le sue critiche a Bush ma non delegittimare il lavoro fatto in Iraq, Obama ha proseguito: "L'Iraq ora ha l'opportunità di costruirsi un futuro migliore, e l'America è più sicura". Ha elencato i compiti che rimangono e giustificano per oltre un anno i 50.000 soldati rimanenti, "alcuni dei quali stanno partendo oggi per l'Iraq". Obama ha spiegato: "Abbiamo lavorato troppo per lasciare l'opera incompiuta. In Iraq è cruciale continuare ad assistere le forze di sicurezza locali. Poi dobbiamo proteggere il nostro personale civile, diplomatici e specialisti degli aiuti umanitari che affiancano gli sforzi del popolo iracheno per ricostruire il paese". Non è un addio, è una nuova fase della presenza americana in Iraq che si apre. Uno sforzo senza precedenti assegnato al personale civile, sotto la guida di Hillary Clinton.

Una finzione sottile. "Che accadrà se al Qaeda dovesse riprendere ad attaccare i nostri ragazzi rimasti là?", si è chiesto ieri Paul Bremer che fu plenipotenziario di Bush in Iraq. Sulle contraddizioni di Obama si è scatenata l'opposizione. Il capo dei repubblicani alla Camera, John Boehner, ha rivangato le posizioni di Obama in campagna elettorale: "Prima si oppose con tutte le sue forze alla strategia del potenziamento militare, oggi si vanta dei risultati come fossero merito suo". Non aiuta Obama il fatto che il suo segretario alla Difesa, Robert Gates, sia repubblicano: l'unico membro dell'Amministrazione Bush riconfermato. Proprio Gates ieri mattina, parlando all'American Legion a Milwaukee, ha rivendicato una continuità di strategie fra le due guerre, l'Iraq e l'Afghanistan, l'escalation di Bush e l'escalation di Obama (che ha portato a 100.000 gli uomini sul suolo afgano). Un nesso inevitabile, e al tempo stesso insopportabile per Obama che ha sempre cercato di evitare l'amalgama tra le due guerre. "In Afghanistan siamo a caccia di al Qaeda - ha precisato in serata il presidente - cioè dei terroristi che attaccarono l'America e continuano a tramare contro di noi. Dopo l'11 settembre questa nazione si è unita nella promessa che non lasceremo ripetere una simile aggressione. Siamo a caccia di coloro che hanno perpetrato quel crimine e non gli daremo tregua".
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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04/09/2010 12:57
 
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Guerre attualmente in corso ( dal sito guerrenelmondo.it )


AFRICA:
(16 Stati e 39 tra milizie-guerriglieri e gruppi separatisti coinvolti)
Algeria: scontri tra esercito regolare e il gruppo islamico al-Qaida nel Maghreb islamico (AQMI) dal 2005 (conosciuto in passato come Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC) nel 2003)

-Angola: scontri tra esercito regolare e:

•Fronte di Liberazione di Cabinda - Posizione Militare (Flec-PM) movimento secessionista dal 1975
•Fronte per la Liberazione dell’Enclave di Cabinda - Forze armate di Cabinda (Flec-Fac)
-Ciad: scontri tra esercito regolare e Union of Resistance Forces (URF)

-Gibuti: scontri tra esercito regolare e ribelli Front for the Restoration of Unity and Democracy (FRUD)

-Eritrea: scontri tra esercito regolare e:

•Democratic Movement for the Liberation of the Eritrean Kunama (DMLEK)
•Eritrean Salvation Front (ESF)
•Red Sea Afar Democratic Organisation (RSADO)
•Continue tensioni per questioni di confine con l’Etiopia e Gibuti
-Etiopia: scontri tra esercito regolare e:

•ONLF (Ogaden National Liberation Front) con la sua ala armata Ogaden National Liberation Army (ONLA) lotta per l’Indipendenza dell’ Ogaden dal Governo Etiope dal 1984
•OLF (Oromo Liberation Front) lotta per l’Indipendenza di Oromo dal Governo Etiope dal 1973
•United Western Somali Liberation Front (UWSLF) dal 1970 (accetta di deporre le armi ad Aprile 2010)
-Mauritania: Esercito mauritano contro il gruppo islamico al-Qaida nel Maghreb islamico (AQMI) dal 2005 (conosciuto in passato come Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC) nel 2003)

-Nigeria: Esercito nigeriano contro il Mend (Movimento per l’emancipazione del delta del Niger)

-Repubblica Centrafricana: scontri tra esercito regolare e:

•CPJP (Convention of Patriots for Justice and Peace)
•FDPC (Democratic Forces for the People of Central Africa)
-Repubblica Democratica del Congo: scontri tra esercito regolare e:

•Lord’s Resistance Army (LRA) nate nel 1987 contro le forze armate congolesi e ugandesi
•Popular Front for Justice in Congo
•Independent Liberation Movement of the Allies conosciuto anche come (Nzobo ya Lombo)
•Milizia pro-governativa chiamata Mai Mai Yakutumba
•Fronte democratico di liberazione del Ruanda o Forces démocratiques pour la libération du Rwanda (FDLR)
•Alliance des patriotes pour un Congo libre et démocratique (APCLS)
•Patriotes résistants congolais (PARECO)
-Ruanda: Esercito ruandese contro la milizia Hutu ruandese

-Sahara Occidentale: Lotta del Fronte Polisario contro l’occupazione del Marocco.

-Somalia: scontri tra esercito regolare e forze dell’Unione Africana (UA) e:

•Al-Shabaab gruppo somalo islamico
•Hizbul Islam gruppo islamico (nato il 4 Febbraio 2009 dall’unione di 4 gruppi)
•Hisb al-Islam
•Milizia Sufi Ahlu Sunna Wal Jamaca (ASWJ) (gruppo islamico pro-governativo contro Al-Shabaab e Hizbal Islam dal 17 Marzo 2010)
-Somaliland - Puntland: scontri tra entrambi gli eserciti contro SSC [Sool, Sanag, Cayn], l’ala armata di un gruppo che si autodefinisce Northern Somalia Unionist Movement (NSUM). L’esercito del Puntland combatte contro la milizia Galgala.

-Sudan: lotta tra il Governo del Sudan del Nord islamico contro il Sudan del Sud cristiano dal 2005. Il Governo è in lotta anche con le popolazioni del Darfur dal 2003. Si segnalano anche continui scontri con i ribelli:

•Jem (Justice and Equality Movement) dal 2006 (Ha firmato un cessate il fuoco con il Governo nel Febbraio 2010)
•Il gruppo Liberation and Justice Movement (LJM) include 10 piccoli gruppi ribelli dal Febbraio 2010 (Ha firmato un cessate il fuoco con il Governo nel Marzo 2010)
•Sla (Sudan Liberation Army) dal 2002
•Sla-Nour (Sudan Liberation Army fazione Abdul Wahid Nour)
•National Redemption Front (NRF) dal 2006
•Sudan Liberation Movement – Revolutionary Forces (SLM-RF) dal 2006
•Nel 2006 JEM e SLA hanno formato l’Alliance of Revolutionary Forces of West Sudan
•Sudan People’s Liberation Army (SPLA)
-Uganda: scontri tra esercito regolare e:

•Lord’s Resistance Army (LRA) nato nel 1987 contro le forze armate ugandesi e congolesi
•Al-Shabaab gruppo somalo islamico



ASIA:
(11 Stati e 29 tra milizie-guerriglieri e gruppi separatisti coinvolti)
Afghanistan: guerra tra esercito regolare afghano e forze Onu contro:

•talebani dal Dicembre 2001
•Hezb-e-Islami Gulbuddin (HIG) dal 1977
•Hezb-e Islami Khalis (HIK) dal 1979
Birmania-Myanmar: scontri tra esercito regolare e:

•milizie etniche dei Kokang (Myanmar National Democratic Alliance Army (MNDAA) dal 1989
•milizie etniche dei Karen del Karen National Union (KNU) dal 1949
•ribelli Shan del Myanmar Peace and Democracy Front (MPDF)
•ribelli United Wa State Army (UWSP) dal 1989
Cina: scontri tra esercito regolare e Eastern Turkistan Islamic Movement (ETIM)

Coree: Schermaglie al confine tra Corea del Nord e Corea del Sud

Filippine: scontri tra esercito regolare e:

•gruppo separatista islamico Abu Sayyaf dal 1990
•gruppo separatista islamico Moro Islamic Liberation Front dal 1981
India: scontri tra esercito regolare ed i seguenti gruppi ribelli:

•separatisti islamici del Kashmir il Fronte per la Liberazione del Jammu (JKLF) dal 1977
•Mujahedeen Hezb-ul (HuM) dal 1989
•Lashkar-e-Toiba dal 1989
•maoisti di Orissa dal 2004
•maoisti Naxaliti dello Jharkhand dal 1967
•separatisti di Nagaland dal 1980
•ribelli di Assam dello (United Liberation Front of Asom) dal 1979
•Comitato per il popolo contro la politica di atrocità
•National Democratic Front of Bodoland (NDFB)
•People’s Liberation Guerrilla Army
•Ogni tanto si segnalano scontri al confine tra esercito indiano e pakistano
Indonesia: scontri tra esercito regolare e:

•Free Papua Movement Rebels
•piccoli gruppi ribelli separatisti ad Aceh
Pakistan:

•ribelli di Lashkar-e-Taiba Al Alami (LeT-international)
•Movimento dei talebani del Pakistan (TTP) o Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP)
•Scontri tra esercito regolare e ribelli talebani nel (Sud Waziristan dal 2008)
•(Beluchistan con il Balochistan Liberation Army dal 2000)
•Jaish-e-Mohammed (JeM)
•Punjab Taliban
•Brigate Abdullah Azzam Shaheed (AASB) colledate ad al-Qaeda
•Ogni tanto si segnalano scontri al confine tra esercito pakistano ed indiano, la prima guerra risale al 1949
Tajikistan: scontri tra esercito regolare e il Movimento Islamico dell’ Uzbekistan (IMU)

Thailandia: scontri tra esercito regolare e il gruppo separatista Patani Malay National Revolutionary Front Coordinate o (BRN-C)




EUROPA:
(9 Stati e 15 tra milizie-guerriglieri e gruppi separatisti coinvolti)
Francia: azioni armate del:

•Fronte di Liberazione Naziunale Corsu (precedentemente divisi in Brigate rivoluzionarie corse (BRC)
•Armata di liberazione nazionale corsa (ALNC) contro la presenza francese nell’isola dal 1976
Georgia: Dopo la guerra tra Georgia e Russia/Abkazia/Ossezia del Sud nel 2008, si segnalano tensioni confine

Grecia: Si segnalano azioni terroristiche da parte di:

•Lotta Rivoluzionaria (Ea)
•Cospirazione dei nuclei di fuoco
•Setta dei Rivoluzionari (SR)
Irlanda del Nord:

•dal 1971 l’Ulster Defense Association (UDA) rivendica le sue azioni nell’ Irlanda del Nord sotto il nome di Ulster Freedom Fighters (Protestante)
•Red Hand Defenders dal 1998 (Protestante)
•Ulster Young Militants dal 1974 (Protestante)
•Ulster Resistance dal 1989 (Protestante)
•Orange Volunteers dal 1998 (Protestante)
Italia: Federazione Anarchica Informale (FAI) dal 2003

Nagorno-Karabakh: Scontri al confine del Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaijan

Russia: Scontri tra esercito russo e:

•Caucasus Mujahideens chiamati anche Mujahideen of Idel Ural (Milizia indipendentista islamica cecena in Cecenia, Inguscezia e Daghestan dal 1991)
•Movimento separatista islamico del Caucaso del nord (Milizia indipendentista islamica cecena in Cecenia, Inguscezia e Daghestan dal 1991)
•Commando delle Province Kabarda, Balkaria e Karachai
Spagna: scontri tra esercito regolare e gli indipendentisti Baschi dell’Eta dal 1968




MEDIO ORIENTE:
(7 Stati e 34 tra milizie-guerriglieri e gruppi separatisti coinvolti)
Arabia Saudita: scontri tra esercito regolare e ribelli al-Houthi dal 2009

Iran: scontri tra esercito regolare e gruppo sunnita Jundallah o People’s Resistance Movement of Iran (PRMI) dal 2003

Iraq: scontri tra esercito regolare e Americano/inglese contro milizie islamiche:

•Ba’athisti
•Wahhabiti
•Salafisti islamici
•Milizie Shi’a
•Sahwa a Qaim o Sons of Iraq
Israele:

scontri tra esercito regolare ed una lista di 5 ale armate, 17 gruppi armati, 1 fazione e 1 fazioni armate (inclusi i 6 partiti politici):



Hamas (dal 1987) gruppo politico ed armato
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-Izz ad-Din al-Qassam Brigades (ala armata)


Palestinian Islamic Jihad (PIJ) (dal 1970) gruppo armato
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-Al-Quds Brigades (Jerusalem brigades) (ala armata)


The Popular Resistance Committees (PRC) (dal 2000) gruppo armato
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-al-Naser Salah ad-Din Brigades. (ala armata)


Palestine Liberation Organization (PLO) (dal 1964) gruppo armato
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-Marxist-secular Popular Front for the Liberation of Palestine (PFLP) (dal 1967) gruppo armato
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-Abu Ali Mustapha Brigades (ala armata)
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-Democratic Front for the Liberation of Palestine (DFLP) (dal 1969) partito politico
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-Abu Nidal organization (ANO) o Fatah - the Revolutionary Council (FRC) (da 1974) gruppo armato
|
-Palestine Liberation Front (PLF) (da 1977) gruppo armato
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-Arab Liberation Front (ALF) (da 1969) partito politico
|
-As-Sa'iqa or Vanguard for the Popular Liberation War (VPLW) (dal 1966) partito politico
|
-Palestinian Popular Struggle Front (PPSF) (da 1967) partito politico
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-Palestinian Arab Front (PAF) (dal 1968) fazione minore
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-Fatah or Movement for the National Liberation of Palestine (dal 1960) partito politico
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-Tanzim (dal 2000) fazione armata militante
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-Force 17 (dal 1970) (ora come Palestinian Presidential Guard) gruppo armato
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-Fatah Special Operations Group (Fatah-SOG) or Martyrs of Tel Al Za'atar, Hawari, e Amn Araissi (dal 1970) gruppo armato non più attivo
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-Ahmed Abu Reish Brigade gruppo armato
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-Al Aqsa Martyrs Brigade (dal 2000) gruppo armato
|
-Al-'Asifah (dal 1964) ala armata



Altri gruppi armati:
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-Holy Jihad Brigades (dal 2006) gruppo armato
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-Jamaat Ansar al-Sunna (Iraq salafi group that has a Gaza armed fazione) gruppo armato



Gruppi armati collegati ad al-Qaeda
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-Army of Islam (Jaysh al-Islam) o Tawhid o Jihad Brigades operante nella Striscia di Gaza. gruppo armato
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-Jund Ansar Allah (dal 2008) gruppo armato
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-Fatah al-Islam (dal 2006) gruppo armato
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-Jaljalat (dal 2009) operante nella Striscia di Gaza. gruppo armato




Libano: scontri tra esercito regolare ed il gruppo islamico Fatah al-Islam dal 2006

Turchia: scontri tra esercito regolare ed i ribelli del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) dal 1978

Yemen: scontri tra esercito regolare e:

•ribelli Al-Houthis dal 2004
•ribelli Shia nel governatorato di Saada nel nord
•al-Qaeda in the Arabian Peninsula (AQAP)



AMERICHE:
(3 Stati e 6 gruppi guerriglieri coinvolti)
Colombia: scontri tra esercito regolare e:

•Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) dal 1964
•Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) dal 1964
Messico:

•Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln), pacifico rivoluzionario, attivo nello Stato del Chiapas dal 1994
•Scontri tra polizia/esercito ed i cartelli della droga messicani come (Cartello di Sinaloa e Cartello di Juarez)
Peru: scontri tra esercito regolare e guerriglieri di Sendero Luminoso (Partido Comunista del Perú - Sendero Luminoso, PCP-SL) dal 1969

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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23/11/2010 11:06
 
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Venti di guerra tra le due Coree
Pyongyang bombarda un'isola


Colonne di fumo sull'isola di Yeonpyeong

SEUL
Torna altissima la tensione al confine tra le due Coree. L'artiglieria nordcoreana ha colpito un'isola della Corea del Sud, situata ad ovest della penisola, nel Mar Giallo e decine di case sono andate in fiamme. Due soldati sudcoreani sono morti, una decina sono rimasti feriti, alcuni dei quali sono gravissimi. L'esercito sudcoreano ha subito risposto al fuoco. Intanto Seul ha decretato il massimo livello di allerta in tempo di pace, ha riunito il gabinetto di sicurezza e inviato i suoi caccia a sorvolare l'isola. Il presidente sudcoreano tuttavia ha invitato il suo riottoso vicino a evitare un'escalation. La zona, dove è dispiegato un distaccamento nordcoreano, è contesa tra le due Coree da molti annie. Già nel passato è stata teatro di scontri.

Intanto decine di abitanti e soldati sull'isola sono stati portati nei bunker. Il governo cinese si è già detto molto preoccupato e ha invitato le parti a tornare alla ragionevolezza. La Russia ha invitato a evitare un'escalation. La scarica di artiglieria nordcoreana contro l'isola di Yeonpyeong è avvenuta alle 14,24 ora locale (quando in Italia erano le 07:34). I proiettili sono caduti nelle acque della Corea del Sud. L'esercito di Seul ha risposto con spari di artiglieria. L'attacco avviene pochi giorni dopo la scoperta dell'esistenza di un sofisticato impianto per l'arricchimento dell'uranio in Corea del Nord, un sito dove i tecnici nordcoreani potrebbero fabbricare armi nucleari. La scoperta, fatta grazie a un tour di uno scienziato statunitense nel Paese, ha scatenato l'allarme internazionale. Washington ha parlato di aperta sfida, Seul si è detto «molto preoccupato» e Tokyo ha definito la situazione «totalmente inaccettabile».

Un residente dell'isola di Yeonpyeong ha riferito telefonicamente alla tv che sotto la pioggia di proiettili (una cinquantina) decine di case sono state danneggiate e alcune persone rimaste ferite. Immediata la replica di Seul, le cui truppe -ha fatto sapere il ministero della Difesa- hanno reagito aprendo il fuoco. Secondo un altro residente, «almeno 10 case stanno bruciando. Non vedo chiaramente a causa del fumo», ha aggiunto,«ma è in fiamme anche il fianco della collina. Ci hanno detto con gli altoparlanti di lasciare le case».
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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17/01/2011 10:50
 
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Iraq: 20 anni fa "Desert Storm"
La prima guerra del Golfo




WASHINGTON - Vent'anni fa, poco prima delle tre del mattino, scattava l'operazione 'Desert Storm' contro l'Iraq del regime di Saddam Hussein, che il precedente 2 agosto aveva invaso i territori del Kuwait: nel giro di pochi minuti, all'alba del 17 gennaio 1991, una dozzina di elicotteri della task Force 'Normandy' colpirono le istallazioni radio delle difese aree irachene ai confini con il Kuwait, aprendo un corridoio sicuro per i bombardieri e gli stealth della Coalizione diretti contro Bagdad. Voluta in primo luogo dall'America guidata dall'allora presidente George Bush padre e dalla Gran Bretagna al fine di prevenire le mire espansioniste di Saddam sui pozzi petroliferi del Kuwait e dell'Arabia Saudita, sostenuta da una coalizione di 34 paesi tra cui l'Italia, e preceduta da una serie di risoluzioni delle Nazioni Unite che intimavano inutilmente a Saddam di ritirarsi dal Kuwait, prendeva cosi' il via la cosiddetta prima Guerra del Golfo.

Quella che lo stesso Hussein chiamo' ''la Madre di tutte le Battaglie'' e che lo vide sconfitto in soli 45 giorni. Anche se, negli accordi che seguirono il 'cessate il fuoco', il dittatore venne lasciato al potere. Falliti tutti gli sforzi diplomatici, dopo una serie di risoluzioni che imposero sanzioni economiche all'Iraq, era stata la stessa Onu con la risoluzione 678 del novembre 1990 a dare un ultimatum per il 15 gennaio 1991 al regime di Baghdad: se per quella data l'Iraq non si fosse ritirato dal Kuwait ''viene autorizzato l'uso di tutti i mezzi necessari per implementare l'ordinanza''. Fu il primo conflitto annunciato e seguito da dirette tivu' di tutto il mondo, lanciato con il drammatico e spettacolare bombardamento a tappeto di Bagdad e di tutto l'Iraq.

La potente campagna aerea sgancio' ben 88.500 tonnellate di bombe in migliaia di spedizioni. L'assalto di terra decisivo fu lanciato il 23 febbraio successivo, quando le forze alleate capitanate dai marines e dall'esercito Usa e con una forte presenza saudita segnarono la vittoria che libero' il Kuwait e apri' la strada alla conquista dell'Iraq. In meno di 100 ore la guerra fu dichiarata conclusa: Saddam Hussein annuncio' il ritiro dal Kuwait il 26 febbraio, il 28 febbraio Bush e la Coalizione dichiararono il 'cessate il fuoco', il 3 marzo i leader iracheni accettarono i termini della fine del conflitto. Nei mesi seguenti, a difendere la decisione di non aver proseguito le ostilita' fino al rovesciamento del regime di Hussein fu l'allora ministro della difesa, Dick Cheney: ''E' stato giusto fermarci dopo l'espulsione di Saddam dal Kuwait e non tentare di conquistare l'Iraq perche' la verita' e' che Hussein non vale la perdita di altre vite umane americane''. Nel 2003, da vicepresidente Usa, proprio Cheney fu tra gli artefici della seconda Guerra del Golfo.

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già 20 anni!

Come dimenticarsi dei missili Patriots e degli Scud...
è ovviamente di Bellini e Cocciolone...


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10/02/2011 14:12
 
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Il tempio conteso



Thailandia e Cambogia sono sull'orlo della guerra per un luogo di culto indù vecchio 900 anni. Anche per un'ostilità radicata nella storia, con due verità diverse e un senso di superiorità thailandese ben presente ancora oggi

Non si spara più da qualche giorno, ma non illudiamoci che sia finita qui. Tra Thailandia e Cambogia, come ha detto ieri il primo ministro cambogiano Hun Sen, “ormai è guerra”. Tutto per colpa di un tempio indù vecchio oltre 900 anni e conteso da decenni. Quasi tre anni di scaramucce militari hanno causato almeno 20 morti – ma è diffuso il sospetto che siano anche il quintuplo. Quelli dello scorso fine settimana (3 thailandesi e 5 cambogiani morti) sono però stati gli scontri più violenti, e lo spazio per la diplomazia sembra ridursi sempre più.
Sono tornato a Bangkok ieri sera, dopo alcuni giorni dalla parte thailandese della frontiera. Sono ripartito con un senso di assurdità per questa situazione, e di amarezza nel constatare come i rispettivi nazionalismi e i giochi a fini di politica interna alla fine causino sofferenza – in totale si contano oltre 20 mila evacuati, che ora stanno rientrando nelle loro case - a contadini innocenti da entrambi i lati del confine, che hanno vissuto intorno a quelle terre contese da decenni.

Il Preah Vihear (Khao Phra Wiharn per i thailandesi) è stato assegnato alla Cambogia dall'Onu nel 1962. E allora perché è conteso ancora oggi, direte voi? Innanzitutto per il pasticcio di non aver mai attribuito con certezza 4,6 chilometri quadrati di territorio circostante, con un'entrata ben più agevole dalla parte thailandese che da quella cambogiana. E poi perché i nazionalisti thailandesi possono appellarsi allo scherzetto che gli combinarono i francesi a inizio Novecento, tracciando la frontiera tra il regno di Siam e l'Indocina francese: la linea coincideva con lo spartiacque su quelle colline, salvo allargarsi per inglobare il Preah Vihear dalla parte francese. Il problema, per i thailandesi, è che non dissero niente per oltre quarant'anni.

Dal 2008, quando l'Unesco dichiarò il tempio Patrimonio mondiale dell'umanità, i nazionalisti thailandesi si sono impuntati sulla questione. Parlano di “perdita di territorio nazionale”, tirano fuori mappe di cento anni fa. Ora, dopo gli ultimi scontri, incitano apertamente a invadere la Cambogia, prendersi i templi di Angkor Wat e poi costringere Phnom Penh a cedere in cambio il Preah Vihear. E' fantapolitica, e i nazionalisti in piazza da due settimane davanti alla sede del governo di Bangkok non sono mai più di due migliaia. Ma fanno rumore; e dato che in molti vedono nelle loro proteste del 2008 il “lavoro sporco” che contribuì alla caduta di due governi sgraditi all'establishment militare-monarchico, non vanno sottovalutati. Anche se ora il governo di Abhisit Vejjajiva è quello teoricamente più vicino alle loro posizioni, lo attaccano senza pietà imputandogli di essere debole sulla questione.

Un'analisi sul “perché ora?” richiederebbe un altro pezzo sulla politica interna thailandese. Dietro questo atteggiamento c'è comunque un senso di superiorità e un nazionalismo radicato da decenni, frutto di una propaganda basata su una rivisitazione della storia a vantaggio dell'establishment; e da parte cambogiana, il risentimento di essere trattati come poveri bifolchi, nonché privati della gloria dell'impero Khmer.

I thailandesi – specie l'elite sino-thai di Bangkok - si sentono migliori dei cambogiani, che hanno la pelle più scura, strane credenze animiste mescolate al loro buddismo, e sono molto più indietro economicamente: “Devono aver finito i proiettili”, mi ha detto sghignazzando un autista thailandese alla frontiera commentando sulla calma dopo gli scontri, riferendosi ai soldati cambogiani. Soprattutto, vedono la Cambogia come una ex provincia del regno di Siam (che si estendeva all'incirca sul Laos e la Cambogia di oggi) e ancor prima della mitica “Suvarnabhumi” (“terra d'oro”) - una specie di Eden tropicale mai esistita nei termini in cui la descrivono qui. Così, anche un antico impero indù di architettura tipicamente Khmer – quando i thailandesi per come li intendiamo oggi non erano ancora calati su questa regione dalla Cina – diventa “eredità storica thai” agli occhi dei nazionalisti. E anche se non vanno in piazza, in molti condividono questa mentalità.

Questa arrogante ignoranza infastidisce i cambogiani e i laotiani; e sul tempio, è come se i thailandesi raccontassero a se stessi un'altra verità, senza badare alle decisioni degli organi internazionali. Mentre Phnom Penh protesta all'Onu, il governo di Bangkok sostiene che la crisi si può risolvere bilateralmente: l'atteggiamento – in questa e in altre situazioni dove la posizione ufficiale è ampiamente attaccabile - è sempre della serie “non avete le corrette informazioni, noi thailandesi sì”. Oggi la Thailandia si è anche opposta a una visita al tempio da parte dell'Unesco: “Complicherebbe la situazione”, hanno detto – e probabilmente è vero, ma per loro.

Così, la speranza che le due parti si mettano al tavolo delle trattative al momento è davvero bassa. Sul Preah Vihear ci sono due verità, due confini disegnati in maniera diversa nelle mappe a disposizione dei due contendenti. Anche nel caso la crisi rientri e le armi tacciano, la questione verrà semplicemente messa da parte, non risolta. Un atteggiamento - questo del mettere la polvere sotto il materasso, invece di pulire – comune da queste parti; il problema è che così, la polvere si accumula. Prima o poi torna fuori, ed è ancora peggio.


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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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21/02/2011 22:59
 
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Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.
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onore al popolo libico , ribellarsi al colonello si sapeva (loro per primi) che sarebbe stato un bagno di sangue nonostante questo sono partiti e stanno andando avanti.
Che poi nonostante le dichiarazioni di facciata mezza europa è dalla parte di gheddafi ,perchè hanno le mani in pasta su mille affari,petroliferi e non .
Rompetegli il culo [SM=g9597]
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Non mi scandalizzo,è sempre stato un criminale.E in Italia è da un pezzo che viene legittimato.
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La rivolta guarda al passato: ora il popolo sventola la bandiera dell’ex monarchia

Il vessillo issato sugli edifici governativi conquistati dai manifestanti nelle città dell'Est. Nella Cirenaica si inneggia ancora a Mukhtar, il Leone del deserto che lottò contro gli italiani

(Egitto, confine libico) - Il confine nord tra Egitto e Libia è in queste ore un luogo molto trafficato: da una parte ci sono i lavoratori egiziani che vogliono disperatamente lasciare il Paese del colonnello Mu’ammar Gheddafi, dall’altro ci sono decine di giornalisti che tentano di passare la frontiera e i convogli in arrivo dal Cairo per portare gli aiuti agli ospedali delle città più colpite dove, secondo i dottori sentiti anche dal Giornale, mancano medicine e sangue per i feriti. Il paese è nel caos, spiega chi ha appena attraversato la frontiera. «E noi non abbiamo più un lavoro, anche per questo rientriamo», dice un ragazzo egiziano di Port Said mentre aggiusta le valigie sul tetto di un pullmino.

I suoi compagni di viaggio accendono i computer e tirano fuori i telefonini per mostrare video di mercenari linciati dalla folla, delle violenze che si sono lasciati alle spalle. I mini bus si fermano per una pausa lungo la strada che dalla frontiera porta alla località balneare di Marsa Matruh, in un piccolo caffè di Sidi Bayrana, cittadina beduina nel mezzo del deserto. Molti degli uomini a bordo arrivano dalla città di Al Baida, in cui gli scontri sono stati più brutali. Hanno visto violenze e saccheggi. Mahmoud al Masri racconta di aver assistito all’assalto del quartier generale dei comitati rivoluzionari. «L’edificio è stato dato alle fiamme».

Gli eventi degli scorsi giorni in Libia più che semplici scontri tra forze dell’ordine e manifestanti sono paragonabili a una guerriglia urbana. Nelle città dell’est - dice però Mohammed Abdou - ormai è la popolazione a essere in controllo. E i primi giornalisti che hanno attraversato il confine due giorni fa - accolti con entusiasmo dai libici - hanno trovato i civili armati a pattugliare le strade. Su molti edifici governativi ora controllati dalla popolazione, in città come Tobruk, Darnah e Al Baida, i rivoltosi hanno issato la bandiera della monarchia di Mohammed Idriss Senoussi. E lo stendardo è stato usato anche nelle manifestazioni anti-Gheddafi che si sono tenute in molte capitali europee in queste ore.

La bandiera è diventata il simbolo della contestazione di una parte della popolazione che si rifà a un passato mitico per i libici: è stata usata infatti per la prima volta nel 1951, quando il Paese ottenne l’indipendenza. I ribelli della Libia dell’est - raccontano i video amatoriali messi online dagli attivisti in queste ore - si arrampicano sui pali per far sventolare l’antico simbolo: una mezzaluna e una stella bianche su sfondo nero e sui lati due bande, una rossa e una verde. Nei mesi prima dell’indipendenza, la Cirenaica, regione che oggi guida il dissenso anti-regime, aveva già adottato questa bandiera.

Il re Idriss aveva la sua capitale a Benghazi, città che in queste ore è stato teatro di grandi battaglie tra le forze vicine a Gheddafi e i rivoltosi. E la Cirenaica è anche la regione in cui per venti anni Omar Mukhtar, l’eroe della lotta libica contro gli italiani, guidò la resistenza. E oggi, sono in molti nella Libia dell’est a ricordare il suo nome: sui blog, al telefono con i giornalisti dall’estero, c’è chi dice che i giovani che sono scesi in strada contro il colonnello siano i «nipoti» di Omar Mukhtar, il Leone del Deserto. È questo il nome di battaglia del guerriero che per anni ha attaccato di sorpresa militari e convogli italiani, con piccoli gruppi di miliziani, per poi ritirarsi velocemente nel deserto.

Il Leone del Deserto è anche il titolo di un film del 1981 sulla sua vita, interpretato da Anthony Quinn e finanziato dal governo libico. Omar Mukhtar fu ferito e catturato in battaglia nel 1931 dagli italiani. Fu impiccato. Prima di ucciderlo, gli fu chiesto quali fossero le sue ultime parole: «Apparteniamo a Dio e a Dio torniamo». Mentre l’est della Libia, controllata dalla popolazione, riscopre i simboli del suo passato, la regione di Tripoli resta sotto il controllo del regime. Dopo il minaccioso discorso del colonnello Gheddafi, poche persone ieri hanno lasciato le loro case nella capitale, per terrore di essere uccisi dalle forze di sicurezza.
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24/02/2011 10:17
 
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Re:
Sound72, 24/02/2011 10.08:

La rivolta guarda al passato: ora il popolo sventola la bandiera dell’ex monarchia

Il vessillo issato sugli edifici governativi conquistati dai manifestanti nelle città dell'Est. Nella Cirenaica si inneggia ancora a Mukhtar, il Leone del deserto che lottò contro gli italiani

(Egitto, confine libico) - Il confine nord tra Egitto e Libia è in queste ore un luogo molto trafficato: da una parte ci sono i lavoratori egiziani che vogliono disperatamente lasciare il Paese del colonnello Mu’ammar Gheddafi, dall’altro ci sono decine di giornalisti che tentano di passare la frontiera e i convogli in arrivo dal Cairo per portare gli aiuti agli ospedali delle città più colpite dove, secondo i dottori sentiti anche dal Giornale, mancano medicine e sangue per i feriti. Il paese è nel caos, spiega chi ha appena attraversato la frontiera. «E noi non abbiamo più un lavoro, anche per questo rientriamo», dice un ragazzo egiziano di Port Said mentre aggiusta le valigie sul tetto di un pullmino.

I suoi compagni di viaggio accendono i computer e tirano fuori i telefonini per mostrare video di mercenari linciati dalla folla, delle violenze che si sono lasciati alle spalle. I mini bus si fermano per una pausa lungo la strada che dalla frontiera porta alla località balneare di Marsa Matruh, in un piccolo caffè di Sidi Bayrana, cittadina beduina nel mezzo del deserto. Molti degli uomini a bordo arrivano dalla città di Al Baida, in cui gli scontri sono stati più brutali. Hanno visto violenze e saccheggi. Mahmoud al Masri racconta di aver assistito all’assalto del quartier generale dei comitati rivoluzionari. «L’edificio è stato dato alle fiamme».

Gli eventi degli scorsi giorni in Libia più che semplici scontri tra forze dell’ordine e manifestanti sono paragonabili a una guerriglia urbana. Nelle città dell’est - dice però Mohammed Abdou - ormai è la popolazione a essere in controllo. E i primi giornalisti che hanno attraversato il confine due giorni fa - accolti con entusiasmo dai libici - hanno trovato i civili armati a pattugliare le strade. Su molti edifici governativi ora controllati dalla popolazione, in città come Tobruk, Darnah e Al Baida, i rivoltosi hanno issato la bandiera della monarchia di Mohammed Idriss Senoussi. E lo stendardo è stato usato anche nelle manifestazioni anti-Gheddafi che si sono tenute in molte capitali europee in queste ore.

La bandiera è diventata il simbolo della contestazione di una parte della popolazione che si rifà a un passato mitico per i libici: è stata usata infatti per la prima volta nel 1951, quando il Paese ottenne l’indipendenza. I ribelli della Libia dell’est - raccontano i video amatoriali messi online dagli attivisti in queste ore - si arrampicano sui pali per far sventolare l’antico simbolo: una mezzaluna e una stella bianche su sfondo nero e sui lati due bande, una rossa e una verde. Nei mesi prima dell’indipendenza, la Cirenaica, regione che oggi guida il dissenso anti-regime, aveva già adottato questa bandiera.

Il re Idriss aveva la sua capitale a Benghazi, città che in queste ore è stato teatro di grandi battaglie tra le forze vicine a Gheddafi e i rivoltosi. E la Cirenaica è anche la regione in cui per venti anni Omar Mukhtar, l’eroe della lotta libica contro gli italiani, guidò la resistenza. E oggi, sono in molti nella Libia dell’est a ricordare il suo nome: sui blog, al telefono con i giornalisti dall’estero, c’è chi dice che i giovani che sono scesi in strada contro il colonnello siano i «nipoti» di Omar Mukhtar, il Leone del Deserto. È questo il nome di battaglia del guerriero che per anni ha attaccato di sorpresa militari e convogli italiani, con piccoli gruppi di miliziani, per poi ritirarsi velocemente nel deserto.

Il Leone del Deserto è anche il titolo di un film del 1981 sulla sua vita, interpretato da Anthony Quinn e finanziato dal governo libico. Omar Mukhtar fu ferito e catturato in battaglia nel 1931 dagli italiani. Fu impiccato. Prima di ucciderlo, gli fu chiesto quali fossero le sue ultime parole: «Apparteniamo a Dio e a Dio torniamo». Mentre l’est della Libia, controllata dalla popolazione, riscopre i simboli del suo passato, la regione di Tripoli resta sotto il controllo del regime. Dopo il minaccioso discorso del colonnello Gheddafi, poche persone ieri hanno lasciato le loro case nella capitale, per terrore di essere uccisi dalle forze di sicurezza.




Inizialmente, dai primi focolai in Nord Africa e qualche piccolo tafferuglio in Iran, pensavo a qualche manovra oscura degli USA, al dià delle frasi di facciata.....ma dopo un pò dopo il coinvolgimento dell'Egitto e del Bahrein....e come si stanno svolgendo le cose in Libia....vedo un grande disegno dei fondamentalisti.

Speriamo bene.
[Modificato da faberhood 24/02/2011 10:23]
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è in effetti una situazione abbastanza anomala..per questo nn riuscivo bene a capire Obama quando invitava Mubarak a farsi da parte..
quello che sta succedendo in Libia ha dimensioni troppo eclatanti..ma questi insorti poi..sono armati? e chi li arma? questi come hanno fatto a prendere Bengasi..Anche la situazione in Bahrein è abbastanza misteriosa..là si ribellano al regime sunnita che di certo è uno dei piu' moderati in quell'area..e nn è un'utopia pensare che dietro ci possano essere i fondamentalisti sciiti iraniani..
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Re: Re:
faberhood, 24/02/2011 10.17:




Inizialmente, dai primi focolai in Nord Africa e qualche piccolo tafferuglio in Iran, pensavo a qualche manovra oscura degli USA, al dià delle frasi di facciata.....ma dopo un pò dopo il coinvolgimento dell'Egitto e del Bahrein....e come si stanno svolgendo le cose in Libia....vedo un grande disegno dei fondamentalisti.

Speriamo bene.




sono più i testimoni di geova dei fondamentalisti islamici
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LIBIA - LA GUERRA CIVILE


I fedeli del raiss assediano Bengasi
"Entro due giorni sarà tutto finito ""
ribelle, Gheddafi va all'attacco
"Solo cani infiltrati, morirete"



BENGASI
Colpi d’artiglieria pesante a Bengasi, dove la contraerea dei rivoltosi spara contro gli aerei delle forze fedeli a Muammar Gheddafi. Le batterie anti-aeree hanno aperto il fuoco intorno alle 23 ora locale (le 22 in Italia) e i traccianti hanno illuminato il cielo sulla città. I colpi di artiglieria pesante provengono apparentemente da sud-est, così come le sirene delle ambulanze. Come da previsioni il Colonnello è arrivato alle porte della città ribelle per sferrare l'ultimo, decisivo attacco. Il figlio del leader libico, Saif al Islam, assicura che «tutto sarà finito in 48 ore».

Tripoli intanto festeggia la caduta di Ajdibiya, poco a ridosso di Bengasi, dove un commando armato avrebbe addirittura attaccato la sede degli insorti, il Comitato transitorio libico (Cnt), uccidendo alcuni suoi membri e mettendone in fuga altri. Nella capitale si celebra anche l’asserita «sollevazione popolare» guidata dalla tribù dei Warfallah a est, con i lealisti del leader Muammar Gheddafi scesi nelle strade sventolando il vessillo verde in alcune aree di Tobruk e a Sollum, lungo il confine con l’Egitto.

Ieri sera, in un discorso televisivo al paese, Gheddafi ha accusato gli insorti di essere «cani infiltrati nella società» e ha nuovamente accusato l’occidente di mirare al petrolio libico e di voler tornare «ai tempi in cui l’Italia chiamava la Libia la spiaggia di Roma».

L'assenza di una zona di interdizione di volo ha permesso al jet privato di Gheddafi di raggiungere la Bielorussia, riferisce oggi il "Telegraph", dove si sospetta che il Colonnello possa aver trasferito i suoi beni o acquistato armi, contravvenendo all'embargo imposto dalle Nazioni Unite. «Ci sono indizi del fatto che stia cercando nuove armi anche ora», ha detto il premier britannico David Cameron, riferendo in parlamento. Il "Telegraph" ricorda che uno dei figli del rais, Khamis, e diversi ufficiali militari libici hanno stretti legami con il presidente Aleksander Lukashenko.

Inoltre, il quotidiano riporta quanto denunciato dall'Istituto di ricerca internazionale sulla pace di Stoccolma (Sipri), secondo cui il 15 febbraio scorso un aereo Ilyushin 76, con 40 tonnellate di carico, ha lasciato la base militare di Baranovitj, in Bielorussia, alla volta di Sebha, base nel sud della Libia. "L'aereo è partito da una base che gestisce armi e attrezzature militari ed è atterrato in una base logistica chiave per Gheddafi", ha sottolineato Hugh Griffith del Sipri.
.......................


alla fine quindi? crimini di guerra, navi americane nel Mediterraneo, bombardamenti, isolamento internazionale... di tutto, di piu'..am e pare che alla fine rimanga solo la gente ammassata al confine..e destinata a morire in mare nella migliore delle ipotesi..
Ad oggi vince Gheddafi ..e vince il petrolio..
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18/03/2011 11:09
 
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La guerra thailandese che non va sui giornali


Nel "Sud musulmano", a poche ore dalle spiagge dei turisti, dal 2004 a oggi una guerriglia separatista ha causato 4.500 morti


Nelle ultime 24 ore, si sono contati otto morti: e circa 4.500 vittime dal 2004, quando è iniziata questa nuova ondata di violenza. Ma quanti di voi hanno mai sentito parlare della situazione nell'enclave meridionale della Thailandia a maggioranza musulmana e di etnia malay? La guerriglia separatista nelle province di Pattani, Yala e Narathiwat è una tra le storie meno raccontate dai media mondiali. I turisti lì non vanno, anche i thailandesi confinano il problema in un recinto e preferiscono non pensarci, il conto delle vittime è uno stillicidio, quasi mai fatto di atti clamorosi. E quindi, “non fa notizia”.
Ho passato la settimana scorsa in quelle zone. Senza sentirmi mai in pericolo, nonostante il solo menzionare la mia destinazione provocasse costanti raccomandazioni (“è pericoloso!”) da parte di svariati conoscenti, a riprova di quanto le tre province siano separate – geograficamente e idealmente – dal resto della Thailandia. Purtroppo, questo essere “accantonate” lì dove non possono nuocere a chi non ci abita rende ancora più complicata la soluzione di una questione che la Thailandia si porta avanti da inizio Novecento.

Fino a quel periodo, il sultanato di Patani era uno dei tanti territori semi-indipendenti del Sud-est asiatico, pagando però un tributo al regno di Siam (prima della delimitazione di confini certi su pressione della Francia e dell'Inghilterra, questi territori spesso pagavano tributi a più Stati, in un sistema che lo storico thailaldese Thongchai Winichakul ha paragonato a una vera e propria “mafia”). Il fatto che una regione di etnia malay e religione musulmana sia stata poi inglobata in una Thailandia monoliticamente buddista ed etnicamente sino-thai-laotiana, a oltre mille chilometri da Bangkok, è una specie di incidente della Storia.

Un'analisi completa delle ragioni dietro la violenza richiederebbe troppo spazio anche per un blog. Diciamo che ci sono due modi di vedere il problema. Uno parte dall'aspetto religioso, e inquadra il problema nell'ambito di un risveglio islamico sull'onda di Al Qaeda: è la versione, non a caso, di alcuni analisti americani specializzati sul terrorismo. L'altra interpretazione, prevalente, sposta l'attenzione più sulle rivendicazioni storico-politiche e sulla mancanza di “legittimità” - come ben spiegato dallo studioso inglese Duncan McCargo – dello Stato thailandese in quelle zone.

Gli omicidi, gli agguati e occasionalmente gli attentati esplosivi sono quasi quotidiani, in questa zona abitata da 1,8 milioni di persone e dove i ribelli – senza un nome, un logo, un leader riconosciuto né rivendicazioni dei loro attacchi – si mescolano tra la popolazione. I posti di blocco dell'esercito sono frequenti. Militari e paramilitari armati di fucile pattugliano le strade delle città. Nei luoghi più affollati i motorini devono essere parcheggiati con il sedile sollevato, per il timore di bombe. Molti funzionari pubblici – impiegati, insegnanti – vanno al lavoro con la scorta. Sono in particolare i buddisti ad avere più timore delle violenze, anche se buona parte dei 4.500 morti sono musulmani, uccisi dai ribelli perché sospetti collaboratori da militari e paramilitari o da civili buddisti, in vendette incrociate.

Nonostante molti musulmani di Pattani, Narathiwat e Yala simpatizzino con il sogno dell'indipendenza, per calmare la situazione probabilmente basterebbe una sostanziale autonomia alla regione. Che invece, come tutta la Thailandia, viene in sostanza gestita da Bangkok, dove vengono nominati i governatori provinciali. Ma le autorità thailandesi temono che una potenziale autonomia sia il primo passo verso una richiesta di indipendenza, e in sostanza non hanno mai presentato nessuna proposta in merito.

Su qualche editoriale, purtroppo raramente, si trovano commenti in questa direzione. Ma il problema è anche che il sistema politico thailandese, operando sotto la premessa che il re Bhumibol è il più virtuoso dei regnanti, quasi non concepiscono come degli abitanti del glorioso Siam possano ambire all'autodeterminazione e a una forma di governo migliore. Parte di questo discorso è sicuramente di convenienza; ma più sto qui e più noto che, gratta gratta, questo concetto è profondamente impresso anche nella popolazione.

Dell'argomento, sui media thailandesi si parla molto poco. La conta delle vittime viene ridotta quasi allo spazio di una breve sui giornali, tanto è diventata routine. Soprattutto, la mia impressione è che non si vada mai a fondo sulle cause della situazione. Anche un incoraggiante film come “Citizen Juling”, un documentario che parte dalla storia di una giovane insegnante buddista uccisa in un villaggio del “Sud musulmano”, a me era sembrato più un'occasione sprecata per spiegare ai thailandesi il problema: mostrava – per oltre tre ore e mezza – la sofferenza di molti innocenti, ma senza grattare la superficie o fornire un minimo di contesto. Il “Sud” non turba il sonno del thailandese medio. E anche per questo, lo stillicidio dei morti sembra destinato a continuare.



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19/03/2011 13:05
 
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No Fly Zone sulla Libia, è peggio la malattia o la cura?

L'Onu vota la No Fly Zone sulla Libia. La scelta arriva in ritardo e rischia di produrre effetti peggiori del male che vuole curare. Senza aver tentato qualsiasi approccio diplomatico serio, le Nazioni Unite, l'Europa e il mondo arabo son pronti a spartirsi una fetta di massacro indiscriminato, in nome della protezione dei civili.

Tutto ruota intorno a Bengasi. La città-capitale degli insorti, ormai sola, è già sotto bombardamento aereo. Gheddafi ha chiarito che "non ci sarà pietà per i ribelli, ma chi depone le armi e fugge sarà salvo". Gli insorti hanno reagito scendendo in piazza con bandiere e kalashnikov al vento. Forse hanno ragione loro, il rais "non ha la forza per prendere la nostra città, non ce la farà mai": di qui le minacce continue e l'amnistia offerta. Possibile. Ma intanto piovono bombe su Bengasi.

Nato, Francia, Inghilterra e Italia (che fornirà le basi per i raid aerei) si dicono già pronte ad imporre la No fly zone: in realtà, prima di domani non partirà nessun caccia, forse nemmeno dopodomani (l'Unione Europea addirittura rinvia tutto al vertice del 21 marzo...) Nel frattempo la città potrebbe essere già caduta. Ora che il cielo è sgombro, Gheddafi potrebbe decidere di giocarsi il tutto per tutto, con bombardamenti a tappeto, per entrare con i carri armati entro stanotte. A quel punto le forze internazionali dovrebbero intervenire "con ogni iniziativa necessaria a proteggere l'incolumità dei civili", secondo il testo della risoluzione 1973. Ma se le truppe di Gheddafi iniziano l'atroce 'porta a porta' della vendetta, come faranno? Bombardando dall'alto l'accampamento dei lealisti fuori città? o colpendo le basi logistiche che collegano Tripoli al fronte? Il prossimo passo quale sarebbe - bombardare Tripoli? Soluzioni che trasformerebbero subito la No Fly Zone in una guerra aperta, tra la coalizione dei volenterosi e la Libia - quella ufficialmente riconosciuta dal Palazzo di Vetro, anche se è una dittatura sanguinaria.

Se invece gli scontri a Bengasi continuano per diversi giorni, cosa dovranno fare gli aerei dei paesi interventisti? I combattimenti in città saranno un caos di scontri a fuoco ravvicinati: gli F-16 e gli Eurofighter si uniranno alla battaglia bombardando 'chirurgicamente' i lealisti, magari con i droni? La precisione non esiste, in guerra. Inoltre il nodo è politico. L'Onu non ha ancora riconosciuto il Comitato nazionale di transizione dei ribelli come interlocutore, quindi non potrebbe nemmeno prenderne le parti. Cosa peraltro molto difficile, trattandosi di una guerra civile, in cui gli innocenti da proteggere sono da entrambe le parti.

Ultima possibilità. Gheddafi frena e decide di aspettare, mettendo Bengasi sotto assedio e trattando con l'Onu. L'opzione è stata ventilata dal viceministro degli esteri Khaled Kaaim, secondo cui il colonnello "è pronto ad accettare la risoluzione, a patto di poterla visionare e studiare in tutte le sue implicazioni e conseguenze". Cioè, in trattativa. Sarebbe un mezzo miracolo, ed aprirebbe molte vie d'uscita. Purtroppo anche questa soluzione ha i suoi difetti. Rafforzare l'embargo significa per prima cosa stringere il cappio al collo dei civili: sono loro a pagare il taglio dei rifornimenti, degli alimenti e delle medicine. Dovranno esser predisposti dei corridoi umanitari efficaci e protetti, al di fuori della portata del Rais ma in grado di garantire cibo, acqua, medicine alla gente.

Una considerazione 'eretica' al margine: nel dicembre 2008 il governo israeliano ordinò bombardamenti capillari sulla striscia di Gaza, per "colpire i terroristi" e "dare l'esempio". Nessuno parlò di no fly zone o di risoluzione Onu...

( dirittodicritica.com )
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18/04/2011 14:26
 
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Guerra in Libia, a Misurata mille morti e tremila feriti

TRIPOLI - Da quando è iniziato l'assedio di Misurata e in particolar modo da quando nell'ultima roccaforte dei ribelli in Tripolitania sono entrati in scena cecchini e pezzi di artiglieria pesante delle forze governative, si sono registrati circa mille morti, "l'80 per cento dei quali erano civili", e tremila feriti. E' quanto ha reso noto Khaled Abu Falgha,direttore del principale ospedale cittadino. Nell'ultima settimana sono aumentati i feriti dovuti alle bombe a grappolo.
Cresciuto anche il numero dei ricoveri per ferite da arma da fuoco alla testa o al collo, i bersagli preferiti dei tiratori scelti. Negli ultimi attacchi dei fedeli delle forze filo Gheddafi hanno perso la vita 17 persone, mentre sono rimaste ferite almeno 100 persone, per lo più civili. Intanto il portavoce del governo libico, Moussa Ibrahim, citato dall'edizione on-line del giornale arabo 'al-Quds al-Arabi', ha affermato che il capo di Al Qaeda in Libia si starebbe portando a Misurata con 25 combattenti ben addestrati.


...........

Uno dei grandi risultati ottenuti con la risoluzione sulla no fly..
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02/05/2011 09:23
 
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Blitz in Pakistan, ucciso Bin Laden «Giustizia è fatta», l'America è in festa

Il capo di Al Qaeda freddato con un colpo alla testa. Si nascondeva in un compound di lusso fuori Islamabad.

MILANO - «Osama Bin Laden è stato ucciso. Giustizia è fatta». L'annuncio del presidente americano Barack Obama in diretta tv, quando in Italia erano quasi le 5 del mattino, scuote gli Stati Uniti e il mondo. Il ricercato numero uno al mondo, il simbolo del terrore, l'uomo che ha incarnato il Male a partire dalla terribile strage del settembre di 10 anni fa a New York, è morto. Negli Stati Uniti le parole di Obama hanno un effetto immediato. La gente si riversa per strada nel cuore della notte. Il coro «Usa, Usa», le bandiere a stelle e strisce che sventolano, le urla di gioia. L'America, dopo dieci anni, si scuote con una notizia che segna una vittoria che forse nessuno più attendeva dopo la lunga inutile caccia al terrorista che sembrava inafferrabile. E' notte a Washington, in tutto il Paese è immediata. New York, all'una di notte, Times Square si riempie di gente festante, così come l'area davanti alla Casa Bianca.

BLITZ - È stato ucciso con un colpo di arma da fuoco alla testa. Osama Bin Laden è stato «terminato» - questo il temine utilizzato per comunicare l'uccisione del capo di Al Qaeda. Nel corso del blitz di un commando americano, pianificato negli ultimi due mesi, condotto contro quella che era diventata la residenza segreta del leader di Al Qaeda, un condominio circa 70 chilometri a nord di Islamabad. Con lui sono state uccise altre quattro persone. Fonti del Pentagono riferiscono che le forze speciali che hanno effettuato l'operazione avevano provato più volte il piano di attacco per evitare vittime tra civili innocenti. Il corpo di Bin Laden, è stato annunciato, è «in custodia» alle forze militari statunitensi. L'operazione c si è svolta in collaborazione con l'anti-terrorismo pachistano, anche se le autorità di Isalamabad hanno inizialmente smentito la circostanza. Uno dei quattro elicotteri che hanno preso parte all'operazione contro il compound di Osama Bin Laden si è schiantato apparentemente dopo essere stato raggiunto da colpi d'arma da fuoco esplosi da terra. Lo riferiscono fonti ufficiali coperte da anonimato, specificando che non ci sono state vittime. La fonte ha aggiunto che durante il raid donne e bambini sono stati presi in custodia.

L'OPERAZIONE - L'operazione è avvenuta a Abbottabad, una città a soli 75 chilometri dalla capitale Islamabad, e Bin Laden si trovava secondo gli esperti dei servizi della rete americana, in un compound di alta sicurezza, circondato da una recinzione e protetto da una doppia cancellata. Il blitz sarebbe stato preparato da cinque riunioni fra il presidente Obama e i servizi segreti in questi ultimi mesi. Abbottabad come Islamabad si trova a qualche ora di strada da alcune delle zone tribali della Frontiera del Nord Ovest, la zona tribale al confine con il Pakistan che è sempre stata considerata il rifugio di Osama Bin Laden.

L'ANNUNCIO - «Questa sera sono in grado di annunciare agli americani e al mondo che gli Stati Uniti hanno condotto un'operazione che ha ucciso Osama Bin Laden, il leader di Al Qaeda». Così Obama ha raccontato il blitz comunicando la morte di Bin Laden alla nazione: «Molti mesi fa sono stato informato che avevamo indizi circa la possibile posizione di Bin Laden. Ho incontrato molte volte i miei consulenti dei servizi segreti. Finalmente la settimana scorsa ho deciso che avevamo sufficienti informazioni per agire. Oggi per mio ordine gli Stati Uniti hanno lanciato un'operazione contro quel compound. Una piccola unità di agenti americani ha agito con grande coraggio, facendo attenzione a evitare vittime civili. Dopo uno scontro a fuoco, hanno ucciso Osama Bin Laden e hanno in custodia il suo corpo». E ha aggiunto: «Come paese, non tollereremo mai minacce alla nostra sicurezza».


ALLERTA AMBASCIATE - Il governo americano ha messo in stato di allerta tutte le sue ambasciate e rappresentanze diplomatiche nel mondo per timore di rappresaglie. In un comunicato del Dipartimento di Stato si esortano inoltre i cittadini americani soprattutto in quelle zone del mondo dove vi sono maggiori tensioni, a evitare i luoghi in cui vi sono affollamenti di gente e manifestazioni per «l'imprevedibilitá ed insicurezza dell'attuale situazione».

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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02/05/2011 10:43
 
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Sound72, 02/05/2011 09.23:

L'operazione è avvenuta a Abbottabad



alla fine l'hanno abbottato


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02/05/2011 13:40
 
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Molti festeggiavano...per me c'è poco da festeggiare,per me è l'inizio di una serie di nuovi attentati.
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Il giallo del cadavere e la beffa delle foto



ISLAMABAD - Dopo il blitz dei leggendari "uomini rana", i Navy Seal americani, che ha posto fine alla decennale caccia a Osama bin Laden, la sorte del cadavere del leader di al Qaida rischia di innescare roventi polemiche. Inoltre si e' aperto anche un giallo sulle immagini del corpo pubblicate dalle tv pachistane.

Il corpo sarebbe stato "seppellito in mare" hanno riferito funzionari statunitensi, dopo essere stato portato in Afghanistan. "Il corpo di Osama bin Laden deve essere sepolto nella terra e gettarlo in mare rappresenta un peccato", ha sottolineato Mahmoud Ashour, dell'accademia delle ricerche islamiche di Al Azhar, il più prestigioso centro di sapere sunnita.

Le reti televisive pachistane, che hanno diffuso oggi una foto presentandola come quella del cadavere di Osama Bin Laden, hanno ammesso che si trattava di un falso e l'hanno ritirata.

Immediatamente dopo la pubblicazione su vari siti web si era scatenato il dibattito e molti sostenevano che la foto fosse chiaramente un fotomontaggio. Diverse reti avevano presentato una foto del volto parzialmente sfigurato e insanguinato di un uomo con una folta barba nera affermando che si trattava del volto di bin Laden, pur precisando di non poter garantire l'autenticita'. ''Era in realta' una foto falsa, gia' circolata nel 2009'', ha detto Rana Jawad , il capo dell'ufficio di Islamabad di Geo Tv. Le tv americane non hanno mostrato la foto.

In Italia lo aveva scritto da subito il sito pacifista Peace Reporter. ''Si tratta - scriveva il sito it.peacereporter.net - di una immagine evidentemente elaborata con un programma di editing di immagini, ripresa dal sito 'unconfirmedsources'. Il nome del file, peraltro, 20060923-torturedosama.jpg dovrebbe bastare a chiarire l'equivoco: si tratta di una foto del 23 settembre 2006 il cui nome è 'osama torturato'''.

ansa.it

Ma perchè poi l'hanno subito seppellito in mare?

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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