00 05/09/2011 17:23
QUEST'AMERICA di Anna Guaita
Undici Settembre 2001. Lo ricordo così.

Era davvero una bella giornata. Di quelle giornate cristalline che New York ti regala alla fine dell’estate, con l’aria trasparente in cui si avverte il salmastro dell’Oceano. Tanto era bella, che quasi accettai l’idea di tornare a vedere le Torri insieme ai miei amici Vittorio e Claudia, che erano ospiti da me per qualche giorno. Ma loro avevano ancora il jet lag, e volevano muoversi prestissimo, e io non morivo dalla voglia di tornare ad affacciarmi da quelle altezze che mi facevano sempre venire un po’ di vertigini.

Così vado in ufficio. Ma mi attardo a un bancomat, sulla Sesta Avenue, a quattro isolati dalla redazione. Riponendo i soldi in borsa, mi avvio verso nord. Pochi passi. Alzo lo sguardo, e resto di sale: le facce delle persone che mi vengono incontro, nel senso inverso, da nord a sud, si contorcono tutte insieme, di colpo, in una smorfia di orrore. E’ una foto indelebilmente scolpita nella mia memoria.

Mi volto anche io e laggiù alla fine della dirittura della Sesta Avenue, contro il cielo di un blu quasi irreale, una grande nuvola di fumo nero avvolge la Torre nord. Di quei minuti ricordo l’improvviso silenzio. E poi l’esplosione di grida.

Faccio di corsa i quattro isolati, arrivo trafelata in redazione, dove il mio collega Stefano Trincia è già attaccato al telefono con il giornale, con i due televisori accesi su due canali diversi. Mio marito mi chiama dall‘università, mi vuole ricordare l’incidente avvenuto nel 1945, quando un aereo era andato a sbattere contro l’Empire State Building. Siamo in quella breve parentesi in cui crediamo ancora che sia stato un incidente. Sarebbe ben strano, considerata la giornata limpida e la tecnologia ben diversa da quella degli aerei di 50 anni prima. Eppure vogliamo crederci.

Poi arriva il secondo aereo.

Riesco a chiamare i miei, a Firenze: «Non so cosa sta succedendo. Forse è la guerra. Sto bene. Ma non so quando potrò richiamare». Mi rispondono incoraggiandomi, ma sento il pianto sommesso di mia madre.

Stefano è al telefono con la scuola dei figli: insiste che la scuola chiuda e mandi i ragazzi a casa. Ma è la scuola delle Nazioni Unite, ci sono figli di diplomatici e persone in vista e il direttore non vuole prendere l'iniziativa. «Faccia quel che vuole, ma i miei li faccia uscire, li mandi a casa ora, subito!» finisce per urlare Stefano. Se è un attentato terroristico, quella scuola potrebbe essere un altro bersaglio. Finalmente lo capisce anche il direttore.

E poi i crolli.

Stefano si mette le mani nei capelli, bianco in volto, immobile. Una morsa mi chiude lo stomaco. C’è gente che sta morendo in questo momento, sotto i nostri occhi. Forse amici, di certo conoscenti, gente che abbiamo intervistato, che abbiamo visto a conferenze, a mostre, a presentazioni di libri. Stanno morendo in un modo terribile, e nessuno può far nulla.

Cominciamo a scrivere. Non alziamo quasi la testa dalle tastiere, se non per guardare le tv e il cielo, laggiù, sempre più buio. Vittorio e Claudia arrivano anche loro in ufficio, sono sotto shock e coperti di una polvere che puzza di bruciato. Vittorio Giacopini è un giornalista dell’agenzia ApBiscom. Gli prestiamo un tavolo, un terminale, comincia anche lui a scrivere. Non sono saliti alle Torri, perché voleva farsi un’altra sigaretta: ”Non mi dite più che il fumo mi fa male”.

Più tardi, insieme a Luciana Capretti, giornalista della Rai e moglie di Stefano, ci avventuriamo verso sud. Miracolosamente ci fanno arrivare molto vicino. Non è ancora stata organizzata la cintura di sicurezza, con le barriere e i controlli strettissimi. Per ora sembra di camminare dentro un incubo senza trama. Polvere e detriti ovunque, e fogli di carta, scarpe, pezzi di vetro, plastiche contorte, stracci di vestiti, fumo, e quell’odore, quel misto di bruciato, di metallico, di acido, che si ferma in gola come se fosse qualcosa di solido. Fra qualche anno sapremo che è un veleno complesso e micidiale che si sta infiltrando nei polmoni dei soccorritori e che mieterà vittime. Le vittime dell’undici settembre che sono morte dopo, nelle corsie degli ospedali.

File di persone si dipanano agli ingressi degli ospedali: vogliono offrire il sangue. Si crede che ci saranno tanti feriti da salvare. E invece ce ne saranno pochi: chi è riuscito a scappare si è fatto solo qualche graffio, chi non è riuscito a scappare è morto.

Sono i giorni della solidarietà. C’è sgomento ma anche voglia di stare in compagnia, di fare del bene. La gente si ferma alle caserme dei vigili del fuoco che hanno subito forti perdite, solo per dire grazie, vedo alcuni di questi omoni grandi e muscolosi sciogliersi in pianto quando qualcuno li abbraccia.

Passo all’Armory, dove riposano le persone che lavorano a Ground Zero, e dove centinaia di disperati si soffermano alla ricerca di parenti dispersi: sui pali della luce elettrica, sulle lavagne, sui muri, innumerevoli fotografie scattate in momenti felici rimandano volti sorridenti, irreali nel dolore che ci circonda. Vari volontari portano roba da mangiare, leccornie che dovrebbero rallegrare. Portano i loro cani, perché con quelle code scodinzolanti diano un po’ di coraggio. C’è anche un pappagallo, «chiudi la porta, fa freddo» ripete ottusamente, e riesce a guadagnarsi qualche sorriso.

Sono anche giorni di lavoro, di interviste, di visite a famiglie, a vigili del fuoco, agli ospedali. Lavorare aiuta a tenere a bada i pensieri più foschi: le linee telefoniche funzionano male, i cellulari sono zitti, ma il cavo internet funziona e posso mandare messaggi alla mia famiglia attraverso il giornale.


Devo andare a Washington. Toccherà a me seguire le reazioni della Casa Bianca.

Arrivo di sera. In treno. La stazione è un deserto. Un tassì mi porta fino al Marriott, proprio dietro la Casa Bianca. Su Pennsylvania Avenue ci siamo solo noi e i mezzi blindati ai posti di blocco, e sopra le nostre teste gli F-16 che passano e ripassano sulla città. Questa è la colonna sonora della prima settimana: il rombo dei jet militari. E il ticchettio delle mie scarpe lungo corridoi deserti.

Per entrare al Marriott, chiuso dietro una trincea e guardato da poliziotti armati, devo mostrare il tesserino da giornalista e il passaporto. Controllano che io abbia davvero una prenotazione e poi mi lasciano passare. Di solito, la hall di questo grande albergo è popolata di gente, con negozi affollati, ristoranti pieni, e un costante brusio. Stasera è vuota. Mi avvio verso il check in, tirandomi dietro la valigia, e mi sembra di fare un fracasso incredibile. Mi verrebbe da camminare in punta di piedi.

E arrivano i giorni della politica. C’è un via vai di primi ministri, presidenti, vip di tutto il mondo che vengono a dire a George Bush che la ferita all’America è una ferita anche per loro. Passo giorni a seguire notabili di ogni angolo del pianeta, ad ascoltare discorsi in tutte le lingue, spesso molto elegiaci e commoventi.

Ma intanto si prepara la guerra.

Non è più il momento della solidarietà. Sta arrivando il momento della vendetta. Ma quella è un’altra storia.
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola