Misteri d'Italia

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00giovedì 3 febbraio 2011 12:27
Stragi 'del 93, parla Spatuzza
"Chiedo perdono a Firenze"


Si è aperta, nell'aula bunker di Santa Verdiana a Firenze, l''udienza del processo sulle stragi del '93 a Roma, Firenze, Milano, che vede imputato Francesco Tagliavia. Al centro della giornata l'audizione di Gaspare Spatuzza. Il" pentito" è arrivato scortato da 7 agenti coperti da ’mefisto' per motivi di sicurezza. Lui stesso è stato fatto accomodare su una sedia circondata da paraventi. Si vedono solo i piedi. Numerose le telecamere presenti in aula, autorizzate a fare le riprese pur con queste cautele per la sicurezza del testimone. In collegamento dal carcere di Viterbo l’imputato Francesco Tagliavia.
Il procuratore capo di Firenze Giuseppe Quattrocchi assisterà in aula alla deposizione del pentito Spatuzza. Accanto a lui, i pm Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi. Nell’aula bunker assiste al processo anche una scolaresca dell’Istituto tecnico per il turismo ’Marco Polò di Firenze, accompagnata dagli insegnanti. A fare le riprese anche uno studente dell’Università di Firenze per un sito di informazione studentesca autorizzato dal presidente della Corte di Assise Nicola Pisano.
«Che sia un buongiorno per tutti..». Così, il pentito Gaspare Spatuzza ha esordito dopo aver preso posto nell’aula. Spatuzza ha detto di «intendere» rispondere alle domande dei pm. E ha continuato: «Sono arrivato in questa città, a Firenze, da terrorista, il nostro obiettivo era colpirla nel cuore e ci siamo riusciti». «Oggi dopo 18 anni vengo come uomo e soprattutto come pentito - ha aggiunto Spatuzza - e intendo chiedere perdono che può non essere accettato, che può essere strumentalizzato ma dovevo farlo».


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00martedì 22 febbraio 2011 16:59
Omicidio Valerio Verbano, ci sono i due indagati


Nel giorno del 31mo anniversario dell'assassinio del giovane comunista, confermata la notizia data da Repubblica sulla riapertura del "cold case". I due sospettati riconosciuti da testimoni tramite foto segnaletiche dell'epoca. Uno risiede all'estero

ROMA - Sono effettivamente indagati per omicidio volontario dalla Procura di Roma i due uomini di cui scrive oggi Repubblica 1, indiziati dell'assassinio di Valerio Verbano, il giovane comunista ucciso in casa il 22 febbraio 1980. Entrambi identificati dopo una rilettura del vecchio fascicolo processuale, sarebbero stati riconosciuti da alcuni testimoni tramite ricognizione delle foto segnaletiche dell'epoca. Il caso Verbano è dunque riaperto, con l'obiettivo di consegnare alla giustizia, 31 anni dopo l'omicidio, due dei tre assassini di Verbano.
Un vero e proprio "cold case", quello di Valerio Verbano. L'inchiesta è infatti stata riaperta oltre un anno fa nell'ambito di una verifica sulla insolubilità di vecchi casi attraverso l'utilizzo delle tecniche investigative più moderne e sofisticate. Le indagini sul caso Verbano sono coordinate dal procuratore aggiunto Pietro Saviotti e dal sostituto Erminio Amelio. All'epoca dell'omicidio, i due indagati, uno dei quali oggi risiede all'estero, non militavano in organizzazioni eversive, ma, stando alle indiscrezioni, frequentavano personaggi legati a Terza Posizione e ai Nar. L'omicidio, avrebbero accertato i carabinieri del Ros, sarebbe maturato nell'ambito delle
vendette tra estremisti di destra e di sinistra che caratterizzarono, soprattutto a Roma, gli anni di piombo. Nelle intenzioni degli inquirenti c'è ora la convocazione in procura dei due indagati.

La madre di Valerio Verbano, Carla Zappelli, 87 anni, aveva in precedenza commentato l'articolo di Repubblica in cui si rivela l'esistenza dei due presunti killer identificati. "Ieri in effetti - rivela la signora - è successo un fatto curioso, che si spiega alla luce di ciò che ho letto oggi sul giornale: sono venuti qui a casa mia un magistrato e un tenente colonnello dei Ros. Mi hanno detto che era un anno e mezzo che lavoravano sulla documentazione di Valerio".

"La notizia che ci sono finalmente due nomi collegati all'omicidio di mio figlio è un sollievo - dice ancora la signora Zappelli -. Se dopo 31 anni si riuscisse a scoprire qualcosa sarebbe meraviglioso. E' quello che aspetto. Ed acquista un valore ancora più grande perché avviene in questa giornata, nel 31mo anniversario della morte di mio figlio. Non voglio illudermi più di tanto. E' già successo tante volte e altrettante sono rimasta delusa. Però oggi ho più speranza".

L'anziana madre della giovane vittima di quegli anni di violenza politica ricorda anche la precisione con cui suo figlio aveva messo assieme un suo schedario dei militanti di destra del "triangolo dell'odio", i quartieri di Roma Trieste-Salario, Talenti, Montesacro. Documentazione che Valerio aveva collezionato in circa tre anni e che "assomigliava - ricorda la madre - per grandezza, a una tesi di laurea, senza la copertina rigida però. All'indomani dell'assassinio presero quel grande quaderno e quando mi venne restituito mancavano tante pagine".

Sollevata dalla notizia e con rinnovata speranza di verità, la signora Carla oggi presenzierà al ricordo di Roma nel 31mo anniversario della tragica fine di suo figlio. Gli appuntamenti sono alle 16 davanti alla lapide di Valerio in via Monte Bianco, dove Valerio abitava e fu ucciso in casa. Alle 17 è previsto un corteo cittadino nelle vie del IV Municipio. Alle 20, infine, "iniziativa musical-teatrale" presso la palestra popolare "Valerio Verbano", in via delle Isole Curzolane.
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00giovedì 24 marzo 2011 11:25
Morte di Giuliani al G8 di Genova
La Corte di Strasburgo assolve l'Italia


La decisione è stata assunta a maggioranza dai giudici della Grande Camera

BRUXELLES
La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, con sentenza definitiva, ha assolto oggi l’Italia dalle accuse di aver responsabilità nella morte di Carlo Giuliani avvenuta durante gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine nel corso del G8 di Genova.

La decisione è stata presa a maggioranza dai giudici della Grande Camera: tredici voti a favore e quattro contrari. I giudici della Grande Camera hanno stabilito la piena assoluzione di Mario Placanica, il carabiniere che sparò a Carlo Giuliani in piazza Alimonda, confermando così la sentenza di primo grado emessa il 25 agosto 2009. La Grande Camera ha anche assolto l’Italia dall’accusa di non aver condotto un’inchiesta sufficientemente approfondita sulla morte di Giuliani. In questo caso la Corte si è espressa con 10 voti a favore e 7 contrari. La stessa maggioranza si è pronunciata anche per l’assoluzione dell’Italia dall’accusa di non aver organizzato e pianificato in modo adeguato le operazioni di polizia durante il summit del G8 a Genova.

A presentare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, nel giugno del 2002, sono stati i genitori e la sorella di Carlo Giuliani, che ieri sera, di fronte alle indiscrezioni che parlavano di verdetto favorevole all'Italia, hanno detto che non si sarebero comunque arresi. «Siamo pronti anche ad una causa civile - handetto il padre di Carlo -: non per rifarci sul carabiniere, ma per aprire l’unica possibilità che ci rimane affinchè ci sia un dibattimento pubblico».

Nel loro ricorso a Strasburgo i Giuliani hanno accusato le autorità italiane di aver di fatto causato la morte del ragazzo. Mario Placanica, il carabiniere che sparò a Carlo Giuliani in piazza Alimonda il 20 luglio del 2001, secondo la famiglia, avrebbe fatto un uso sproporzionato della forza. Ma a giocare un ruolo nella morte di Carlo sarebbero state sia l’inadeguata organizzazione delle forze dell’ordine presenti a Genova, sia le regole di ingaggio, che a differenza di quanto succede per esempio in Iraq, non impongono l’uso di proiettili di gomma per il mantenimento dell’ordine pubblico durante le manifestazioni.

La famiglia Giuliani sostiene inoltre che le autorità non hanno condotto un’inchiesta adeguata per accertare le cause della morte del ragazzo, sollevando dubbi anche su come è stata eseguita l’autopsia. In prima istanza, la Corte di Strasburgo ha accolto solo parzialmente le tesi dei Giuliani condannando l’Italia per il modo in cui è stata effettuata l’inchiesta mentre ha pienamente assolto Placanica, che, secondo i giudici, agì per legittima difesa.

Questo verdetto, per altro non unanime, non ha soddisfatto né la famiglia né il governo italiano che hanno quindi chiesto e ottenuto una revisione dell’intero caso davanti alla Grande Camera. I 17 giudici sorteggiati per il riesame, hanno ascoltato le parti durante un’udienza pubblica lo scorso 29 settembre.
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00giovedì 7 aprile 2011 11:46
Moby Prince, vent'anni fa la strage
Il traghetto si scontro' con la petroliera Agip Abruzzo al largo di Livorno, morirono 140 persone


Vent'anni di processi senza colpevoliLa testimonianza: "Io, impotente davanti a fumo e fiamme"


LIVORNO - Aveva mollato gli ormeggi alle 22.03 dal porto di Livorno, mezz'ora più tardi era già una palla di fuoco alla deriva nella rada del porto toscano, una bara galleggiante.

Nessuno, però, per quasi un'ora si accorse di ciò che avveniva a bordo del Moby Prince, il traghetto della Navarma sul quale il 10 aprile 1991 morirono 140 persone. Alle 22.36 Renato Superina, comandante della petroliera Agip Abruzzo, contro la quale era finita la prua del Moby, lanciò l'allarme per un incendio a bordo dopo la collisione con una bettolina.

A Livorno, chi pensò al Moby, lo immaginò ormai diretto ad Olbia, con al timone il comandante Ugo Chessa, e i soccorsi si concentrarono sull'Agip. Solo per caso alle 23.35 due ormeggiatori si avvicinarono al traghetto in fiamme e così venne scoperta quella che sarà la più grave tragedia della marina mercantile italiana dalla Seconda Guerra mondiale.

Un solo superstite, il mozzo Alessio Bertrand che, aggrappato al bordo del Moby fu salvato proprio dagli ormeggiatori che lo convinsero a gettarsi in acqua. Dal traghetto, come poi verrà ricostruito durante i processi, la richiesta di soccorso era partita: "May day.... may day..Moby Prince..... Moby Prince.....siamo in collisione ..siamo in fiamme..occorrono i vigili del fuoco...compamare se non ci aiuti prendiamo fuoco..may day may day......".

Erano le 22.26, ma alla sala radio della Capitaneria arrivò con un segnale debolissimo, non venne sentito. Sono passati 20 anni ma il film di quella notte e quello dei giorni successivi continuano a scorrere negli occhi e nelle menti dei familiari delle vittime, 75 passeggeri e 65 membri dell'equipaggio. E coloro che lavorarono tutta la notte con la speranza di trovare ancora qualcuno in vita nei saloni di quell'ammasso di lamiere annerite che il giorno dopo verrà rimorchiato, ancora fumante, nella Darsena del porto. Le tante storie di chi solo per miracolo si è salvato, perché arrivato in ritardo per la partenza o sbarcato poche ore prima per qualche giorno di ferie, si intrecciarono con quelle dei corpi trovati a bordo.

Di certo la morte per la maggioranza delle persone a bordo non fu immediata: oltre 40 corpi vennero trovati all'interno di uno dei saloni centrali del traghetto e le autopsie confermeranno la presenza di monossido di carbonio nei polmoni. Probabilmente si erano riuniti convinti che i soccorsi arrivassero prestissimo vista la vicinanza al porto.

Invece il racconto dei primi vigili del fuoco saliti a bordo di quello che restava del Moby parlarono di un ammasso di corpi bruciati, ormai tutt'uno con le lamiere e ciò che restava di mobili e suppellettili. Terribile l'opera di riconoscimento delle vittime: ai familiari venne chiesto di ricordare qualsiasi particolare utile a permettere di riconoscere i loro cari.

E intanto, mentre ancora il Moby bruciava, partirono le prime polemiche: per i ritardi nei soccorsi, per la nebbia che per qualcuno c'era per altri no, per un tratto di mare affollato da navi americane di ritorno dalla prima guerra del Golfo. Poi l'avaria del timone, l'errore umano. Fino all'ipotesi di un attentato. Polemiche che alimenteranno i processi e che faranno della tragedia del Moby uno dei misteri italiani.
( ansa.it )


La versione ufficiale ridicola per alcuni anni fu un errore di distrazione del comandante e dell'equipaggio tutti presi vedere barcellona-juventus.. [SM=g27996]

la cosa piu' agghiacciante è che volutamente nn vennero salvati..

in uno speciale de la storia siamo noi c'è una ricostruzione molto accurata di quel disastro intitolata non a caso " il porto delle nebbie "..


www.youtube.com/watch?v=DJoj_i8rsb8&feature=fvwrel


le altre parti si trovano su youtube
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00martedì 12 aprile 2011 14:44
Nozze Izzo-Papi, già finito il matrimonio
tra il mostro del Circeo e la giornalista


L'annuncio della sposa: Angelo deve chiarire alla giustizia ciò che ha detto a me e io non voglio essere complice di cose che non condivido

ROMA - Da primavera a primavera. È durato un annetto appena il discusso matrimonio tra Angelo Izzo, «il mostro del Circeo» e la giornalista Donatella Papi. La signora, che subito dopo le nozze, il 10 marzo dello scorso anno, nel carcere di Velletri (Roma), aveva annunciato raggiante di aver finalmente coronato un sogno d'amore lungo decenni e di voler trascorrere accanto al pluriomicida il resto della sua vita, oggi pare aver cambiato idea.

LA FINE DEL MATRIMONIO - Il perché lo ha spiegato lei stessa. «Izzo non è colpevole dei reati che gli sono stati attribuiti, ma di altri fatti gravissimi per la nostra Repubblica. Penso che Angelo debba chiarire alla giustizia quello che ha detto a me, sulla sua posizione. Deve prima chiarire i fatti di Ferrazzano e del Circeo. Se non fa chiarezza su questi fatti come fa a essere collaboratore di giustizia in altri processi? Lui non porta avanti i suoi processi personali, dove potrebbe dimostrare la sua posizione. Credo che Izzo non sia responsabile dei delitti per i quali è stato condannato - ha insistito la Papi - ma io mi fermo qui, perché non mi voglio fare complice di cose che non condivido». Una spiegazione un po' ermetica dove non compare più la parola «amore» con la quale, il giorno delle nozze, Donatella Papi aveva sfidato tutti quelli - prima fra tutti la sorella di Rosaria Lopez, vittima del massacro compiuto a metà degli anni Settanta - a cui pareva assurda la sua scelta. «Sono una sposa serena. Ho sposato l'uomo che amo. È quello che volevamo entrambi. Non abbiamo paura, non abbiamo fatto nulla di male» aveva dichiarato assicurando che l'uomo conosciuto 35 anni prima, era portatore di «un enorme patrimonio spirituale, dotato di un autentico codice sentimentale».

In carcere le nozze di Izzo




LE NOZZE IN ROSA - Per il bramato sì aveva indossato un abito di seta rosa cipria con un soprabito bianco. Alla cerimonia, c'erano solo i due sposi, i 4 testimoni (due amiche carissime della Papi), un pubblico ufficiale dell'Ufficio Stato Civile, il Direttore Generale del Comune di Velletri e il Direttore del Carcere. Ma lo scambio delle fedi, aveva raccontato la sposa ai giornalisti, era stato molto toccante, così come il bacio tradizionale. Una felicità turbata, appena un mese dopo, dalla tragica scomparsa dell'unico figlio 17enne della giornalista, nipote di Amintore Fanfani, morto in un incidente con la sua minicar. Una fatalità dietro la quale la donna aveva visto oscure trame tanto da dichiarare che la morte del ragazzo era stata «un sacrificio per la patria» e da pretendere autopsia e indagini rigorose. Oggi un altro «addio» nella vita di Donatella Papi. (fonte Ansa).

.........

Questa dovrebbe spiegare solo come si fa ad avvicinarsi ad un personaggio del genere.
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00martedì 19 aprile 2011 13:40
Gravi motivi di salute, torna libero Concutelli
L'ex leader di Ordine Nuovo il 10 luglio del 1976 uccise a Roma il giudice Vittorio Occorsio



Il neofascista Concutelli, meta' vita in carcere
ROMA - Pierluigi Concutelli, l'ex leader di Ordine Nuovo, che, il 10 luglio del 1976, uccise a Roma il giudice Vittorio Occorsio, è uscito dal carcere.
Concutelli è tornato in libertà, secondo quanto si è appreso, per 'gravi motivi di salute'. Dal marzo del 2009 era ai domiciliari perché colpito da ischemia cerebrale, anche se formalmente dipendeva dal carcere di Rebibbia.

NIPOTE OCCORSIO, GLI AVREI DATO PENA MORTE - "Io a Concutelli gli avrei dato la pena di morte. E non parlo solo come nipote di Vittorio Occorsio ma perché l'Italia da oggi è un paese meno sicuro con lui in libertà". E' l'opinione di Vittorio Occorsio, nipote ventitreenne del giudice, del quale porta lo stesso nome, ucciso nel 1976 da un commando neofascista. Il giovane ha saputo dal padre Eugenio la notizia della liberazione dell'assassino del nonno. "Sono incredulo e amareggiato", dice il ragazzo.

BLOG, SOSPESA PENA, ANDRA' DA AMICI A OSTIA - Secondo il blog "Fascisteria" curato dal giornalista Ugo Maria Tassinari, a Pier Luigi Concutelli "è stata riconosciuta la sospensione della pena per le gravi condizioni di salute". Due anni fa "ha subito infatti un grave ictus che gli impedisce di parlare e di alimentarsi regolarmente", si legge nel blog. "Dopo il riconoscimento del beneficio da parte del giudice dell'esecuzione della pena, ha lasciato gli arresti domiciliari - era ospite del fratello a Portogruaro - ed è stato trasferito dagli amici che lo assisteranno in una casetta sul mare, sul litorale di Ostia, a Roma", si spiega nel blog di Tassinari.


faberhood
00mercoledì 20 aprile 2011 10:40
Attentato a Wojtyla, l'ultima verità-il mistero della terza pallottola
Il numero di colpi sparati e la reale identità dei mandanti. Trent'anni fa Giovanni Paolo II fu ferito da Alì Agca. Nuove carte e testimonianze smontano le ipotesi finora tracciate. Esecutori e mandanti furono gli stessi: i Lupi grigi. Una montatura della Cia dietro la pista bulgara. E la giustizia italiana fallì di MARCO ANSALDO

CITTA DEL VATICANO - "Se solo il Vaticano parlasse... Il Santo Padre, quel benedett'uomo, ci nascose persino la pallottola che gli uomini della sua sicurezza raccolsero sul pianale della papamobile. Noi giudici fummo tenuti all'oscuro di questo fatto per molto tempo, anni. Eppure si trattava di un elemento unico, determinante ai fini dell'indagine. Poi, in occasione di un anniversario dell'attentato, uno dei primi, il Pontefice andò a mettere il proiettile sopra la testa della Madonna di Fatima, in Portogallo".
Fu Ilario Martella a condurre, dopo il primo rito per direttissima, la seconda inchiesta giudiziaria dell'atto di terrorismo forse più eclatante del XX secolo insieme all'omicidio di John Fitzgerald Kennedy a Dallas. Oggi quel dettaglio che l'anziano magistrato ricorda, assieme a quello - tutt'altro che secondario - di tre colpi sparati in piazza San Pietro invece dei due di cui si è sempre saputo e che raggiunsero il Papa, potrebbe contribuire ad alzare il velo sul mistero dell'attentato a Wojtyla.

Chi furono i mandanti? Attorno a questa domanda ruota, esattamente da 30 anni, il nodo irrisolto dell'agguato a Giovanni Paolo II in piazza San Pietro avvenuto il 13 maggio 1981. E la risposta, in un'inchiesta lunga vent'anni e compiuta in sei Paesi diversi, è che non vi furono mandanti. I responsabili non furono né i bulgari, né il Kgb. E neppure, come hanno sostenuto altre ricostruzioni, la Cia, e tantomeno il Vaticano. I mandanti furono gli stessi esecutori. A ideare, concepire e compiere l'attentato a Wojtyla furono infatti i Lupi grigi turchi, ultranazionalisti, filo islamici, contrari all'Occidente e al capo della religione che per essi lo rappresenta. E lo fecero per ragioni ben precise.

LA TERZA PALLOTTOLA
Allora forse bisogna partire da qui, da uno dei dettagli più nascosti di un'indagine ormai finita a livello processuale - anche gli ultimi due gradi di giudizio non riuscirono a determinare prove sufficienti per individuare i mandanti - nel tentativo di ricostruire i meccanismi che portarono agli spari del 13 maggio 1981. Perché, appunto, quella pallottola esplosa contro il Papa è un dettaglio dimenticato, rimasto sepolto nelle cronache della visita di Giovanni Paolo II in Portogallo, e mai riemerso. Il proiettile posto sulla corona della Madonna di Fatima, rimasto fino al 1984 in Vaticano e mai periziato dalla magistratura indipendente, potrebbe dire molto: ad esempio se a esploderlo fu lo stesso Agca, oppure, qualora risultasse non compatibile con la sua arma, da un'altra pistola.

Un contributo nuovo e rilevante lo danno gli archivi della Repubblica federale tedesca a Berlino, che negli ultimi anni stanno raccogliendo, classificando, e riunendo pezzo per pezzo, avvalendosi di computer di ultimissima generazione, le briciole dei documenti stracciati dai funzionari comunisti nelle drammatiche ore che seguirono la caduta del Muro. L'azione è cominciata alle 17.19", leggiamo in un protocollo del Ministerium für Staatssicherheit (MfS), il ministero per la Sicurezza dello Stato, noto come STASI, cioè i servizi segreti della Germania Est, "il Papa è stato colpito da tre pallottole".

IL COMPLOTTO
La possibile presenza di una terza pallottola è un dettaglio rilevante. Ilario Martella conferma che si tratta di un elemento capace di portare a nuove piste. Una tesi di cui sono convinti, pur nelle diverse valutazioni circa i mandanti, molti dei magistrati che indagarono sul caso, da Rosario Priore a Ferdinando Imposimato. Quel proiettile in più potrebbe dimostrare in maniera certa la presenza di un secondo killer, quindi di un commando e, dunque, di un complotto. Demolendo quindi la tesi dell'azione compiuta da un attentatore solitario come quella sostenuta in ultimo da Agca, estradato in Turchia dopo vent'anni di carceri italiane, una volta accettata la sua versione di aver agito da solo.

IL PROGETTO
L'azione fu pensata ed esposta ai suoi compagni in carcere dall'attentatore già quando Giovanni Paolo II andò in viaggio ufficiale in Turchia (28-30 novembre 1979). Il giovane killer, accusato dell'omicidio del direttore del quotidiano di sinistra Milliyet, Abdi Ipekci, fu fatto evadere solo quattro giorni prima dalla prigione di Kartal Maltepe con l'aiuto dei Lupi grigi e dei militari turchi. E inviò allo stesso giornale una lettera con la minaccia: "Ucciderò il capo dei cristiani".

I  MOTIVI
Agca non riuscì allora nel suo proposito, ma lo fece un anno e mezzo dopo, a Roma. Ad aiutarlo fu la fazione guidata dal capo dei giovani Lupi grigi Abdullah Catli, collegato in Turchia ai partiti di centro destra e alla polizia, come si scoprirà nell'incidente automobilistico di Susurluk che lo uccise nel 1996 e che divenne perciò un colossale caso politico, svelando gli intrecci fra criminalità e istituzioni.
I Lupi grigi, una volta usati dai generali per i disordini di piazza e gli omicidi organizzati che portarono al golpe del 1980 (12 settembre), furono ripudiati e cacciati per i loro crimini. Si rifugiarono in Germania, Francia e Austria. E lì, con un sentimento di rivalsa sia verso i militari turchi - da cui si sentivano traditi - sia nei confronti dell'Occidente in generale - da cui non si sentirono appoggiati - vollero dimostrare di che cosa fossero realmente capaci puntando a obiettivi più alti, a livello internazionale. Concepirono così nel periodo seguente (fine 1980-'81) l'ipotesi di attentati a grandi personalità politiche mondiali, la Regina d'Inghilterra, il segretario dell'Onu Kurt Waldheim, la presidente del Parlamento europeo Simone Weil. E il Papa, naturalmente, che incarnava tutto il contrario del pensiero ultranazionalista dei Lupi grigi. "Il progetto partì dallo stesso Ali - confessa oggi l'ex Lupo grigio Dogan Yildirim - e il piano spaccò la nostra base". Alla fine il disegno fu appoggiato e finanziato dal gruppo.

LA CIA E IL FALSO DELLA PISTA BULGARA
Non ci furono mandanti, perché i Lupi grigi organizzarono il piano da soli. Né ci sono - come non ci sono mai stati, del resto - documenti in proposito, al di là delle minute disegnate dall'attentatore. Il progetto avvenne in puro stile criminale, nello stile del gruppo. La pista bulgara fu un falso. Un'operazione fortunata e di grande successo, cavalcata ancora oggi da alcuni politici e magistrati, soprattutto in Italia, ma preparata a tavolino. Fu ideata dalla Cia, addirittura un anno e mezzo dopo l'attentato, alla fine del 1982, dopo che un gruppo ristretto costituitosi all'interno del Centro di studi internazionali e strategici di Washington e guidato da Michael Ledeen (lo stesso analista che nel 2003 inventerà la pista dell'uranio arricchito in Nigeria venduto all'Iraq come motivo dell'attacco di Bush a Saddam Hussein), sulla spinta dal segretario di Stato americano, il "falco" ex generale Alexander Haig, scatenò una campagna di accuse contro Sofia, per colpire l'Unione Sovietica allora considerata dall'amministrazione Reagan come l'Impero del Male.

Si fece leva, in maniera molto astuta, sul periodo trascorso dall'attentatore nel 1980 in Bulgaria. I Lupi grigi erano certamente presenti a Sofia, ma non per progetti politici inconcepibili (erano infatti un gruppo fascista), quanto piuttosto per compiere affari con i bulgari nella compravendita di armi e droga, come dimostreranno le coraggiose inchieste del giornalista turco Ugur Mumcu (poi saltato in aria sulla sua auto nel 1993), riprese poi in Italia dal giudice Carlo Palermo. Lo strumento su cui l'intelligence Usa agì furono i servizi giornalistici di Claire Sterling sul Reader's Digest e sulla Nbc, pilotati dal capo della stazione Cia ad Ankara, Paul Henze. A queste "rivelazioni" dei media americani (settembre 1982), seguì il viaggio del giudice Ilario Martella a Washington per parlare con gli autori degli articoli (ottobre 1982). Al suo ritorno, Agca, che ha sempre avuto la capacità di fiutare il vento e di riadattare le proprie versioni, cominciò per la prima volta a parlare, pur tra evidenti contraddizioni e sotto la probabile influenza dei servizi italiani, della nuova pista bulgara (interrogatorio dell'8 novembre 1982).

IL PROCESSO E L'ASSOLUZIONE
Le sue accuse finirono per costituire il fondamento della partecipazione di Sofia nell'azione contro il Papa polacco, con il sottinteso (mai dimostrato) che la regia dell'operazione risiedesse a Mosca. A Roma tre funzionari bulgari, Antonov, Ayvazov e Vassilev, furono indicati dall'attentatore come suoi complici. Il primo subì un lungo processo, con accesi confronti in aula con i Lupi grigi, i quali, senza scrupolo, a quel punto trascinarono lui e la Bulgaria nel vortice di un fantomatico complotto.

LE FALLE DELLA GIUSTIZIA ITALIANA
La giustizia italiana, che fallì completamente (e fu per questo molto criticata all'estero) perché non riuscì mai a concentrarsi sui veri motivi che condussero all'attentato, impiegando tempo a privilegiare ipotesi rivelatesi come irrealistiche e svianti, nel 1986 fu costretta ad assolvere i bulgari per insufficienza di prove. Oggi il corrispondente del Washington Post, Michael Dobbs, che seguì il caso spiega: "Molte delle prove portate in tribunale avrebbero fatto ridere una Corte americana".

I LUPI GRIGI OGGI
Agca, nelle migliaia di parole scritte e scambiate a voce con noi in vent'anni, di recente si è lasciato sfuggire con me e la giornalista turca Yasemin Taskin, coautrice del libro Uccidete il Papa (Rizzoli), che "l'attentato non è complicato, come si crede, ma, in fondo, è una faccenda semplice". Una faccenda semplice e lineare perché ad attentare alla vita del Papa e a concepire l'idea dell'agguato fu il suo gruppo, i Lupi grigi turchi. Le complicazioni arrivarono dopo, artatamente, quando a mischiare le carte furono i vari servizi segreti dei Paesi coinvolti, Italia compresa, tese ad accusare o a coprire, a seconda delle rispettive convenienze. Sono i Lupi grigi il solo gruppo che l'attentatore ha sempre protetto, nelle 107 versioni fornite finora, gli unici che non ha mai tradito, e da cui, tuttora, è assistito, finanziato e sostenuto.

I CRIMINI ANTICRISTIANI
L'avversione dei Lupi grigi - frammentatisi nel tempo in decine di sigle diverse, e presenti ancora nel Parlamento ad Ankara - agli esponenti cattolici, è resistita fino a oggi. Come dimostrano gli omicidi recenti in Turchia del vescovo monsignor Luigi Padovese, di don Andrea Santoro, dei tre editori della Bibbia a Malatya (città natale di Agca) e di tanti altri assalti, avvenuti per mano loro.
Sound72
00martedì 3 maggio 2011 16:35
Roma Sud, maxi blitz del Ros
Stroncata la nuova banda della Magliana




ROMA - Un'organizzazione violenta e ambiziosa che, dopo i successi nelle zone di Cinecittá, Tor Bella Monaca e Tuscolana, puntava a espandersi quella smantellata dai carabinieri del Ros che hanno arrestato 38 componenti e indagato altri 43 in un'operazione denominata Orfeo.
«Pijamose tutta tutta Roma» diceva alcuni giorni fa uno degli esponenti di spicco in una conversazione intercettata dai militari. Il gruppo, ben radicato nella capitale, era collegato allo storico sodalizio che faceva capo a Michele Senese, arrestato alcuni anni fa durante l'operazione «Orchidea», che in passato si era affermato grazie ai rapporti con gruppi camorristici napoletani. Mensilmente il gruppo criminale commercializzava sul mercato romano fino a tre quintali di hashish e marijuana e oltre trenta chili di cocaina.

Sequestrato anche un laboratorio a Grottaferrata in cui veniva confezionata la droga e vari depositi per lo stoccaggio. «Il comando provinciale ha fornito il personale necessario per l'attuazione tempestiva ed efficace delle misure cautelare e dei sequestri - ha detto il comandante provinciale dei carabinieri, Maurizio Mezzavilla nel corso di una conferenza stampa presso la Procura di Roma - abbiamo impegnato circa 250 uomini».

Un'organizzazione particolarmente violenta, «ben strutturata, con basi logistiche e un sistema che garantiva gli affiliati anche la tutela legale». L'organizzazione nata nella periferia sud est di Roma (Tor Bella Monaca, Cinecittà, Tuscolana) era pronta ad espandersi in tutto il territorio capitolino. Mensilmente la banda, secondo quanto emerso nel corso di una conferenza stampa in Procura alla presenza del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e del comandante provinciale dei Carabinieri Maurizio Mezzavilla, è risultata in grado di commercializzare, sul mercato romano, sino a tre quintali di hashish e marijuana, oltre a circa trenta chilogrammi di cocaina.

messaggero.it

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altri nuovi eroi..cmq se uno da un'occhiata su youtube ai commenti dei video sulla banda della magliana è pieno di gente esaltata che sa tutti i cazzi dei vari boss..Grande quello, infame quell'altro, ci ha avuto le palle, hanno fatto bene a fallo fuori etcetc....
lucolas999
00martedì 3 maggio 2011 16:45
Re:
Sound72, 03/05/2011 16.35:

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altri nuovi eroi..cmq se uno da un'occhiata su youtube ai commenti dei video sulla banda della magliana è pieno di gente esaltata che sa tutti i cazzi dei vari boss..Grande quello, infame quell'altro, ci ha avuto le palle, hanno fatto bene a fallo fuori etcetc....




il ritratto di mio cognato .... che naturalmente segue anche uomini e donne [SM=x2478843]

Sound72
00giovedì 19 maggio 2011 10:30
"La mafia, Berlusconi e Mancino"
Le verità di Giovanni Brusca


"Molti contatti con il Cavaliere, ma con le stragi del '92-'93 non c'entra niente". E l'ex ministro dell'Interno Mancino era "garante e terminale della trattativa" Stato-Cosa nostra. La replica: "Dice falsità per vendetta"

"Berlusconi può essere accusato di tante altre cose, ma per le stragi del '92-'93 non c'entra niente, non facciamolo diventare un martire. Veniva accusato anche di cose peggiori. Di tutto questo parlai con i miei cognati, Salvo e Rosario Cristiano. Ho querelato l'Espresso perché non ha rettificato una notizia falsa: io non sono mai andato da Berlusconi". E' quanto ha sostenuto Giovanni Brusca nell'aula bunker di Rebibbia, deponendo al processo al generale dei Carabinieri Mario Mori, accusato di favoreggiamento alla mafia. Il pentito è di nuovo tornato ad accusare Nicola Mancino, sostenendo che l'ex ministro dell'Interno era il "garante e il terminale" delle presunte intese tra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni. Dura la replica di Mancino: "E' un 'pentito' itinerante tra i vari uffici giudiziari. Ripete per vendetta falsità nei confronti di un ex ministro dell'Interno che nel periodo 1992-93 fece registrare, tra i tanti arresti di latitanti, anche quello di Riina. Non desidero dire altro".

I rapporti con Berlusconi. Per quanto riguarda i rapporti con Silvio Berlusconi, secondo Brusca l'attuale premier sarebbe stato oggetto di pressioni da parte dei mafiosi di Santa Maria di Gesù e avrebbe avuto rapporti con i boss Stefano Bontate e Giovanello Greco. Brusca nella deposizione di Rebibbia rispondendo al pm Nino Di Matteo ha parlato di investimenti fatti da Greco, che si sarebbe rivolto a Gaetano Cinà, dicendogli di volere riprendersi soldi dati a Berlusconi.

Il pizzo. "Cinà, persona diversa dal medico pure lui mafioso - ha detto Brusca - poteva arrivare a Berlusconi tramite Dell'Utri", l'attuale presidente del Consiglio "pagava una 'messa a posto' di 600 milioni al mese a Stefano Bontade e successivamente a Totò Riina", ha aggiunto. "Aveva smesso di pagare - ha poi affermato Brusca - e gli venne fatto un attentato. Il mandante era Ignazio Pullarà. L'attentato fu programmato perché ricominciasse a pagare il pizzo". Per questa cosa, ha sostenuto ancora il mafioso, "Totò Riina si arrabbiò e tolse la guida del mandamento a Pullarà, affidandola a Pietro Aglieri. Fu proprio Ignazio a raccontarmi questi fatti. I rapporti con Berlusconi sono durati anche successivamente".

Investimenti mafiosi. Il pentito ha poi sottolineato che "a Milano non era solo Berlusconi che pagava". All'inizio degli anni Ottanta - ha detto ancora - la mafia legata a Stefano Bontate, quella dei cosiddetti perdenti, investì denaro con Dell'Utri e Berlusconi". "Seppi da Ignazio Pullarà - ha aggiunto - che poi il boss Giovannello Greco, temendo di perdere i frutti dell'investimento fatto con Berlusconi, fece un blitz a casa di Gaetano Cinà per riprenderseli".

Lo stalliere di Arcore. Nel '93 ci fu un nuovo tentativo di avvicinare Berlusconi e di spingerlo a trattare, dato che, secondo Brusca, era già ritenuto scontato che sarebbe diventato presidente del Consiglio. "Dopo l'arresto di Riina ho contattato Vittorio Mangano, il cosiddetto stalliere di Arcore, perché si facesse portavoce di alcune nostre richieste presso Dell'Utri e Berlusconi", ha sostenuto il pentito. "Lui - ha aggiunto - era contentissimo di poterci ristabilire i contatti e ci spiegò che si era licenziato dall'impiego ad Arcore per non creare problemi a Berlusconi, ma che tutto era stato concordato anche con Confalonieri e che aveva ancora con loro buoni rapporti". A fare da tramite tra Mangano e l'allora imprenditore Berlusconi sarebbe stato un personaggio che aveva la gestione delle pulizie alla Fininvest.

Nuovi contatti. "L'episodio risale alla fine del '93. Gli volevamo chiedere - ha detto Brusca - tra l'altro di attenuare i rigori nei trattamenti dei detenuti a Pianosa e Asinara e di alleggerire il 41 bis". Brusca ha poi aggiunto di avere detto a Mangano, affinché questi lo riferisse a Dell'Utri in modo tale da fornirgli "un'arma politica", che la sinistra sapeva tutto sulle stragi mafiose del '92 e del '93". Dopo un mese Mangano sarebbe tornato con la risposta di Dell'Utri che gli avrebbe detto: "Vediamo cosa si può fare". Confermando quanto già dichiarato ai pm, Brusca ha ribadito di avere saputo da Mangano che dopo il contatto "erano contenti". "Non mi disse - ha concluso - a chi si riferiva". Brusca, infine, ha ammesso di non avere avuto più notizie sui contatti tra Mangano e i suoi referenti in quanto lo stalliere di Arcore venne poi arrestato nel corso del '94.

Le trattative tra mafia e Stato. Secondo il pentito ci sarebbero state più trattative mafia-Stato: una risale al periodo successivo all'omicidio di Salvo Lima, l'altra al '93, dopo l'arresto di Totò Riina. Secondo la ricostruzione di Brusca, dopo l'omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992) "si sarebbero fatti sotto" due personaggi come Vito Ciancimino, padre di Massimo, e Marcello Dell'Utri. "Il primo portò la Lega (non ha specificato quale, ndr), l'altro un nuovo soggetto politico che si doveva costituire, o che già era costituito, non mi ricordo bene. Entrambi si proposero come alternative a Lima e al sistema politico di cui l'esponente andreottiano della Dc era stato il garante".

Brusca ha fatto poi riferimento a un altro pezzo della trattativa, risalente al periodo successivo alla strage di Capaci (23 maggio 1992): in quel periodo "a farsi sotto" sarebbero stati altri soggetti, non specificati, ma che avrebbero avuto come terminale finale il ministro dell'Interno Nicola Mancino. Quest'ultimo si insediò però il primo luglio del '92. Totò Riina avrebbe riferito a Brusca che nei confronti di questi soggetti si sarebbe presentato "con un papello tanto così (espressione accompagnata da un gesto delle mani) contenente una serie di richieste. Successivamente appresi che il soggetto interessato a fare cessare le stragi era Nicola Mancino. Da lui arrivò la richiesta: 'Cosa volete per finirla con le stragi?'".

In quella fase della trattativa il boss Leoluca Bagarella, sempre secondo Brusca, "si lamentava di essere stato preso in giro da Nicola Mancino 'gliela faccio vedere io', disse con l'evidente intento di ucciderlo". "Si era rimasti insoddisfatti dell'esito", ha spiegato il pentito che ha definito l'ex ministro dell'Interno "garante e terminale della trattativa".

L'altra fase della trattativa riguarderebbe invece il periodo successivo all'arresto di Riina (15 gennaiò93). "In quel momento a me, a Leoluca Bagarella e a Bernardo Provenzano stava a cuore attenuare i maltrattamenti inflitti nelle carceri speciali di Pianosa e dell'Asinara. Poi non volevamo revocare il 41 bis, cosa controproducente, ma svuotarne il contenuto".


( repubblica.it )
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00sabato 4 giugno 2011 13:13
Roberto Peci e il video del primo reality dell’orrore commentato dalla figlia

Oggi su due quotidiani nazionali è uscito un anticipo di "L'inizio del buio", ultima fatica letteraria dell'ex sindaco di Roma Walter Veltroni che ricorda quel terribile 10 giugno 1981 data del rapimento Peci ad opera delle Br e della tragedia di Alfredino



SAN BENEDETTO – A una settimana dall’uscita del nuovo libro di Walter Veltroni dal titolo L’inizio del buio, Alfredino Rampi e Roberto Peci soli sotto l’occhio della tv, edito dalla Rizzoli, due importanti quotidiani nazionali presentano un assaggio dell’ultima fatica letteraria dell’ex sindaco di Roma. Si tratta del Corriere della Sera e di La Repubblica. Il primo regala al lettore un’intervista fatta a Veltroni dal giornalista Antonio D’Orrico, mentre il secondo, nella sua versione online, presenta un estratto del libro e un video inedito.

Piccoli omaggi che non di rado vengono fatti prima dell’uscita ufficiale di un libro, soprattutto se la pubblicazione in questione è particolarmente attesa dal pubblico. Piccoli omaggi che tuttavia questa volta non possono lasciarci indifferenti, perché la storia anticipata è quella del sambenedettese Roberto Peci, vittima della follia di un gruppo di persone e di un momento storico che ancora, a trent’anni di distanza, corrode le coscienze e risveglia ricordi che sembrano brutti incubi.

Nel corso dell’intervista, Veltroni, che sarà a San Benedetto a presentare il libro nella seconda metà di giugno, racconta che il suo intento iniziale era quello di fare un’analisi della televisione italiana e del suo progressivo accrescere di morbosità, partendo dalla storia di un bambino, il piccolo Alfredino Rampi che il 10 giugno del 1981 cadde in un pozzo di un cantiere di Vermicino (Frascati). Per farlo è tornato indietro nel tempo, ripartendo proprio da quel 10 giugno e ha scoperto che a quella terribile data corrispondeva un’altra piaga della storia italiana, una ferita partita proprio da San Benedetto e più esattamente da via Arrigo Boito (oggi, esattamente dal 9 maggio 2011, via Roberto Peci -ndr).

Al giornalista D’Orrico, l’ex sindaco di Roma racconta del suo viaggio a ritroso nel tempo, passato a ricercare testimonianze, a visionare vecchi video e a intervistare i protagonisti infelici di quelle tristi vicende. Un lungo lavoro che l’ha portato anche in Riviera dove pochi mesi fa ha incontrato Roberta, la figlia di Roberto Peci. «Le bierre trasformarono Roberto in un attore. – si legge nell’intervista – Nel corso degli interrogatori lo convinsero, se si voleva salvare, a sposare la loro versione dei fatti sul tradimento del fratello. Lui piano piano imparò il copione e lo recitò. La scena finale del video dice tutto. Le bierre annunciano la fine del processo e la sua condanna a morte. Peci mostra segni di smarrimento, di sgomento. Ma non è scena vera, è preparata. Prima di girarla, gli avevano detto, mentendo, che se fosse stato convincente in quel ciack di disperazione avrebbe aumentato le possibilità, scioccando il pubblico, di essere salvato. Il carceriere mi ha detto che alla fine della ripresa, Peci si rivolse ai suoi aguzzini e domandò: “Sono andato bene?”».

Una messa in scena, quella progettata e imposta a Roberto dalle bierre, che per la prima volta, nella giornata di oggi, 2 giugno, è stata pubblicata dal sito di Repubblica.it con un video. Immagini forti che ripercorrono quel folle e insensato processo proletario fatto a un semplice operaio di 24 anni, vittima incolpevole di un terribile gioco di ruoli, nel quale è stato forzatamente costretto a impersonare quello del “traditore”. Roberto viene ripreso da una super 8 ed è la prima volta, nella storia delle BR, che il video si sostituisce alla polaroid: non più immagini statiche e ferme, ma lo sguardo, i gesti, i movimenti di un uomo, che nel tentativo di salvarsi la vita, diventa l’inconsapevole protagonista di un reality dell’orrore.

Un video che non può lasciare indifferente chi quella storia la ricorda, chi l’ha solo sentita raccontare, ma soprattutto chi da quella storia è dovuto partire, per ricostruirne un’altra. Parliamo della figlia Roberta che sulla sua bacheca Facebook ha deciso di postare quei video, accompagnandoli da una commovente dichiarazione d’amore a quel padre mai conosciuto.

«È la prima volta dopo trent’anni che guardo questo video interamente, – scrive Roberta – lo pubblico perché tutti capiscano quello che è successo a Roberto, un ragazzo di 25 anni che voleva solo tornare a casa, costretto a mentire per cercare di salvarsi la vita… pubblico questo video per farvi capire ( per tutti coloro che ancora dubitano e che si permettono di sporcare il volto di quest’uomo, la memoria di mio padre con delle stupide illazioni) che mio padre apparteneva solamente a mia madre ed alla sua famiglia che lo ha sempre amato moltissimo, non era un membro delle BR ma un ragazzo normalissimo con sogni e ideali! Guardate questo video come oggi per la prima volta io l’ho guardato, guardate gli occhi di questo bellissimo uomo che non è mai diventato padre e che è morto perché era un innocente…»


tv.repubblica.it/copertina/il-processo-delle-br-a-roberto-peci-il-video-di-30-anni-fa/697...
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00giovedì 9 giugno 2011 17:22
Cesare Battisti libero:
Berardi:
«Il governo boicotti i mondiali di calcio in Brasile del 2014»
«Così mio fratello è stato ucciso tre volte»


Maurizio Campagna, fratello dell'agente Andrea, assassinato nel '79 dai Proletari armati per il comunismo



MILANO - «Mio fratello l'hanno ucciso per la terza volta». Maurizio Campagna, fratello dell'agente Andrea Campagna, ucciso in un agguato rivendicato dai Proletari armati per il comunismo, commenta la decisione del Brasile di liberare Cesare Battisti. «La prima nel 1979 per mano di Battisti; la seconda in trent'anni di oblio; la terza, infine, con il verdetto della Corte suprema brasiliana». «Andrea aveva 25 anni quando venne ammazzato», continua Campagna. «Era "reo" di esser stato visto in tv mentre arrestava dei terroristi coinvolti nell'agguato di Torregiani. Era un proletario, un semplice poliziotto: eppure è stato ammazzato dai Proletari armati per il comunismo. Andrò a mettere un mazzo di fiori sul posto dove lo hanno ucciso, in via Modica a Milano».

TORREGIANI - «È una decisione assurda che va oltre ogni limite di ragionevolezza», si esprime Alberto Torregiani, figlio del gioielliere ucciso nel 1979 a Milano dai Proletari armati per il comunismo, e rimasto a sua volta paralizzato nell'agguato. «Mi consulterò con gli avvocati, sono pronto a rivolgermi anche alla Corte internazionale di giustizia dell'Aia. Stanotte non ho chiuso occhio, sono confuso e sconvolto. Non mi fermerò, andrò avanti affinché venga fatta giustizia. La decisione della Corte Suprema brasiliana me l'aspettavo, ma ora che è arrivata è molto più amara di quanto temessi».

SABBADIN - «La scarcerazione di Battisti è l'ennesimo schiaffo in faccia che prendiamo noi parenti delle vittime del terrorismo», dice Adriano Sabbadin, figlio di Lino ucciso il 16 febbraio 1979 a Mestre da un commando dei Proletari armati per il comunismo. Secondo la sentenza italiana, Battisti fece da copertura armata al killer Diego Giacomini. «Domenica», termina Sabbadin, «vogliamo ricordare le vittime di quegli anni con l'intitolazione della piazza di Caltana, vicino Venezia, a mio padre e agli altri caduti delle stragi».

SANTORO - Secondo Alessandro Santoro, figlio di Antonio, il direttore delle carceri di Udine assassinato il 6 giugno 1978 da Battisti, quello del Brasile «è un atto di forza e di potere di un Paese crescente, che rende legittimo un atto di forza e di violenza del passato». È pessimista anche sulle possibilità future di estradizione: «Il tribunale dell'Aia può solo dichiarare una versione autentica di interpretazione del trattato bilaterale. Forse si poteva ceracare una soluzione politica prima della discussione. Non so perché non ci sia stato prima un incontro tra Italia e Brasile».

NO AI MONDIALI DI CALCIO IN BRASILE - «Il governo ritiri la partecipazione della Nazionale di calcio ai mondiali del 2014 - che sono stati assegnati al Brasile, ndr - e da altre manifestazioni organizzate in Brasile, compreso lo stop commerciale da e per quella nazione». L'appello proviene da Bruno Berardi, figlio del maresciallo di polizia Rosario, ucciso dalle Br nel 1978 ed esponente della Fiamma Tricolore.

POLIZIA - Negativi nei confronti del Brasile i commenti dei sindacati di polizia. Valter Mazzetti, segretario generale del sindacato Ugl Polizia, dice che la sentenza «è una vergogna e un oltraggio ai nostri colleghi e alle altre persone uccise per mano terrorista». Franco Maccari, segretario generale del sindacato Coisp, chiede che «si interrompa immediatamente ogni rapporto di natura economica con un Paese che non rispetta le vittime innocenti di un altro Stato rendendosi così complice di una assassino».

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in certi casi come questo una volta intervenivano i Servizi segreti...
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00mercoledì 15 giugno 2011 17:57
Che cos'è l'inchiesta sulla P4

Ad accendere i fari sui partecipanti e le modalità dell’associazione segreta la Procura della Repubblica di Napoli con un’indagine avviata dai pm Francesco Curcio ed Henry John Woodcock

Un’attività di dossieraggio clandestino con l’obiettivo di gestire e manipolare informazioni segrete o coperte da segreto istruttorio. Una vera e propria associazione a delinquere finalizzata anche a controllare appalti e nomine. Questo l’obiettivo con il quale sarebbe sorta la cosiddetta P4, che avrebbe anche interferito sulle funzioni di organi costituzionali, condizionandone le scelte Ad accendere i riflettori sui partecipanti e le modalità dell’associazione segreta la Procura della Repubblica di Napoli con un’indagine avviata dai pm Francesco Curcio ed Henry John Woodcock. Le ordinanze di custodia cautelare agli arresti domiciliari per l’uomo d’affari Luigi Bisignani e per il parlamentare del Pdl Alfonso Papa sono l’epilogo di un’attività indagine caratterizzata anche da numerose perquisizioni e dall’ascolto di testimoni eccellenti.
I provvedimenti emessi oggi rappresentano una svolta sul fronte dell’inchiesta, nella quale finora risulterebbero almeno quattro indagati: oltre a Papa e all’ex giornalista Luigi Bisignani (definito nell’imputazione un «soggetto più che inserito in tutti gli ambienti istituzionali e con forti collegamenti con i servizi di sicurezza»); il sottufficiale dei carabinieri di Napoli Enrico La Monica e l’assistente della Polizia di Stato Giuseppe Nuzzo, in servizio al commissariato di Vasto Arenaccia.
Tutti e quattro, insieme ad altri appartenenti alle forze di polizia in corso di identificazione, avrebbero dato vita ad una organizzazione a delinquere finalizzata a compiere un numero indeterminato di reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia. In due modi: da un lato, acquisendo in ambienti giudiziari napoletani informazioni riservate e secretate relative a delicati procedimenti penali in corso e, dall’altro, notizie riguardanti ’dati sensibilì e personali su esponenti di vertice delle istituzioni ed alte cariche dello Stato. Informazioni e notizie che sarebbero state gestite ed utilizzate in modo «illecito» con lo scopo ultimo di ottenere «indebiti vantaggi ed utilità».

Gli indagati, sempre secondo l’ipotesi accusatoria, avrebbero poi dato vita ad una associazione segreta, vietata dall’articolo 18 della Costituzione, nell’ambito della quale avrebbero svolto «attività dirette ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici anche economici, nonchè di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale».

Il sottufficiale dell’Arma La Monica, in particolare, avrebbe rivelato in più occasioni notizie coperte da segreto (raccolte anche presso altri appartenenti alle forze dell’ordine) in cambio della promessa di essere sponsorizzato per l’assunzione all’Aise, i servizi segreti militari.

Ad avviso degli inquirenti il quadro indiziario è già «nitido» - grazie alle intercettazioni e all’attività investigativa svolta - ed avrebbe portato alla luce un «sistema criminale» ben congegnato e co-gestito «sia da soggetti formalmente estranei alle Istituzioni pubbliche e alla pubblica amministrazione sia, invece, da soggetti espressione delle Istituzioni dello Stato», tra i quali vengono indicati «parlamentari della Repubblica, appartenenti alle forze dell’ordine» ed anche «faccendieri».

Tra i testimoni eccellenti ascoltati anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, il ministro Mara Carfagna, il presidente del Copasir, Massimo D’Alema, il vice presidente di Fli, Italo Bocchino, l’ex dg della Rai, Mauro Masi, il direttore centrale delle Relazioni esterne di Finmeccanica, Lorenzo Borgogni.


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P1..P2..P3...P4...solo in Italia sti ricorsi storici..
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00giovedì 16 giugno 2011 17:01
Roma, cerimonia per Cecchin, croci celtiche e tensione

Dedicato un giardino in piazza Vescovio a un militante del Msi "vittima della violenza politica" nel 1979. Alemanno e il ministro Meloni contestano la lettera di intellettuali e abitanti che chiedevano un'iniziativa dedicata a tutte le vittime

In attesa di una memoria condivisa sulle persone che negli anni di piombo persero la vita inseguendo i propri ideali, da oggi il giardino al centro di piazza Vescovio è intitolato a Francesco Cecchin: un giovane militante missino del Fronte della Gioventù che il 16 giugno di 32 anni fa moriva "vittima della violenza politica", come ricorda la targa al centro delle aiuole fiorite che porta il suo nome. Una celebrazione "a senso unico" - con in testa la presidente del II Municipio Sara De Angelis e vari esponenti della destra romana e nazionale - fortemente voluta dal sindaco Gianni Alemanno, nonostante la richiesta proveniente da alcuni esponenti della società civile di "estendere" l'intitolazione a tutte le vittime della violenza politica, proprio perché le piazze sono di tutti e il processo di ricostruzione della memoria condivisa passa anche da questi gesti.

Invece l'inaugurazione della nuova sistemazione dell'area verde di piazza Vescovio con l'intitolazione a Cecchin è stata interpretata dai "cuori neri" romani come un atto di "riappropriazione degli spazi" e "marcamento del territorio": in via Montebuono - dove Cecchin perse la vita - fin dalle prime ore dell'alba decine di bandiere con croci celtiche sventolavano sotto gli occhi delle forze dell'ordine dislocate nella zona per sorvegliare la situazione. Nessuna contromanifestazione nel quartiere: per motivi di ordine pubblico le persone che contestavano l'unilateralità della decisione hanno accolto l'invito del prefetto rinunciando a scendere in piazza, non raccogliendo neanche l'invito a partecipare alla cerimonia "fatto in extremis e a mezzo stampa" - tengono a sottolineare i contrari - dal sindaco Alemanno: "L'iter dell'intitolazione del giardino - sostengono poi l'Anpi e il Pd di zona - non è stato trasparente e i cittadini sono stati messi di fronte al fatto compiuto". Così come l'idea di realizzare un monumento ad hoc da mettere al centro del giardino, progetto oggi momentaneamente accantonato.

Il sindaco Alemanno, parlando davanti a circa duecento persone, ha rivendicato la scelta dal centro della piazza: "Questa inaugurazione di oggi non viene dalle stelle, non è atto di arbitrio di nessuno: è stata votata da un atto del Consiglio comunale e, come tale, è quella di tutta la città. Questa non è una manifestazione di parte, ma un atto in cui una comunità trasforma la memoria in un dono. I luoghi hanno una loro storia e questa è la piazza che deve ricordare Francesco Cecchin, come altre piazze ricordano altri martiri di destra e di sinistra". Una posizione sostenuta anche dall'assessore capitolino alla Cultura Dino Gasperini: "La condivisione della memoria passa per il ricordo di ognuno di quei ragazzi e non attraverso un ricordo indistinto: per questo ricordiamo Francesco Cecchin in maniera diretta e non generica e continueremo a ricordare tutte le vittime della violenza politica nelle scuole. Questa targa dimostra che la memoria non è soltanto un monito, ma uno stimolo a crescere".

Presente anche il ministro della Gioventù Giorgia Meloni che è tornata sulle polemiche di questi giorni attaccando apertamente i firmatari della famosa "lettera al sindaco": "Il fatto che nel 2011 qualcuno si arrampichi sugli specchi per l'intitolazione di un'aiuola a Francesco Cecchin, con una lettera di due pagine in cui non si trova spazio per una parola di pietà per la storia di questo ragazzo e di condanna per i suoi assassini, mi ha dato l'idea che ci fosse fastidio. La conoscenza dei fatti è l'antidoto migliore che noi abbiamo perché quella stagione di violenza non abbia a ripetersi e perché la gente non debba più morire di politica", ha dett9o criticando quella che ha definito "l'intellighenzia" di sinistra. Al termine della cerimonia al sindaco Alemanno è stata anche consegnata una lettera con 150 firme di cittadini del quartiere che dovrebbe essere una risposta a quella degli intellettuali, per esprimere "gioia e immensa soddisfazione" per l'intitolazione. A dimostrazione che la memoria condivisa non abita qui.

repubblica.it
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00giovedì 16 giugno 2011 17:04
a proposito di piazza Vescovio, piu' persone mi parlano di un vero e proprio feudo nero..la squadra di calcio in Promozione, l'Atletico, ha avuto piu' volte problemi negli ultimi anni per intemperanze a sfondo politico da parte di sostenitori del quartiere e degli stessi calciatori.
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00venerdì 17 giugno 2011 16:40
Verbano, spunta una nuova pista- «Fu ucciso per una vendetta»

Il pm: un legame tra l'omicidio e una lite in un bar del quartiere
Il giovane di sinistra aveva raccolto dossier sui neofascisti


ROMA - Adesso sembra davvero a un passo la svolta decisiva nell’inchiesta sull’omicidio di Valerio Verbano, il giovane attivista di sinistra ucciso in casa sua nel quartiere Montesacro il 22 febbraio 1980. Perché ieri il pm Erminio Amelio, titolare del fascicolo, ha imboccato con decisione la pista della vendetta politica. Cioè dell’omicidio premeditato, studiato a tavolino. E portato a termine in quella logica del «colpo su colpo», che ha caratterizzato la contrapposizione politica giovanile degli anni di piombo.

In quest’ottica, ieri mattina, è stato interrogato per tre ore, Enzo Giudici, un militante della destra di allora, coinvolto in un altro tragico episodio, avvenuto davanti al Bar Urbano, nel quartiere Talenti, punto di ritrovo dei giovani neofascisti di quegli anni e poco distante da casa di Valerio.

Giudici, secondo le indiscrezioni trapelate dalla procura, avrebbe ripercorso le ore calde del pomeriggio del 30 marzo del 1975, quando fu aggredito da due militanti della sinistra extraparlamentare, Massimo Di Priamo e Carlo Cantinieri, davanti al bar Urbano. Nella rissa aveva riportato alcune ferite. Ma la tragedia sarebbe avvenuta qualche ora dopo. Perché Bruno Giudici, suo padre, che abitava proprio sopra al bar, era sceso nel locale mentre si consumava la rissa. Lavorava in banca, come cassiere, e spesso portava un po’ di soldi spicci ai gestori del bar. Ma Bruno soffriva di cuore e quello non era un pomeriggio qualunque: suo figlio era vittima di un pestaggio. L’uomo era intervenuto ed era riuscito a portare via, Enzo. Sembrava tutto finito. E invece, poche ore dopo, quando era tornato a casa, viene ucciso da un infarto. Il dramma della famiglia Giudici si era consumato proprio nell’appartamento di fronte a quello della famiglia di Stefano Cecchetti, un’altra vittima di quegli anni. Stefano sarebbe stato assassinato qualche anno dopo, il 10 gennaio del 1979, durante un agguato, proprio mentre era seduto a un tavolino del bar Urbano. Aveva 19 anni, stesso locale, alcuni colpi di pistola e un’altra vita spezzata.

Una spirale di violenza che in quegli anni di piombo aveva trasformato i quartieri di Talenti e Montesacro in un terreno di scontro tra rossi e neri, senza esclusione di colpi. E’ in questo contesto che affonda le radici la morte di Valerio Verbano. Secondo gli inquirenti, i dossier curato dal giovane attivista, che aveva schedato con cura tutti i principali esponenti della destra estrema, sarebbe stato solo un elemento, che si aggiungeva a un progetto più ampio. Quello dei neofascisti che volevano uccidere il ragazzo del Collettivo Autonomo. Perché bisognava vendicare i militanti ammazzati. Come Cecchetti e come Francesco Cecchin, un altro giovane di destra ferito da attivisti di estrema sinistra in una notte di maggio del ’79, nel quartiere Trieste, e morto dopo diciannove giorni di coma. Finora gli inquirenti hanno ascoltato trenta testimoni. Molti verbali sono stati secretati. E anche la mamma di Valerio è stata interpellata dal pm. E’ stata testimone dell’orrore. Così il 16 marzo scorso, Carla Verbano ha esaminato trenta foto segnaletiche dell’epoca. Tra queste anche quelle dei due uomini già indiziati: l’imprenditore, che ora vive in Brasile, e un professionista, che continua ad abitare in Italia. Entrambi, all’epoca attivisti dell’estrema destra. La mamma di Valerio, che il giorno dell’omicidio di suo figlio era stata sequestrata dagli assassini, ha notato in quelle immagini un uomo con la stessa capigliatura che aveva uno degli aggressori. Gli stessi ricci biondi di quel giovane che la sorvegliava in camera da letto.

La prima rivendicazione dell’agguato in casa Verbano, era stata quella dei Nar. Ma adesso, secondo gli inquirenti, quel messaggio sarebbe stato soltanto un tentativo di depistaggio. E così, dopo più di trent’anni, la pista sembra concreta e il cerchio intorno agli indiziati si stringe.

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00martedì 19 luglio 2011 14:12
Il mistero dei 400 missili spariti dalla Maddalena
Portati via dalla base con un intero arsenale.
SARDEGNA

TEMPIO PAUSANIA - Missili, razzi anticarro e katiuscia, kalashnikov e munizioni: ne erano piene le gallerie-bunker della Marina militare scavate nell'isola di Santo Stefano, arcipelago della Maddalena. Tanti da armare un esercito. Partite dall'ex Unione Sovietica, destinazione i Balcani in guerra, nel 1994 le armi furono intercettate su una nave nel Canale d'Otranto e sequestrate. Devono essere distrutte, aveva ordinato il tribunale di Torino. Invece due mesi fa missili, razzi e kalashnikov sono stati portati via dal bunker, consegnati dalla Marina all'Esercito, sbarcati nel Lazio, spariti nel nulla. E la magistratura di Tempio, che aveva cominciato a squarciare il mistero - finiti in Libia e in Afghanistan? - è da qualche giorno davanti al muro del segreto di Stato: la presidenza del Consiglio ha imposto l'alt a ogni accertamento sulla destinazione finale delle armi.


INTRIGO INTERNAZIONALE - Fin dall'inizio un intrigo internazionale: trame da 007 fra Ucraina e Croazia, «soffiate» ai servizi di sicurezza di Gran Bretagna e Italia, i fili del traffico manovrati da una rete di uomini d'affari dei Paesi dell'Est, in carcere anche uno degli oligarchi della nuova Russia, Alexander Borisovich Zhukov. Ora è «giallo»: 4 container, scortati da mezzi dell'Esercito, sono stati imbarcati su un traghetto della compagnia Saremar dalla Maddalena a Palau e da Olbia su una nave della Tirrenia (con 600 passeggeri a bordo) per Civitavecchia. Quante armi sono state portate via dal bunker? Era il primo viaggio o l'ultimo? Missili nelle navi con passeggeri, un rischio: perché?


OGIVE NUCLEARI - L'isola di Santo Stefano per 36 anni è stata base Usa di sommergibili nucleari, gli americani sono andati via nel 2008. Vicino all'ormeggio della nave-officina dei sottomarini si apre una galleria nella roccia, deposito (si diceva, mai però una conferma) anche di missili con ogive nucleari. Lì era custodito l'arsenale sequestrato nell'Adriatico: 400 missili Fagot con 50 postazioni di tiro, 30 mila mitragliatori AK-47, 5 mila razzi katiuscia, 11 mila razzi anticarro, 32 milioni di proiettili per i mitragliatori. Contenuti in casse, accatastate su più file, inventariate in un lungo elenco, l'originale al tribunale di Torino, le copie presso i comandi militari.


007 UCRAINI - La Jadran Express, bandiera maltese, portava le armi in Croazia, marzo 1994. Ai servizi di sicurezza britannici e italiani la «soffiata» giusta: Volodymir Kulish, capo degli 007 ucraini, aveva collocato a bordo un segnalatore satellitare; gli impulsi furono raccolti da una corvetta inglese e da un pattugliatore italiano, la Jadran costretta ad attraccare a Taranto. Alla trama internazionale si arrivò qualche anno dopo e per caso: in Piemonte la direzione antimafia aveva scoperto l'enorme giro d'affari di due società fantasma (attività di facciata, cartolibrerie) e ripercorso il filo dei collegamenti con il manager ucraino Dmitri Streslinky, amministratore di Sintez e Global Tecnology, holding di finanza e petrolio controllate da Alexander Zhukov. Zhukov, nipote del maresciallo Giorgij, capo dell'Armata rossa nella Seconda guerra mondiale, e padre di Dasha, compagna di un altro oligarca, Roman Abramovic, è stato il solo (9 ordini di carcerazione) a essere arrestato. Andarono a prenderlo a Porto Cervo, aprile 2001, nella villa che aveva da poco acquistato per 8 miliardi di lire dal costruttore romano Giulio De Angelis, padre di Elio, pilota di formula 1.Ma dichiarando in tribunale che non erano previsti scali in porti italiani, il comandante della Jadran ha smantellato le accuse: traffico d'armi estero su estero, difetto di giurisdizione, Zhukov e gli altri 8 assolti, ordinanza di distruzione delle armi.


INCHIESTA - L'inchiesta del sostituto procuratore di Tempio Riccardo Rossi è partita proprio da qui: perché non sono state distrutte e invece portate via? A chi sono finite? Nel bunker di Santo Stefano ne sono rimaste ancora? L'indagine era vicina a una svolta, con i primi echi in Parlamento (interrogazioni dei pd Gian Piero Scanu e Giulio Calvisi e dell'idv Elio Lanutti). Ora il segreto di Stato, un passo che il governo compie soltanto in casi eccezionali.
corriere.it
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00martedì 13 settembre 2011 17:35
I ministeri della Difesa e dei Trasporti condannati a risarcire 100 mln ai parenti delle vittime della strage di Ustica

A distanza di 31 anni dalla strage di Ustica, in cui morirono 81 passeggeri del volo Itavia 870 Bologna-Palermo, il tribunale civile del capoluogo siciliano ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti a un maxi-risarcimento di oltre 100 mln di euro per i parenti delle vittime.
I ministeri della Difesa e dei Trasporti sono stati condannati dal Tribunale civile di Palermo perché giudicati responsabili di non avere garantito la sicurezza del voto 'Itavia'.
Il giudice Paola Protopisani si è pronunciato accogliendo le domande avanzate dai parenti delle 81 vittime della strage. Il tribunale ha inoltre ritenuto i ministeri responsabili dell'occultamento della verità e li ha condannati ad un ulteriore risarcimento dei danni.
Secondo la Corte, le istituzioni condannate hanno provocato "danni morali e psichici notevolissimi ai familiari delle vittime". Il 30 maggio 2007, il Tribunale di Palermo aveva condannato i due ministeri a versare 980.000 euro a una quindicina di familiari. Poi, nel giugno 2010, la sentenza venne confermata portando il risarcimento a un milione e 390.000 euro. Infine oggi, la sentenza definitiva con il maxi-risarcimento. La sentenza è stata depositata dopo un'istruttoria durata 3 anni.



"La sentenza - dice il collegio legale costituito da Alfredo Galasso, Daniele Osnato, Massimiliano Pace, Giuseppe Incandela, Fabrizio e Vanessa Fallica, Gianfranco Paris - è il frutto di una lunga e articolata istruttoria, durata circa tre anni, nella quale il tribunale ha avuto modo di apprezzare e valutare tutte le emergenze probatorie già emerse nel procedimento penale". Secondo i legali, "il risultato della vicenda processuale rende giustizia per la ultratrentennale 'tortura della goccia' che i parenti delle vittime hanno dovuto subire ogni giorno della loro vita anche a causa dei numerosi e comprovati depistaggi di alcuni soggetti deviati dello Stato".
Per i legali "la sentenza apre un nuovo percorso per la ricerca della verità. Fu un missile ad abbattere il voto Itavia", come alcuni testimoni, tra cui l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, hanno affermato durante il processo. Gli avvocati auspicano che "chi di dovere avvii ogni opportuna azione nei confronti degli Usa e della Francia affinché sia ammessa finalmente la responsabilità per il grave attentato. Così si ridarebbe dignità e onore a tutto il Paese e alle vittime".



E la ricerca della verità potrebbe ripartire proprio da questa sentenza, "nella quale - spiega l'avvocato Osnato, che sposa la tesi del missile, probabilmente di nazionalità francese - si parla esplicitamente del famigerato 'Punto Condor', un tratto dell'aerovia militare usata dai francesi, la 'Delta Wisky' che incrocia proprio sopra il cielo di Ustica l'aerovia civile 'Ambra 13'. La pericolosità di quel punto - aggiunge - era stata più volte segnalata da piloti dei mezzi di linea".
Questa sentenza, aggiunge ancora l'avvocato, "contiene caratteri innovativi anche per quanto riguarda la quantificazione del danno. Il giudice ritiene che le prescrizioni sul piano penale per i circa 50 militari indagati non possono essere trasferite sul piano civile e la sentenza condanna i due ministeri secondo il principio della 'immedesimazione organica', e cioè la responsabilità civile dei militari ricade sugli organi dello Stato da cui dipendevano".
I legali auspicano inoltre che "in concomitanza della caduta del regime di Gheddafi, la nazione sia direttamente informata del contenuto degli archivi dei servizi segreti libici nei quali si ha ragione di ritenere che siano contenuti ulteriori documentazioni rilevanti sul fatto. E ciò consentendosi un accesso diretto da parte dell'Italia senza alcuna manomissione".



Intanto, per il sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Carlo Giovanardi, "la sentenza, per quello che sembrano essere le motivazioni, è in totale contrasto con quella della Cassazione, già passata in giudicato, e con le altre sentenze del Tribune civile di Roma. È ormai accertato, sulla base della documentazione ufficiale acquisita presso la Nato che nessun altro aereo era in volo in quella notte in prossimità del DC9 Itavia, mentre la Commissione dei periti internazionali guidata da Aurelio Misiti ha concluso all'unanimità, dopo il recupero del relitto, per l'esplosione di una bomba in una toilette di bordo. Sarà interessante conoscere sulla base di quali documenti, ignoti al Governo italiano e alla Cassazione, il Tribunale civile di Palermo ha tratto le sua conclusioni che dovranno naturalmente essere vagliate nei gradi successivi" conclude il sottosegretario.

In effetti la tesi della bomba esplosa in volo, sostenuta dalla perizia Misiti ha retto fino in Cassazione. Ma in quest'ultima sentenza viene smontata. Si ritorna, insomma, alla pista dello scontro aereo tra jet militari, di cui pagò le spese il Dc9. La stessa sostenuta in un primo momento dal giudice istruttore Rosario Priore: "Quella odierna è una sentenza importantissima, soprattutto perchè riconosce la validità della sentenza del giudice Priore e ribadisce con forza le responsabilità dei ministeri della Difesa e dei Trasporti che non hanno vigilato come avrebbero dovuto sulla sicurezza dei voli e non solo". Così la senatrice Daria Bonfietti (Pd), la presidente dell'Associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica. "La cosa importante non è tanto la cifra, che non è altissima - dice Bonfietti - quanto quello che questa sentenza riconosce". Ovvero il fatto che "sposa la sentenza-ordinanza del giudice Priore e quella di primo grado, poi messe in discussione negli altri gradi di giudizio, per cui la dinamica dei fatti era chiara. Oggi viene ribadito che l'aereo è stato abbattuto in un episodio di guerra aerea e vengono ribadite le responsabilità dei due ministeri anche in campo civile: non hanno vigilato sulla sicurezza dei voli civili e hanno nascosto la verità con i successivi depistaggi". "Siamo in una stranissima situazione - ha spiegato ancora la senatrice - la verità ha trovato una conferma da Cossiga, è stata ammessa da Formica come quella che tutti conoscevano, ma il nostro Governo non vuole accettarla, imprigionato dalle banalità di Giovanardi che, oltre ad imperversare a Bologna per gli anniversari, va all'ambasciata Usa a pietire il sostegno alle sue tesi. Il presidente della Repubblica - ha concluso - negli ultimi due anniversari ha parlato di 'intrecci eversivi e intrighi internazionalì e ha chiesto che 'ogni sforzo deve essere compiuto per arrivare alla verità'".



Quel volo maledetto - Il Dc9 I-Tigi Itavia, in volo da Bologna a Palermo con il nominativo radio IH870, scomparve dagli schermi del radar del centro di controllo aereo di Roma alle 20.59 e 45 secondi del 27 giugno 1980. L'aereo era precipitato nel mar Tirreno, in acque internazionali, tra le isole di Ponza e Ustica. All'alba del 28 giugno vennero trovati i primi corpi delle 81 vittime (77 passeggeri, tra cui 11 bambini, e quattro membri dell'equipaggio).
Il volo IH870 era partito dall'aeroporto "Guglielmo Marconi" di Borgo Panigale in ritardo, alle 20.08 anziché alle previste 18.30 di quel venerdì sera, ed era atteso allo scalo siciliano di Punta Raisi alle 21.13. Alle 20.56 il comandante Domenico Gatti aveva comunicato il suo prossimo arrivo parlando con "Roma Controllo". Il volo procedeva regolarmente a una quota di circa 7.500 metri senza irregolarità segnalate dal pilota. L'aereo, oltre che di Ciampino, era nel raggio d'azione di due radar della difesa aerea: Licola (vicino Napoli) e Marsala. Alle 21.21 il centro di Marsala avvertì del mancato arrivo a Palermo dell'aereo il centro operazioni della Difesa aerea di Martinafranca. Un minuto dopo il Rescue Coordination Centre di Martinafranca diede avvio alle operazioni di soccorso, allertando i vari centri dell'aeronautica, della marina militare e delle forze Usa. Alle 21.55 decollarono i primi elicotteri per le ricerche. Furono anche dirottati, nella probabile zona di caduta, navi passeggeri e pescherecci. Alle 7.05 del 28 giugno vennero avvistati i resti del Dc9. Le operazioni di ricerca proseguirono fino al 30 giugno, vennero recuperati i corpi di 39 degli 81 passeggeri, il cono di coda dell'aereo, vari relitti e alcuni bagagli delle vittime. Il volo era stato colpito da un missile, poi il "muro di gomma" di generali e ministeri durato trenta anni.

( guidasicilia.it )
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00martedì 13 settembre 2011 17:36
ed ecco come l'ha presa Giovanardi [SM=g27996]

Ustica, Giovanardi spara sui giudici
“Come aver condannato Tortora per droga”


Il sottosegretario alla presidenza del consiglio rilancia la sua ipotesi sulla bomba. E replica con parole durissime alla sentenza di condanna in sede civile dei ministeri di Difesa e Trasporti: "Il tribunale ha sbagliato tutto. E lo Stato farà ricorso"
Ieri è stato il giorno della sentenza pronunciata dalla terza sezione civile del tribunale di Palermo che riconosce ai parenti delle vittime della strage di Ustica un risarcimento record, 100 milioni di euro più interessi e oneri accessori per “omissioni, negligenze e depistaggi” a carico dei ministeri della difesa e dei trasporti. Oggi, invece, a prendere la parola è Carlo Giovanardi, sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri, che con il suo collega Aurelio Misiti (sottosegretario al ministero delle infrastrutture e dal 1990 al 1994 membro del discusso collegio che doveva stendere le perizie su Ustica), torna a ribadire: macché depistaggi, è stata una bomba.

E dice: “È come se oggi un giudice sostenesse che Enzo Tortora spacciasse droga”.

Scusi, onorevole, ma che c’entra Enzo Tortora?

C’entra. Tortora non era stato assolto? E allora sarebbe assurdo oggi sostenere il contrario. Le dirò di più: quando Edward Luttwak dileggia gli italiani per il loro atteggiamento su Ustica ha ragione e come cittadino italiano mi fa male.

Torniamo alla vicenda Ustica. Lei è sempre convinto che a causare la sciagura del 27 giugno 1980 sia stata una bomba?

Convintissimo e non lo dico io, ma lo dicono i documenti. Io ho acquisito tutta – e ripeto tutta – la documentazione Nato e posso affermare che in volo non c’era alcun aereo vicino al Dc9 dell’Itavia, quella sera.

Dunque esclude che esista altro materiale Nato che non è ancora stato reso pubblico e nemmeno consegnato alla magistratura?

Nel modo più assoluto. Il governo italiano lo ha chiesto all’Alleanza Atlantica e l’Alleanza Atlantica lo ha consegnato in toto.

Allora perché si continua a sostenere il contrario? Perché non c’è evidenza della bomba a bordo? Perché alcuni dei giornalisti che dal 1980 in avanti si sono occupati di Ustica hanno subito intimidazioni?

Perché succede come quando esce un film: c’è una trama suggestiva e tutti lo vanno a vedere. È accaduto così con il “Muro di gomma” e tutti a credere alla versione della guerra non dichiarata, sostenuta solo dal giudice Rosario Priore.

Dalle informazioni diffuse in questi giorni dalla stampa internazionale e da Human Rights Watch però la tua tesi, quella dell’esplosione interna a bordo, verrebbe smentita dagli archivi libici, in base ai quali si parlerebbe di aerei in volo.

La Libia c’entra. Eccome se c’entra. Basti ricordare la bomba di Lockerbie. Gheddafi non ha ammesso di essere stato lui a metterla?

Però Lockerbie avviene nel dicembre 1988, 8 anni e mezzo dopo Ustica, e per la strage dell’aereo Italia 870 a lungo si parlerà invece di cedimento strutturale, di un incidente. Altre ipotesi iniziano a farsi largo solo diverso tempo dopo.

È vero, ma le decine di persone che dovevano ricevere il messaggio lo hanno ricevuto subito.

Dunque, secondo lei, la sentenza civile di Palermo è sbagliata?



Certo e annuncio che lo Stato ricorrerà contro di essa. A Palermo non è stata fatta nessuna ulteriore perizia e si basa su documenti “fantasiosi” che parlano di un’azione di guerra in corso. L’unica perizia affidabile ce l’abbiamo noi e l’ingegnere Augusto Misiti ne sta parlando da tempo: è una perizia composta da un team di 11 periti internazionali. Dunque non parliamo a vanvera.

Quando però si pone la domanda sugli “inquinamenti peritali” (citazione derivante dall’ordinanza-sentenza del giudice Rosario Priore), il sottosegretario risponde con un distinguo tra i giudici: quelli “buoni” che hanno creduto a una deflagrazione interna (deflagrazione che tuttavia ha lasciato intatti arredi al bagno dell’aereo, dove sarebbe stata collocata), e quelli “meno buoni”, come il giudice istruttore che sostenne l’azione di guerra in cui venne coinvolto il volo partito da Bologna il 27 giugno 1980 e caduto prima di atterrare a Punta Raisi portando con sé 81 persone. Ora, però, anche la sentenza civile di Palermo torna a parlare di chi documenti alterati, prove sottratte, omissioni e informazioni scorrette che i ministeri fornirono su quella notte. Detto con una sola parola, depistaggi.

ilfattoquotidiano.it

Senza parole
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00giovedì 20 ottobre 2011 10:38
Walter Rossi, riaperte le indagini
su tre omicidi degli anni di piombo


Nuova pista dalle testimonianze sulla morte di Valerio Verbano: caccia ai legami con i delitti Cecchetti e Mancia



di Valentina Errante
ROMA - Avanti e indietro in quegli anni bui, quando i ragazzini sparavano per strada per inseguire una follia ideologica. Andando a ritroso, fino all’omicidio di Walter Rossi, freddato da un colpo alla nuca a poche centinaia di metri dalla sezione del Msi Balduina, il 30 settembre ’77. E’ lì che vuole arrivare la procura di Roma, che nei giorni scorsi ha rimesso mano al fascicolo sul delitto irrisolto del giovane militante di Lotta Continua. Per farlo, il pm Erminio Amelio ha chiesto ai carabinieri del Ros un salto nel passato, riannodando un filo rosso che parte dalla morte di Walter Rossi e tiene uniti altri delitti misteriosi: quello di Stefano Cecchetti, 10 gennaio ’79, ucciso davanti a un bar del quartiere Talenti; quello di Valerio Verbano, 22 febbraio dell’80, quando tre neofascisti dopo avere aspettato nell’appartamento dei genitori che tornasse da scuola lo uccisero. Fino all’esecuzione del militante di estrema destra Angelo Mancia, freddato la mattina del 12 marzo ’80 davanti al portone di casa, in via Federico Tozzi.

L’obbiettivo di Amelio è chiaro. Fare luce una volta per tutte su quanto accadde in via delle Medaglie d’Oro, davanti alla sezione del Msi più calda di quegli anni. Walter Rossi, 19 anni, viene colpito alla nuca mentre distribuisce volantini nella roccaforte dell’estrema destra romana. Quel pomeriggio Walter stava sfidando i «fascisti» per i fatti del giorno precedente: Elena Pacinelli, sua coetanea, era stata colpita da tre proiettili in piazza Igea, era con altri ragazzi del movimento che avevano partecipato all’occupazione di una casa disabitata.

Così il 30 settembre era stato organizzato un piccolo presidio. Una provocazione in una zona frequentata dall’alta borghesia, davanti alla sezione del Msi. Il killer di Walter, insieme ad altri attivisti neri, esce per strada, cammina in discesa per alcuni metri sul marciapiede coperto da un blindato della polizia, che è in mezzo alla strada. Sparano in due, racconteranno i testimoni, per tre o quattro volte, nel mucchio, senza un obiettivo preciso. Solo verso i «nemici». Un proiettile raggiunge Walter. Il ragazzo viene caricato su un furgone di passaggio. Muore prima di arrivare all’ospedale.

Adesso che è arrivato a un passo dalla soluzione dell’omicidio Verbano, con i nomi e le posizioni di due sospettati, il pm Amelio ha trovato un filo rosso che unisce quei fatti. Tanto da riaprire gli accertamenti sull’omicidio di Walter Rossi. Ma anche sulla morte di Cecchetti e Mancia. Tutti finiti in archivio senza un responsabile. Nei prossimi giorni il Ros ha annunciato la consegna dell’informativa che ricostruisce e collega i quattro delitti. Poi Amelio riaprirà il fascicolo. A indicare la via sono state le testimonianze rese negli ultimi mesi in procura nell’ambito dell’inchiesta Verbano. Rossi e neri, a decine. Da Francesca Mambro e Valerio Fioravanti agli amici di Verbano. E adesso il quadro è chiaro.

I tre omicidi, Cecchetti, Verbano e Mancia sono legati. La pista è quella della vendetta e della ritorsione, delle rappresaglie che in quegli anni non sembravano avere fine. E anche della lotta tra attivisti di schieramenti opposti che si dividevano i quartieri Trieste e Talenti. L’omicidio di Walter Rossi è avvenuto tre anni prima in un’altra zona della città; ma c’è una sigla a unire quei fatti, quella dei Nar. I Nuclei armati rivoluzionari che nel primo volantino di rivendicazione dell’omicidio accusano Verbano di essere stato il responsabile per la morte di Cecchetti. In una telefonata successiva invece fanno riferimento al calibro 38 della pistola, una circostanza confermata soltanto dopo dall’autopsia. A uccidere Walter, invece, è Alessandro Alibrandi, colonna dei neonati Nar. Un processo però non c’è mai stato. L’imputato è morto in una sparatoria con la polizia nell’81. Ma la sera in cui Walter Rossi fu ucciso, Alibrandi non era da solo.
( ilmessaggero.it )

faberhood
00lunedì 7 novembre 2011 15:16
Delitto Pasolini, nuove indagini dei Ris: trovato il dna di un terzo uomo

di Claudio Marincola
ROMA - La notte di quel primo novembre di 36 anni fa all’Idroscalo di Ostia Pier Paolo Pasolini e Pino Pelosi non erano soli. A dirlo non è un pentito o un testimone sbucato dal nulla. È la prova scientifica. Dalle indagini condotte sui reperti conservati per anni al Museo di criminologia di via Giulia sono emerse tracce ematiche che non appartengono a nessuno dei due. Il dna estratto dalle tavolette trovate sul posto, utilizzate per colpire lo scrittore e dagli indumenti, appartiene a un soggetto terzo.

È una verità affiorata più volte, sostenuta per anni dai difensori, ipotizzata anche nella sentenza di I grado. Ora viene chimicamente consegnata alla cronaca ma soprattutto alla storia di quegli anni. Potrebbe confermare che si trattò di un agguato, e che uno dei delitti più oscuri del nostro Paese è da riscrivere. Che la sentenza pronunciata dal Tribunale dei minori e dal presidente Alfredo Moro, che condannò Pino «la rana» per omicidio «in concorso con ignoti», fu accolta male perché era scomoda, troppo vicina alla verità.

I Ris, il Reparto carabinieri investigazioni scientifiche ha ultimato gli accertamenti condotti nella caserma di Tor di Quinto. Resta da scrivere solo la relazione finale. Il pm Francesco Minnisci, che ha disposto il riesame dei reperti e secretato i risultati, è pronto a sentire nuovi testimoni. Le indagini sono andate avanti nel segreto più assoluto. Lo stesso generale Luciano Garofalo, l’ex comandante dei Ris che ha seguito gli esami in qualità di perito, è stato tenuto all’oscuro dell’esito finale proprio per evitare fughe di notizie. Ma i segreti non possono durare in eterno.
Le informazioni tecnicamente più rilevanti riguarderebbero appunto il sangue trovato sulle due tavolette. Ma anche delle impronte digitali lasciate da chi le impugnò come arma quella notte. Va da sé che il tempo trascorso e il rischio di inquinamento dei reperti sono stati finora l’ostacolo maggiore.

La riapertura del delitto dell’Olgiata e di quello di Via Poma insegnano che grazie all’applicazione delle nuove tecniche oggi è possibile quello che fino a ieri era impensabile. I reperti esaminati dai Ris hanno fatto emergere «notizie utili al fine della prosecuzione delle indagini». Erano stati custoditi per anni in uno scatolone al Museo criminologico di via Giulia. Gli indumenti e gli oggetti personali, la camicia modello Missoni, gli stivaletti alla moda, il maglione verde che i parenti dello scrittore esclusero fosse di Pasolini, i jeans, gli occhiali scuri, il tesserino dell’Ordine dei giornalisti, il plantare e il famoso anello trovato nel fango dell’Idroscalo. Tutto è stato micro-analizzato.
Il pm Minnisci è intenzionato ad andare avanti. Le indagini hanno stabilito che Pasolini morì per schiacciamento del torace; la foto con le tracce di pneumatico sulla sua canottiera vengono ancora oggi mostrate dai periti dell’epoca che oggi sono docenti universitari. Definito il «come, restava da stabilire «chi» lo uccise. La P2? Le trame nere? Lo sapremo mai?

Farsi illusioni puntando tutto sulle analisi biologiche è sconsigliato. Le informazioni scientifiche raccolte andranno perciò confrontate e intrecciate, serviranno nuove testimonianze. Prima fra tutti quella di Johnny lo Zingaro, al secolo Giuseppe Mastini, che secondo molti era presente quella sera. Non più tardi di due anni fa, Pino Pelosi rivelò al Messaggero che si trattò di un’aggressione alla quale avrebbero partecipato i due fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, entrambi minorenni e scomparsi negli anni ’90. Non fece altri nomi. Smentì i giudici, ma soprattutto se stesso.

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00martedì 3 gennaio 2012 11:15
Tangenti, truffe, abusi edilizi: l’incredibile storia del prete-manager Luigi Verzé


Era il 1978 quando Emma Bonino e Marco Pannella denunciavano in Parlamento la "gestione mafiosa del San Raffaele" e puntavano il dito contro il sacerdote "sospeso a divinis". La carriera del fondatore dell'ospedale lombardo, deceduto il 31 dicembre, è costellata di condanne e oscuri rapporti. Fino all'epilogo del crac e dell'inchiesta sui fondi neri. I legami con Berlusconi e con il Sismi di Pollari
Don Luigi Verzè, fondatore del San Raffaele
Il denaro pubblico dato all’ospedale San Raffaele finisce “nelle mani di loschi gruppi di potere clericali che lo utilizzano per attività speculative e clientelari, sulla pelle degli ammalati”. Una denuncia durissima contro la “gestione mafiosa” dell’istituto, ma non è di oggi. Trentaquattro anni prima che l’ospedale milanese finisse travolto da un crac miliardario e dallo scandalo dei fondi neri messi da parte per beneficiari ancora da individuare, una pattuglia di deputati radicali metteva nero su bianco nei documenti della Camera un severo atto d’accusa contro l’allora poco conosciuto don Luigi Verzé e la sua impresa.

“Il Presidente del consiglio di amministrazione dell’ospedale San Raffaele, ‘don’ Luigi Maria Verzé è stato sospeso a divinis dalla Curia milanese nel 1973”, si legge nell’interrogazione presentata tra gli altri da Emma Bonino e Marco Pannella il 4 aprile 1978. Don Verzé “è stato condannato dal tribunale di Milano a un anno e quattro mesi di reclusione per tentata corruzione in relazione alla convenzione con la facoltà di medicina dell’università Statale e la concessione di un contributo di due miliardi da parte della Regione. E’ stato incriminato di truffa aggravata nei confronti della signora Anna Bottero alla quale ha sottratto un appartamento del valore di 30 milioni”.

L’eccellenza in campo scientifico e sanitario che il San Raffaele ha conquistato nei decenni successivi è universalmente riconosciuta. Ma, al tempo stesso, la sua è una tipica storia italiana di scandali avvenuti sotto gli occhi di tutti, e che tutti (o quasi) hanno fatto finta di non vedere. Fino all’epilogo: il buco di bilancio da un miliardo e mezzo di euro, il concordato preventivo, l’inchiesta penale aperta dalla Procura di Milano che ha già accertato un giro milionario di denaro in nero tra i fornitori e i vertici dell’istituto, il tragico suicidio del direttore finanziario Mario Cal quando tutto questo cominciava a disvelarsi, la morte per infarto (al quale non tutti credono) del novantunenne fondatore don Verzé nell’ultimo giorno del 2011.

“L’ospedale San Raffaele ha iniziato la sua attività nel settembre del 1971, nonostante l’ufficiale sanitario ne abbia negato l’agibilità”, denunciavano i deputati radicali, e il riconoscimento ministeriale è arrivato nel 1972 “nonostante la ferma opposizione della Regione Lombardia”, il cui assessore alla Sanità aveva parlato di un “atto di pirateria politica”. Un riconoscimento arrivato nonostante una sfilza di irregolarità, secondo Bonino e Pannella, in merito alle attrezzature mediche alla gestione del personale. Fatti che inducevano i radicali a chiedere ai ministri competenti di “ricercare le connivenze e le responsabilità eventuali dell’amministrazione dello Stato che hanno determinato questa scandalosa situazione”.

Una carriera spregiudicata quella di don Luigi Verzé, il “prete manager” che preferiva il doppiopetto alla tonaca e il business alla liturgia. Un’indole che gli è costata la proibizione “di esercitare il sacro mistero”, decisa dalla Curia di Milano il 26 agosto 1964, e una sospensione a divinis del 1973. Dagli esordi a oggi, la parabola di don Verzé si intreccia con quella di Silvio Berlusconi. E’ la Edilnord di Berlusconi, a partire dal 1969, che sovraintende alla costruzione dell’ospedale San Raffaele, su un terreno di Segrate, poco distante dalla nascente Milano 2, acquistato dal Centro di assistenza ospedaliera Monte Tabor con 600 milioni di lire di fondi statali ottenuti grazie ai buoni uffici della Democrazia cristiana.

Tutta la vicenda urbanistica è segnata da accuse di abusi edilizi e tentativi di corruzione di politici locali, come racconta Giovanni Ruggeri in “Berlusconi. Gli affari del presidente” (Kaos edizioni 1994). Abusi che ricorrerrano nella folgorante espansione dell’ospedale. Nel 1998 don Verzè sarà condannato due volte dal Tribunale di Milano: a un mese di reclusione per aver fatto tirar su senza licenza una palazzina di tre piani per la nuova accettazione dell’ospedale, e a dieci giorni per aver proseguito i lavori nonostante la prima sentenza di colpevolezza. Il sacerdote evita il carcere grazie alla sospensione condizionale della pena.

Il duo Berlusconi-Verzé agisce all’unisono nel 1971, quando interviene presso il ministero dei trasporti perché il frastuono del traffico aereo del vicino aeroporto di Linate disturba la quiete dei degenti del San Raffaele e degli inquilini di Milano 2, che all’epoca sono appena 200. Con grande tempestività, Civiliavia impone lo spostamento del corridoio di uscita dei jet dallo scalo milanese. L’inquinamento acustico è così dirottato su un pugno di comuni dell’hinterland densamente popolati. Seguono proteste e petizioni, e la vicenda porterà alla condanna del direttore generale dell’Aviazione civile.

Il rapporto tra il prete-manager e l’imprenditore-politico resterà saldo nei decenni a venire. Per don Verzé, Berlusconi è “l’uomo mandato dalla Divina provvidenza”. Per Berlusconi, don Verzé è “un uomo raro, un grande imprenditore”. E’ al San Raffaele che l’allora presidente del consiglio viene ricoverato dopo essere stato ferito in faccia da una statuina del Duomo di Milano, il 13 dicembre 2009. E al San Raffaele lavora come igienista dentale Nicole Minetti, gran sacerdotessa delle “cene eleganti” di Arcore, arrivata in consiglio regionale lombardo dopo essere stata piazzate nel listino bloccato del governatore lombardo Roberto Formigoni.

Il 3 marzo 1977 il Tribunale di Milano condanna don Verzé per istigazione alla corruzione, per aver cercato di “comprare” l’assessore alla Sanità della Regione Lombardia, Vittorio Rivolta, per ottenere un contributo regionale di due miliardi di lire. Nelle motivazioni della sentenza, il prete manager è definito “un imprenditore abile e spregiudicato, inserito in ambienti finanziari e politici privi di scrupoli sul piano etico e giuridico-penale”. La condanna sarà cancellata dalla prescrizione del reato.

Una divina provvidenza che salverà don Verzé da altre due condanne: per truffa – il caso Bottero citato da Bonino e Pannella nell’interrogazione del 1978 – e per concorso in ricettazione. Quest’ultima vicenda si riferisce a un quadro, una Madonna piangente davanti a Cristo, rubato da una chiesa napoletana e riapparso a Segrate in una cascina annessa al San Raffaele. Nel 2005 don Luigi Verzè è stato condannato a un anno e quattro mesi. L’11 gennaio 2011 la Cassazione ha sancito la prescrizione, senza però assolvere nel merito il fondatore dell’istitituto ospedaliero, come richiesto dai suoi legali. Perché, si legge nelle motivazioni, “il giudice del rinvio ha correttamente fornito un’ampia e consistente giustificazione, spiegando in modo ragionevole che don Verzè era al corrente della provenienza illecita dei quadri”.

Nei suoi 91 anni di vita, il fondatore del San Raffaele ha saldato legami di ferro con i vertici del potere lombardi e non solo. Un’inchiesta della Procura di Milano su una vicenda esterna al San Raffaele ha documentato un rapporto confidenziale con il generale Niccolò Pollari, allora direttore del Sismi, con il quale tra l’altro don Verzé discute su come intimidire i titolari di un impianto sportivo confinante con l’ospedale, che non vogliono rassegnarsi a sloggiare per far spazio a un’ulteriore espansione dell’istituto. Mentre – proprio in una lettera a Berlusconi – si professa “uomo fedele e leale di don Verzé” Pio Pompa, ex collaboratore del San Raffaele passato al servizio segreto militare, finito al centro dello scandalo su dossieraggi e depistaggi ai danni di magistrati e giornalisti. Tra il Sismi e il San Raffaele intercorrono controversi affari immobiliari.

La fine della storia sta cercando di scriverla la Procura di Milano, nell’inchiesta scaturita dal crac finanziario emerso l’estate scorsa, che vedeva tra gli indagati lo stesso don Verzé. Le testimonianze di manager e fornitori del San Raffaele hanno fatto emergere un sistema di sovrafatturazioni sugli acquisti di beni e servizi, in vigore durante la gestione del prete manager, studiato per creare riserve di fondi neri che tornavano nelle casse dell’istituto. I magistrati stanno cercando di capire chi fossero i destinatari di questo fiume sotterraneo di denaro. In carcere è finito tra gli altri Pierangelo Daccò, intermediario d’affari ritenuto uomo di collegamento con le istituzioni.

Nel lontano 1978, i guastafeste radicali avevano visto lungo. Poi, per più di trent’anni, molti hanno chiuso gli occhi.

( ilfattoquotidiano )
Sound72
00giovedì 22 marzo 2012 11:14
Piazza Fontana, il film che racconta
quarant'anni di misteri italiani


Esce la settimana prossima la pellicola di Giordana sull'attentato del 1969. Destra estrema, sinistra estrema, Stato deviato hanno "impestato" il Paese impedendo alla democrazia di crescere. Ed ora l'opera cinematografica riapre il caso


di EUGENIO SCALFARI

ROMANZO di una strage è un film e non è un film. I personaggi sono veri ma ovviamente rappresentati da (bravissimi) attori. I fatti sono realmente accaduti e fanno parte della galleria storica del nostro Paese, ma alcuni sono frutto di induzioni e libere interpretazioni degli sceneggiatori e del regista Marco Tullio Giordana. Gli eventi narrati sono costellati di morti, violenze, congiure, complotti. Le donne sono poche ma emergono, amorevoli, devote ai loro uomini, fiere nel loro coraggio e nella loro dignità. A descriverlo così sembrerebbe una storia triste, anzi disperata, fortemente ansiogena, dove l'invenzione rende ancora più cupa la realtà. Ma tuttavia è affascinante.

Comincia con la strage di piazza Fontana a Milano, nella Banca Nazionale dell'Agricoltura, 1969, e si conclude con l'uccisione del commissario di polizia Luigi Calabresi, finito a colpi di pistola a pochi passi da casa sua. Al centro della storia la morte di Giuseppe Pinelli, anarchico ma non violento, caduto (o gettato) da una finestra della Questura milanese in via Fatebenefratelli qualche giorno dopo la bomba (o le bombe) di piazza Fontana.

Quella scena ti fa stare col cuore in gola per dieci minuti nei quali la macchina da presa è centrata sul volto di Pinelli e poi si allarga in campo lungo sul gruppetto di poliziotti che lo interrogano, sempre più accesi d'ira verso quell'anarchico strano che sembra un pastore protestante che predica il socialismo del Vangelo più che un bombarolo di professione.

Pinelli è digiuno da trenta ore, non gli danno nemmeno l'acqua da bere, il volto è stravolto dalla stanchezza, gli occhi di tanto in tanto si chiudono e i poliziotti lo risvegliano a suon di ceffoni. Solo il commissario Calabresi che partecipa all'interrogatorio cerca di riportare i suoi uomini alla calma e ad un minimo di equità ma non sempre ci riesce, loro sono furibondi perché le trenta ore d'interrogatorio pesano anche sui loro volti e sulle loro gambe. A un certo punto Calabresi è chiamato dal Questore e lascia la stanza. Allora i poliziotti si scatenano, spintonano Pinelli, lo trascinano verso la finestra. La macchina da presa si sposta su Calabresi che sta discutendo col Questore e sente all'improvviso un tonfo proveniente dal cortile. Come presago si slancia verso la stanza dell'interrogatorio e vede i suoi uomini alla ringhiera della finestra e il corpo di Pinelli sfracellato sui ciottoli del cortile.

Ho detto che è un film affascinante. Merito del regista, degli attori, del produttore Riccardo Tozzi che ha affrontato il rischio dell'impresa garantendo a Giordana piena libertà d'espressione senza la quale sarebbe stato impossibile girare quelle scene realizzando una testimonianza così incisiva e terribile. Anzi tremenda. Il terribile sgomenta, il tremendo è invece qualche cosa che ti fa consapevole e ti aiuta a crescere. Per questo affascina: esci da quell'ora e mezza di spettacolo sapendone di più sull'Italia, sullo Stato in cui vivi, sulla gente con la quale condividi le tue sorti nel bene e nel male, sui veleni che inquinano la società e sul doppio o addirittura triplo livello sui cui piani si è svolta la storia dell'Italia del Novecento, la nostra storia.

Alcuni storici illustri hanno definito il Novecento come "il secolo breve" perché sarebbe cominciato nel 1914 (la "Belle Époque" non sarebbe altro che la continuazione del secolo precedente) e sarebbe finito con la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Settantacinque anni invece dei cento canonici. Ma non è vero, fu invece un secolo lungo. Cominciò con le cannonate di Bava Beccaris contro i socialisti e gli anarchici milanesi (1898) e poco dopo con l'uccisione di Umberto I e a dire il vero non è ancora finito sicché il doppio o triplo livello sul quale scorre il flusso dei fatti non è ancora stato smantellato, la verità non è ancora stata compiutamente svelata e le cricche, le lobby, le clientele, le mafie, non sono ancora state debellate.

Forse l'Europa, forse l'esperimento del governo Monti, forse Giorgio Napolitano, riusciranno a purificare l'aria ammorbata che ancora ci opprime. Forse il nocciolo duro delle complicità sarà portato alla luce. Forse la P2 che continua a riprodursi sotto forme diverse ma con identica sostanza sarà infine sterilizzata. Forse la democrazia conquisterà il capitalismo invece di esserne conquistata e confiscata. Forse. Ma non è ancora avvenuto e il film di Marco Tullio Giordana testimonia proprio questo: i veleni del Novecento durano ancora. Le ideologie sono spente ma il pragmatismo che le ha sostituite non ha attenuato il disagio e lo sconquasso morale.

***
Spetterà ai recensori mettere in luce i pregi e i difetti di quest'opera, la qualità della sceneggiatura, degli attori, della regia, delle riprese e del loro montaggio. Quanto a me, intervengo perché io c'ero. Ho assistito direttamente a gran parte di quei fatti come cittadino, come giornalista e come deputato al Parlamento (lo fui dal 1968 al 1972 nel Partito socialista). Ero a Milano in via Larga in compagnia di Umberto Eco quando fu ucciso il poliziotto Annarumma. La sera di quel giorno ero nell'aula magna dell'Università Statale dove si svolse una gremita e appassionata assemblea del movimento studentesco. Capanna e Cafiero che lo guidavano resero onore al poliziotto caduto e tutti si alzarono in piedi e stettero silenziosi e piangenti per molti minuti. Ed ero con altri deputati di sinistra in piazza Santo Stefano dove si formavano i grandi cortei del movimento, per cercare di evitare gli scontri tra le decine di migliaia di studenti che protestavano contro la repressione e la polizia in tenuta antisommossa guidati dal vicequestore Allegra.

E c'ero anche nel corteo che sfilò da via Larga al Palazzo di Giustizia per la morte di Giangiacomo Feltrinelli. Ero direttore dell'Espresso quando rivelammo il Piano Solo, progettato dal Comando generale dei carabinieri con l'accordo del Presidente della Repubblica Antonio Segni. Ed ero direttore di Repubblica quando Aldo Moro fu rapito e poi ucciso, quando le Br fulminarono a colpi di pistola sulla porta di casa il generale Galvaligi e quando rapirono il giudice D'Urso e tentarono di imporci la pubblicazione di un loro lunghissimo documento minacciando che se i loro ordini non fossero stati eseguiti il prigioniero sarebbe stato ucciso. Rifiutammo e la notte di quel terribile giorno il prigioniero fu liberato da un blitz della polizia.

Insomma ho vissuto da vicino il lungo periodo della strategia della tensione che ha profondamente inquinato la vita pubblica italiana e ne ha rappresentato per molti anni l'aspetto più rilevante e ho partecipato a quel "partito della fermezza" che schierò insieme forze politiche che fino ad allora si erano aspramente contrapposte ma si unirono per fronteggiare il pericolo mortale del terrorismo dello stragismo. Romanzo di una strage ritrae una parte di quel periodo e ne rende artistica testimonianza. La mia è dunque una testimonianza diretta sulla validità della testimonianza filmica. Può avere da questo punto di vista un qualche valore.

***
La strategia della tensione è stata purtroppo una presenza dominante nella seconda metà del secolo scorso. La si può descrivere con una figura geometrica, un triangolo retto, due cateti e un'ipotenusa che li unisce. E se vogliamo animare la geometria con la carne e il sangue delle persone, ci furono un'estrema destra e un'estrema sinistra che si contrapponevano usando i mezzi illegali della violenza, delle armi, delle bombe, dei complotti e delle stragi; e c'è un'altra forza che aizza la destra e la sinistra affinché la violenza esploda, organizza misteriosi provocatori, finanzia operazioni clandestine, corrompe e usa le istituzioni dello Stato per alimentare il disordine anziché controllarlo e spegnerlo. In questa arena si è cimentato anche un certo tipo di stampa e soprattutto si cimentano i servizi segreti, le agenzie di "intelligence" di Stati stranieri, le logge segrete para-massoniche e la criminalità organizzata.

L'Italia fu il terreno privilegiato di questa strategia (ma non il solo) dove si confrontarono anche il Kgb sovietico, la Cia americana, il Mossad di Israele e i servizi di sicurezza inglesi e francesi. Gladio fu una delle centrali di pilotaggio della tensione e altrettanto lo fu il servizio di spionaggio del ministero dell'Interno creato da Tambroni e guidato per molti anni dal prefetto Federico D'Amato. La P2 fu un punto di raccordo clandestino ed essenziale di queste varie forze. La mafia e la camorra fornirono, quando fu richiesto, la loro manovalanza contrattando benefici e spazio per le loro iniziative delinquenziali.

La destra estrema, la sinistra estrema, lo Stato deviato: questi sono stati i punti essenziali di quel triangolo che ha impestato il Paese per mezzo secolo, impedendo alla democrazia italiana di crescere e di metter salde radici e condannandola a una perenne fragilità. Le forze politiche ed anche la business community sono state il terreno sul quale si è svolta questa partita perversa ed è questa una delle cause che hanno rattrappito sia i partiti sia il capitalismo italiano. Le democrazie si sviluppano in un quadro di legalità, di autorevolezza delle istituzioni, di regole certe e di comportamenti esemplari che la classe dirigente ha il compito di indicare ai cittadini come punti di riferimento. Tutti i paesi hanno difetti e debolezze ma hanno anche sistemi immunitari che producono anticorpi con l'incarico di neutralizzare i virus che attaccano quotidianamente gli organismi.

Da noi il sistema immunitario è stato il vero obiettivo della strategia della tensione e di chi ne ha alimentato e rafforzato l'esistenza. Questa è stata l'endemica malattia che ha afflitto l'Italia e che ancora non è stata guarita. Romanzo di una strage ne è la drammatica rappresentazione.
Sound72
00mercoledì 13 giugno 2012 17:32
Vantaggiato preparò sei bombole
per la strage davanti alla scuola

E' quanto rivela l'avvocato del killer di Brindisi, che utilizzò solo tre ordigni perché era impossibile inserirne altri nel cassonetto. La potenza dell'esplosione, nei suoi piani, doveva essere doppia


Giovanni Vantaggiato, l'imprenditore reo confesso dell'attentato di Brindisi del 19 maggio scorso, avrebbe preparato sei bombole per l'esplosione, ma ne avrebbe utilizzato la metà perché nel bidone per rifiuti ne entravano solo tre. E' quanto ha riferito Vantaggiato al suo difensore, l'avvocato Franco Orlando, durante un colloquio di due ore che il legale ha avuto oggi in carcere con il suo assistito. Il legale ha anche comunicato che entro la fine della settimana depositerà il ricorso al Tribunale del Riesame contro l'aggravante della finalità di terrorismo per la strage contestata a Vantaggiato, in concorso con altre persone.

Ieri, in un uliveto che Vantaggiato aveva ereditato dal padre in contrada Conigli, in un agro di Nardò, nel Leccese, gli investigatori avevano trovato tre bombole per gpl con innesco pronte per l'uso. "Non volevo fare nessun altro attentato" ha ribadito l'imprenditore al suo avvocato, confermando che il suo voleva essere solo un gesto dimostrativo. Vantaggiato ha anche escluso l'esistenza di bambole di pezza da usare come manichini per le prove di esplosione, sostenendo invece che si trattava solo di stracci. Al suo legale l'arrestato ha inoltre riferito che le bombole trovate nell'uliveto conterrebbero lo stesso tipo di polvere pirica usata per l'attentato e preparata artigianalmente prendendo istruzioni da un manuale.

Gli ordigni artigianali sono stati ritrovati dagli investigatori in un cespuglio di rovi: tre bombole, due di gas propano liquido dello stesso tipo già adoperato contro la scuola Morvillo, della capacità di 20 chili ciascuna (quelle esplose il 19 maggio pesavano 15 chilogrammi). La terza bombola era del tipo usato dai sub per le immersioni, anche questa accuratamente nascosta in un terreno adiacente, forse all’insaputa del proprietario. Ciascuna bombola era allacciata a dei fili elettrici, all’estremità dei quali era stata collegata una lampadina che scaldandosi avrebbe bruciato le polveri e innescato la bomba, il tutto sarebbe stato azionato da un telecomando che però non è stato ritrovato. Gli artificieri sono riusciti a svuotare due bombole, la terza è stata fatta brillare alle 17.25 in punto, dopo essere stata sotterrata in una buca di diversi metri.

Nascosti in altri cespugli sono stati trovati anche sei bidoni di polvere nera, esplosivo conferma oggi l'avvocato di Vantaggiato, dello stesso tipo di quello utilizzato per l'attentato. Le analisi sono state comunque affidate ai Ris di Roma. Fra i vari recipienti, ce n'era anche uno con molto cotone idrofilo imbevuto di acido nitrico. Per gli investigatori il mix cotone-acido nitrico può essere utilizzato per preparare le micce. Non è ancora possibile dire se per confezionare l’imponente arsenale Vantaggiato si sia avvalso della collaborazione di un complice, o se almeno qualcuno sapesse. È l’incognita da sciogliere, sebbene gli inquirenti siano persuasi che il piano criminale avesse una mente sola, quella dell’imprenditore in guerra contro il mondo dopo essere stato truffato due volte.
repubblica.it

........

ma il movente x ragionare e realizzare una cosa del genere??
poi sto tizio col sangue in testa perchè è stato truffato vince la causa e il giorno dopo fa il bombarolo, compra il telecomando per la bomba sulle pagine gialle, da solo crea tutti sti ordigni, li smista e li piazza indisturbato, pure noncurante delle videocamere e il giorno dopo ancora se ne torna sullo yacht da 700 mila e passa euro??Ma uno da solo a 68 anni impazzisce così??
Sound72
00venerdì 28 settembre 2012 17:14
Morto Pier Luigi Vigna, ex procuratore nazionale antimafia


L’ex procuratore nazionale Antimafia Pier Luigi Vigna è morto oggi a Firenze. Vigna, 79 anni, è stato a lungo procuratore della Repubblica nel capoluogo toscano. Era ricoverato al Centro Oncologico Fiorentino Villa Ragionieri, la struttura della quale era presidente. Nato il primo agosto 1933 in provincia di Firenze, entra in magistratura nel 1959. Inizia la sua carriera da pretore a Borgo San Lorenzo, in provincia di Firenze, poi a Milano. Rientrato a Firenze svolge le funzioni di sostituto, poi procuratore aggiunto e infine, dal 1991 di procuratore capo, presso la Procura della Repubblica presso il tribunale di Firenze. In quegli anni si occupa delle inchieste sul terrorismo nero e rosso. Sue le indagini che portarono all’arresto della brigatista Barbara Balzerani. Per passare all’Anonima Sequestri sarda, al caso del Mostro di Firenze. Dal 1992 ha svolto anche la funzioni di procuratore distrettuale antimafia. Dal gennaio del 1997 diventa Procuratore Nazionale Antimafia, incarico che lascia nel 2005 per raggiunti limiti d’età. Nella sua lunga carriera e’ stato autore di diversi libri sulla legalità e sulla giustizia. Dal Quirinale, nel 2005 ha ricevuto l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.

Tra i primi a ricordare la figura di Vigna è il leader dell’Italia dei Valori ed ex magistrato Antonio Di Pietro: “La sua scomparsa ci addolora. E’ stato un apprezzatissimo Procuratore della Repubblica a Firenze e poi ha diretto la Procura Nazionale Antimafia negli anni più caldi di contrasto alla mafia stragista. Il suo lavoro certosino è stato importante soprattutto nella ricostruzione delle responsabilità della strage di via dei Georgofili. Chi ha avuto la possibilità di conoscerlo, non ha potuto non ammirarlo per la sua capacità minuziosa di ricerca delle prove e della loro puntuale verifica. E’ stato un grande magistrato che ha fatto onore al Paese e a tutta la magistratura. Resterà un esempio per i tanti sostituti procuratori che seguiranno le sue orme”. Il presidente del Senato Renato Schifani, seconda carica dello Stato, ha diffuso una nota per omaggiare Vigna: “Il nostro Paese ha perso un uomo di grande valore e un giurista di eccezionale capacità. Ha saputo mostrare il significato del senso del dovere, della lealtà, della rettitudine, dell’indipendenza e dell’autonomia del magistrato nel senso più ampio del termine”. Cordoglio anche da parte di Walter Veltroni, che lo ricorda come “un magistrato rigoroso e impegnato a cui il nostro Paese deve molto”. Il presidente del Copasir Massimo D’Alema lo definisce “un esempio di serietà e competenza”.

Parole di stima arrivano dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando: “Apprendo con grande dolore della morte di Pierluigi Vigna, persona di cui ho apprezzato oltre che la professionalità anche la grande sensibilità personale, elementi che ha unito nelle tante importanti indagini che ha curato su fatti tra i più oscuri della storia del nostro paese”.

ilfattoquotidiano
Sound72
00venerdì 2 novembre 2012 21:41
Rauti: scompare "il fascista di sinistra" rivale di Almirante

(AGI) - Roma, 2 nov. - Il "fascista di sinistra", come e' stato definito Giuseppe Umberto Rauti, nacque a Cardinale, in provincia di Catanzaro, il 19 novembre 1926. Fascista di sinistra in contrapposizione con il "fascismo di destra" incarnato da Giorgio Almirante, prima, e da Gianfranco Fini poi. L'attenzione di Rauti si concentrava, infatti, sulla socializzazione e sui temi dell'anticapitalismo e del terzomondismo interpretando, dal suo punto di vista, i motivi ispiratori del fascismo. Questo lo ha relegato per lungo tempo in una posizione minoritaria all'interno del Msi, partito che, giovanissimo, contribuisce a fondare alla fine del 1946. Nei primi anni cinquanta contribuisce a dare nuovamente vita all'organizzazione neofascista che rispondeva alla sigla FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria) insieme ad alcuni appartenenti alla corrente cosi' detta "pagana" e "germanica" della prima organizzazione disciolta nel luglio del 1947. Dopo due attentati a Roma, presso il Ministero degli Esteri e all'ambasciata statunitense, il 24 maggio 1951 furono condotti numerosi arresti nei confronti dei quadri di questa organizzazione, fra questi: Pino Rauti, Fausto Gianfranceschi, Clemente Graziani, Franco Petronio, Franco Dragoni e Flaminio Capotondi. Tra gli arrestati anche il filosofo Julius Evola, considerato l'ispiratore del gruppo. Il processo si concluse il 20 novembre 1951: Graziani, Gianfranceschi e Dragoni furono condannati a un anno e undici mesi. Altri dieci imputati a pene minori. Tutti gli altri vennero assolti. Tra loro Evola, Rauti ed Erra. Con la fine del processo si concluse definitivamente anche l'adozione della sigla FAR. Nel 1954, dopo la vittoria dei fascisti in doppiopetto e la nomina a segretario di Arturo Michelini, da' vita al centro studi Ordine Nuovo. Nel 1956 Ordine Nuovo esce dal MSI.
Arrivera' ad avere dai 2.000 ai 3.000 iscritti. Successivamente Giorgio Freda ed altri esponenti di estrema destra entreranno a far parte di Ordine Nuovo. Negli anni sessanta e settanta, il nome di questa organizzazione verra' usato per rivendicare una serie di attentati, ai quali Rauti si dichiarera' sempre estraneo. Nel maggio del 1965 l'istituto di studi militari Alberto Pollio organizza un convegno sulla "guerra rivoluzionaria", a Roma all'Hotel Parco dei Principi, che viene finanziato dallo Stato Maggiore dell'esercito: si trattava di un raduno fra fascisti, alte cariche dello Stato e imprenditori: Rauti presenta una relazione su "La tattica della penetrazione comunista in Italia". Il 16 aprile 1968 parte insieme ad altri 51 estremisti di destra (fra cui l'agente del SID Stefano Serpieri, Giulio Maceratini, Mario Merlino, Stefano Delle Chiaie, Franco Rocchetta) da Brindisi per un viaggio di istruzione sulle tecniche di infiltrazione, nella Grecia dei Colonnelli, a spese del governo greco. Con l'arrivo alla segreteria del MSI nel 1969 di Giorgio Almirante, Rauti e un gruppo di dirigenti rientro' nel partito, e alla guida del movimento resto' Clemente Graziani. Il 4 marzo 1972 il giudice Stiz di Treviso esegue mandato di cattura contro Rauti per gli attentati ai treni dell'8 e 9 agosto 1969. Successivamente l'incriminazione si estendera' agli attentati del 12 dicembre.
Il 21 novembre 1973 trenta aderenti ad Ordine Nuovo vengono condannati dalla magistratura per ricostituzione del Partito Nazionale Fascista e viene decretato lo scioglimento dell'organizzazione. Nel 1974, con la rivoluzione dei garofani in Portogallo, viene scoperta l'organizzazione eversiva internazionale fascista Aginter Press con la quale ha stretti rapporti anche Rauti attraverso l'agenzia Oltremare per la quale lavora. Nessuna di queste inchieste ha mai accertato qualche reato a suo carico.
Successivamente Pino Rauti fu inquisito per la strage di Piazza della Loggia a Brescia e in merito il 15 maggio 2008 e' stato rinviato a giudizio. Assolto il 16 novembre 2010 in base all'articolo 530 comma 2 del codice di procedura penale (insufficienza di prove). Nelle richieste del pm Roberto Di Martino, per quanto concerne la posizione di Pino Rauti si afferma che la sua e' una "responsabilita' morale, ma la sua posizione non e' equiparabile a quella degli altri imputati dal punto di vista processuale. La sua posizione e' quella del predicatore di idee praticate da altri ma non ci sono situazioni di responsabilita' oggettiva. La conclusione e' che Rauti va assolto perche' non ha commesso il fatto".
Nel 1972 Rauti viene eletto deputato alla Camera nelle file del Msi nel collegio di Roma, dove verra' sempre rieletto fino alle elezioni del 1994. E' promotore di una stagione di rinnovamento dentro il partito, lanciando un quindicinale "Linea", e organizzazioni parallele, dal Movimento giovani disoccupati, ai Gruppi Ricerca Ecologica, e sostenendo i Campo Hobbit fu riferimento delle nuove generazioni del Fronte della Gioventu'. La sua era detta la componente dei "Rautiani". Nel 1979, al XII congresso del MSI-DN, viene eletto vicesegretario.
E' animatore di mozioni congressuali come "Linea futura" (1977), "Spazio Nuovo" (1979 e 1982) e "Andare oltre" (1987).
Il 14 dicembre 1987, al XV congresso del MSI a Sorrento, raccoglie quasi la meta' dei consensi, insieme alla corrente di Beppe Niccolai, per l'elezione a segretario, ma e' battuto da Gianfranco Fini, sostenuto dal segretario uscente e padre nobile del partito Giorgio Almirante, ormai gravemente malato.
Riceve finalmente la guida del MSI nel 1990 al congresso di Rimini, coalizzandosi con la componente di Domenico Mennitti, e battendo Fini per la segreteria, ma non riesce ad arrestare l'emorragia di voti per la morte di Almirante. Dopo la sconfitta alle amministrative e alle regionali in Sicilia del 1991 il Comitato centrale del partito lo destituisce, e "restituisce" la carica a Fini.
Europarlamentare dal 1994 fino al giugno 1999, dopo il congresso di Fiuggi del 1995, che trasforma il Movimento Sociale in Alleanza Nazionale, Rauti, da sempre animatore dell'ala "di sinistra" di quel partito, fonda insieme ai senatori Giorgio Pisano' e Cesare Biglia e al deputato Tommaso Staiti di Cuddia il Movimento Sociale Fiamma Tricolore, dopo che una sentenza del Tribunale Civile di Roma impedisce ai rautiani di appropriarsi di nome e simbolo storici del MSI-DN, mentre viene velocemente scartata l'ipotesi di chiamare il nuovo sodalizio politico Partito della Rifondazione Missina. "Gianfranco Fini a Fiuggi non ha deviato di una virgola dalle sue idee di sempre. Fini ha semplicemente ammesso pubblicamente quello che noi abbiamo sempre sostenuto, e cioe' che il 'fascismo di destra' non e' fascismo, e non lo e' mai stato", furono le sue parole dopo il congresso di Fiuggi che decreto' la del Msi. (AGI) .

lucaDM82
00sabato 3 novembre 2012 12:54
Re:
Sound72, 02/11/2012 21:41:

Rauti: scompare "il fascista di sinistra" rivale di Almirante

(AGI) - Roma, 2 nov. - Il "fascista di sinistra", come e' stato definito Giuseppe Umberto Rauti, nacque a Cardinale, in provincia di Catanzaro, il 19 novembre 1926. Fascista di sinistra in contrapposizione con il "fascismo di destra" incarnato da Giorgio Almirante, prima, e da Gianfranco Fini poi. L'attenzione di Rauti si concentrava, infatti, sulla socializzazione e sui temi dell'anticapitalismo e del terzomondismo interpretando, dal suo punto di vista, i motivi ispiratori del fascismo. Questo lo ha relegato per lungo tempo in una posizione minoritaria all'interno del Msi, partito che, giovanissimo, contribuisce a fondare alla fine del 1946.
Il 16 aprile 1968 parte insieme ad altri 51 estremisti di destra (fra cui l'agente del SID Stefano Serpieri, Giulio Maceratini, Mario Merlino, Stefano Delle Chiaie, Franco Rocchetta) da Brindisi per un viaggio di istruzione sulle tecniche di infiltrazione, nella Grecia dei Colonnelli, a spese del governo greco. Con l'arrivo alla segreteria del MSI nel 1969 di Giorgio Almirante, Rauti e un gruppo di dirigenti rientro' nel partito, e alla guida del movimento resto' Clemente Graziani. Il 4 marzo 1972 il giudice Stiz di Treviso esegue mandato di cattura contro Rauti per gli attentati ai treni dell'8 e 9 agosto 1969. Successivamente l'incriminazione si estendera' agli attentati del 12 dicembre.
. Nessuna di queste inchieste ha mai accertato qualche reato a suo carico.
Successivamente Pino Rauti fu inquisito per la strage di Piazza della Loggia a Brescia e in merito il 15 maggio 2008 e' stato rinviato a giudizio. Assolto il 16 novembre 2010 in base all'articolo 530 comma 2 del codice di procedura penale (insufficienza di prove). Nelle richieste del pm Roberto Di Martino, per quanto concerne la posizione di Pino Rauti si afferma che la sua e' una "responsabilita' morale, ma la sua posizione non e' equiparabile a quella degli altri imputati dal punto di vista processuale. La sua posizione e' quella del predicatore di idee praticate da altri ma non ci sono situazioni di responsabilita' oggettiva. La conclusione e' che Rauti va assolto perche' non ha commesso il fatto".
Nel 1972 Rauti viene eletto deputato alla Camera nelle file del Msi nel collegio di Roma, dove verra' sempre rieletto fino alle elezioni del 1994. E' promotore di una stagione di rinnovamento dentro il partito, lanciando un quindicinale "Linea", e organizzazioni parallele, dal Movimento giovani disoccupati, ai Gruppi Ricerca Ecologica, e sostenendo i Campo Hobbit fu riferimento delle nuove generazioni del Fronte della Gioventu'. La sua era detta la componente dei "Rautiani". Nel 1979, al XII congresso del MSI-DN, viene eletto vicesegretario.
E' animatore di mozioni congressuali come "Linea futura" (1977), "Spazio Nuovo" (1979 e 1982) e "Andare oltre" (1987).
Il 14 dicembre 1987, al XV congresso del MSI a Sorrento, raccoglie quasi la meta' dei consensi, insieme alla corrente di Beppe Niccolai, per l'elezione a segretario, ma e' battuto da Gianfranco Fini, sostenuto dal segretario uscente e padre nobile del partito Giorgio Almirante, ormai gravemente malato.
Riceve finalmente la guida del MSI nel 1990 al congresso di Rimini, coalizzandosi con la componente di Domenico Mennitti, e battendo Fini per la segreteria, ma non riesce ad arrestare l'emorragia di voti per la morte di Almirante. Dopo la sconfitta alle amministrative e alle regionali in Sicilia del 1991 il Comitato centrale del partito lo destituisce, e "restituisce" la carica a Fini.
Europarlamentare dal 1994 fino al giugno 1999, dopo il congresso di Fiuggi del 1995, che trasforma il Movimento Sociale in Alleanza Nazionale, Rauti, da sempre animatore dell'ala "di sinistra" di quel partito, fonda insieme ai senatori Giorgio Pisano' e Cesare Biglia e al deputato Tommaso Staiti di Cuddia il Movimento Sociale Fiamma Tricolore, dopo che una sentenza del Tribunale Civile di Roma impedisce ai rautiani di appropriarsi di nome e simbolo storici del MSI-DN, mentre viene velocemente scartata l'ipotesi di chiamare il nuovo sodalizio politico Partito della Rifondazione Missina. "Gianfranco Fini a Fiuggi non ha deviato di una virgola dalle sue idee di sempre. Fini ha semplicemente ammesso pubblicamente quello che noi abbiamo sempre sostenuto, e cioe' che il 'fascismo di destra' non e' fascismo, e non lo e' mai stato", furono le sue parole dopo il congresso di Fiuggi che decreto' la del Msi. (AGI) .





Rauti "terrorista" è una megacazzata e nel partito lo sapevano tutti. Gli avversari e i giudici gli fecero soltanto un regalo perchè il fenomeno "rauti bombarolo" giocò a suo favore e alle elezioni successive fu eletto con la pipa in bocca.
E' la che nacque Rauti.
ps.Non è vero che la sua posizione era minoritaria...è che la stragrande maggioranza (dirigenti compresi) non volevano rauti a capo del partito a prescindere dalle sue idee (lo sfondamento a sinistra,ecc):non aveva il carattere del Leader (gli stessi più vicini a lui lo accusavano di non prendersi le responsabilità e di essere un pessimo organizzatore),era già avanti con gli anni,rappresentava il passato, era stato invischiato nelle
vicende giudiziarie (dunque era facilmente attaccabile) e poi non aveva presenza "scenica",era brutto,cupo,non legava con gli altri,non aveva il il carisma di un niccolai o di un almirante.Anche per questi motivi lo stesso almirante era felice di averlo come avversario (sapeva di non poter perdere) ed erano i motivi per cui scelsero fini,che anche se non aveva l'1% di cultura politica di rauti,si vendeva meglio,era l'uomo nuovo,giovane,non aveva vissuto il fascismo ed era più adatto al ruolo di nuovo leader.Rauti era sicuramente uno studioso,un politico colto,scriveva bene,era capace di ottime analisi politiche,aveva tante idee ma non era considerato un tipo pratico
in grado di prendere delle scelte e guidare un partito.

Sulle dichiarazioni di questi giorni...che vergogna.Rauti era rimasto isolato dopo il '95,era stato uno dei pochi
che in pratica non è entrato in an e in pochissimi hanno avuto il coraggio di seguirlo.E poi fanno pure le dichiarazioni
"ci ha insegnato,era un maestro,ecc"...
Lui pure ha fatto le cazzate,ad esempio cacciate staiti dalla fiamma...ma quello che gli ha fatto romagnoli,cioè cacciarlo
dalla fiamma dopo che lo stesso rauti lo aveva eletto segretario (il tizio si era messo con la figlia) è stata un'infamata.

ps.maceratini lo conoscevo,una bravissima persona,anche su di lui si leggono tante cazzate.merlino insegnava filosofia al piano mio ma in altra classe...pareva proprio mago merlino,aveva una barba bianca lunghissima,cmq non ci ho mai parlato,so per certo che cmq era vicino agli ambienti di forza nuova.


Sound72
00lunedì 14 gennaio 2013 23:28
I TANTI INFARTI E I TROPPI MISTERI DELL’ASSASSINIO DI MORO SI RIAPRONO CON LA MORTE DI PROSPERO GALLINARI

Un articolo di Giovanni Fasanella su www.Panorama.it apre squarci sul mistero insoluto delle Brigate Rosse. "Figlio di contadini Pci di Reggio Emilia, Prospero Gallinari era un comunista puro, ma dello zoccolo duro che più duro non si poteva (...) a tal punto che il fondatore delle Brigate Rosse Alberto Franceschini (...) s'era convinto che fosse un agente del Kgb. Vero o falso che fosse...lui che era stato uno dei protagonisti del sequestro Moro e covava un odio feroce verso i suoi ex compagni che volevano vederci chiaro nella storia delle Br. Fedele fino all'ultimo alla consegna del silenzio, si è portato nella tomba molti dei segreti brigatisti".
Continua Fasanella: "Non potrà più chiarire, per esempio i suoi rapporti con l'istituto di "lingue" Hyperion, che aveva aperto una sede a Parigi, e da lì inviava direttive ai brigatisti italiani. Non potrà chiarire il ruolo avuto insieme al suo sodale Mario Moretti, altro uomo di Hyperion, nella decapitazione del nucleo storico delle BR, con l'arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini (Pinerolo, 1974), contrari all'"innalzamento del livello dello scontro" e per questo invisi ai "parigini".

Ancora: "Non potrà chiarire come e perché si decise, da quel momento, di passare dalle azioni di "propaganda armata" ai delitti politici. Non potrà dire chi "suggerì" ai brigatisti di sequestrare proprio Aldo Moro, e in che modo venne formalmente presa la decisione all'interno dell'organizzazione.
Non potrà dire in quante prigioni era stato tenuto il presidente democristiano, quale itinerario aveva compiuto l'ostaggio dal momento del sequestro sino al giorno del ritrovamento del suo cadavere, nella Renault rossa di via Caetani. Non potrà dire, infine, chi fu davvero a uccidere Moro: si era sempre assunto lui la responsabilità di aver sparato, ma poi la colpa venne scaricata addosso a un altro brigatista, Germano Maccari. Post mortem naturalmente, dopo che questi, perfettamente sano e all'età di 50 anni, una notte di ferragosto morì d'infarto in carcere..."
Ed infine arriva la bomba di Fasanella: "Certo, [Gallinari] era da tempo gravemente malato di cuore. Ma è impressionante come se ne stiano andando, uno dopo l'altro, tutti i depositari dei segreti del caso Moro. Di Gallinari, almeno si è saputo. Ma della morte per infarto, in Francia, di Corrado Simioni, il capo di Hyperion, non si sarebbe mai saputo se il cronista che firma questa nota non lo avesse scritto su facebook.
E del suo braccio destro Innocente Salvoni (nipote dell'Abbé Pierre, personaggio che contendeva in Francia il primato di popolarità persino a Charles De Gaulle), morto anche lui d'infarto in Francia, un mese dopo la scomparsa di Simioni, i lettori italiani e francesi aspettano ancora di leggere la notizia: ecco, questa notizia la dà Panorama.it."

report84.it
Sound72
00giovedì 20 giugno 2013 09:17


www.youtube.com/watch?v=DrAEAuj9moY


un mistero risolto con le fotografie..bella ricostruzione..
Sound72
00mercoledì 7 gennaio 2015 23:35
Mitra e killer zoppo, i misteri di Acca Larentia

Tra speculazioni e indagini lacunose oggi si commemora il 37°anniversario della strage nella sede dell’Msi.
Franco Bigonzetti era cintura nera di judo. Matricola di Medicina, si pagava gli studi lavorando per una società addetta alla manutenzione stradale. Alle ragazze piaceva, nonostante la timidezza. Francesco Ciavatta era un burlone. Lo trovavi sempre in giro col Boxer, un ciclomotore Piaggio assurto a icona dei ’70. Con Maurizio Lupini, amico inseparabile, ne combinava di tutti i colori. Stefano Recchioni amava la musica ed era portato per il disegno. Un giorno dedicò una poesia bellissima alla ragazza di cui era innamorato. Avrebbe militato nella Folgore per coronare un sogno accarezzato da tempo: librarsi in aria col paracadute.
Sarebbe giusto che chi si ostina generosamente a commemorare l’eccidio di via Acca Larentia conoscesse quei tre ragazzi attraverso i racconti offerti dai loro cari. Così come sarebbe auspicabile che quanti attendono il 7 gennaio per propinare allarmi di ordine pubblico o censure ideologiche imparassero a tacere. Il silenzio infatti favorisce la riflessione e può aiutare a comprendere il senso di quella carneficina, all’apparenza insensata, che inaugurò il ’78, annus horribilis di un paese che ama perseverare nei suoi errori.
Quelle del Tuscolano furono e restano le vittime di una giustizia negata; dal principio negata; sprezzantemente negata. Ciò al punto da far ritenere che talvolta non siano le regole del diritto ma i colori politici, o certi gradi di tutela, a decidere il passo di un’inchiesta. Nessuno ha pagato per l’assassinio di Bigonzetti e Ciavatta, nessuno risponderà dell’omicidio di Recchioni. Eppure i misteri di Acca Larentia rimangono tali solo per le menti dotate di scarsa curiosità. L’agguato del Tuscolano fu opera di una «squadra armata» che si celava nello spazio ricavato tra l’area magmatica dell’Autonomia Operaia e le organizzazioni clandestine, BR in testa. Una cerniera mal riuscita, chiamata a saldare i gruppi dediti all’attività di «resistenza» nel territorio a quelli combattenti già votati alla fase «offensiva». La sigla usa e getta adoperata per la rivendicazione, NACT, rappresenta un marchio inequivocabile. Lo sanno bene i giovani del movimento che subito riconoscono nell’azione antifascista una matrice precisa. Lo spiega il pentito brigatista Savasta durante un’audizione presso la Commissione Moro. Lo conferma il suo collega Brogi in un lungo memoriale dimenticato negli archivi del Tribunale. Lo afferma il Sottosegretario di Stato De Stefano, rispondendo nel 2012 a un’interrogazione parlamentare.
Del resto, per sciogliere l’enigma di Acca Larentia sarebbe bastato chiarire lo strano percorso compiuto da una delle armi utilizzate, la pistola mitragliatrice Skorpion. Il noto cantante Jimmy Fontana l’acquistò legalmente a Saint Vincent nel ’71. L’artista asserì di averla ceduta nel ’77 - a poche settimane dall’eccidio - a un commissario di polizia. Non uno qualsiasi ma il funzionario in servizio proprio al Tuscolano. Il dottor Cetroli negò la circostanza e la giustizia non ha mai spiegato chi dei due fosse il bugiardo. Eppure Fontana sosteneva di essere stato pagato con assegno. Quando il pagamento avviene in modo tracciabile, per verificare basta un controllo in banca. Operazione banale, volendo. Né sarebbe apparsa proibitiva l’identificazione dello zoppo, permanente o forse temporaneo, riconosciuto da un testimone oculare nel commando assassino. In quei giorni avrebbe giovato una semplice occhiata, lanciata tra i frequentatori degli ambienti dell’ultrasinistra di Roma Sud. Purtroppo però i testimoni oculari non hanno mai destato particolare interesse per gli investigatori. Recchioni fu centrato da un colpo di pistola esploso in una piazza gremita da centinaia di persone. Eppure i vecchi fascicoli dell’istruttoria languono di verbali d’interrogatorio a sommari informatori.
Chi vuole ricordare, lo faccia con dignità. Altri colgano l’occasione per provare un apprezzabile senso di vergogna.
......

cmq sta storia della mitraglietta Skorpion comprata da Jimmy Fontana è assurda.
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