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I 70 anni di Peter Gabriel: “Vivrò o morirò nudo ed esposto”

Dal gruppo più iconico dei Settanta alla carriera da solista: ritratto di un pioniere nella costruzione di musica senza frontiere. L’ex Genesis: «Aspettati l’inaspettato, tutto è possibile»

E’ un po’ come se compisse gli anni un parente, o un vecchio amico. Perché nell’immaginario e nel cuore di tanti –ma proprio tanti- ex-ragazzi italiani Peter Gabriel è quello: un amico di gioventù nato a Chobham il 13 febbraio 1950, uno che ha avuto successo e con il quale poi ti sei perso di vista e che oggi arriva ai settant’anni. Oppure un fratello di anima che hai ammirato e di cui hai condiviso, prima ancora della musica, le tante battaglie civili e sociali, ecologiche e tecnologiche. Per noi della prima ora, che l’abbiamo accompagnato in quei primi passi coi Genesis negli anni 70, è le due cose insieme. Affetto allo stato puro. Perché sì, quelli erano gli anni in cui ‘tutto poteva succedere’, anche che uno dei gruppi più iconici degli anni 70 –‘del prog’ è riduttivo- venisse scoperto e adottato e issato fino alla testa delle classifiche prima in Italia che nel resto del mondo, Inghilterra compresa. Che quel folletto in cui albergava una fantasia sfrenata diventasse il front man più amato. E che tutto questo, e quella sequenza di quattro album incantati da ‘Nursery Crime’, 1972, a ‘The Lamb’, 1974, venisse bruscamente interrotto, e si dovesse ripartire da zero.

La storia diventa leggenda
I Genesis sono stati un’epopea senza precedenti: le influenze neoclassiche e la teatralità sulla scena erano pane per i nostri denti, le pirotecnie di Peter una gioia per gli occhi. Dalla prima maschera, la testa di volpe con il vestito rosso della moglie Jill, fino al mascara e al chiodo di Rael in The Lamb, Peter sorprendeva e catturava, fosse vestito da fiore, da vecchio, da Britannia, da gang-arolo o da bitorzoluto slipperman. Chi c’era si ricorderà lo sbigottimento del sapere che quel doppio, densissimo e misterioso lp presentato in concerto a Torino nell’aprile 75 sarebbe stato il canto del cigno, e quel concerto, arricchito da uno slide show su tre schermi futuristico per l’epoca, sarebbe stato l’ultimo dei Genesis-con-Peter (il ‘G.C.P’, quasi un AC e DC nella memoria dei devoti).

Il guaio di essere famosi
Aldilà dei fattori personali e delle inevitabili gelosie per il suo ruolo, più grande della band il distacco aveva una logica ineluttabile: «La popolarità non ci permetteva di sviluppare nessuna libertà artistica. Era diventato un rischio cambiare, troppi soldi e persone coinvolte. Era tutto congegnato per preservare come eravamo. Io volevo e avevo bisogno di cambiare», commenta al Melody Maker nel 1977, «sento che la mia principale responsabilità è di creare situazioni in cui cercare nuove esperienze, evitando qualsiasi restrizione. Vivrò o morirò nudo e allo scoperto», aggiungeva ridendo, «voglio entrare in progetti piccoli, cose rischiose ed avventurose, che tengano la mia mente fresca e attiva».

Quadro dischi, due lettere



Ancora non sapeva neanche cosa, ma così è stato: prima di arrivare al suo capolavoro dell’86, “So”, Peter incide quattro album totalmente diversi dai Genesis (che nel frattempo vanno verso il pop e sbancano i botteghini). Intitolati semplicemente “P.G.” (“del resto, era quello che contenevano, no?”), sono un lento, progressivo affinamento di quello che diventerà poi il suo suono: atmosferico o bombastico, un post-rock venato da quelle influenze etniche –soprattutto africane- che lo renderanno un pioniere nella costruzione di una musica senza frontiere. Insieme o parallelamente a quella piccola cerchia di artisti dell’intellighenzia british (Fripp, Eno, Bowie, Kate Bush) produce musica di altissimo livello emotivo e concettuale, anche se con scadenze bibliche innaturali per qualsiasi star (solo due dischi di inediti: ‘Us’ nel ‘92 e ‘Up’ nel 2002), ma nella vita di Gabriel c’è molto di più.

La passione civile lo trova in prima fila nei concerti degli anni 80 e 90 di Amnesty International, la sua non-profit Witness fornisce strumenti di ripresa per testimoniare le ingiustizie (una idea già degli anni 80, pre-cellulari, resa possibile dall’evoluzione dalle tecnologie), in privato si palesa a Davos per parlare – e suppongo stimolare per il meglio- i potenti del mondo. Si è pronunciato per la creazione di uno Stato palestinese e contro la Brexit.

Gli altri mondi
La sua passione per la world music prende vita nella etichetta Real World, e nelle magiche ricorrenze live nei WOMAD Festival. L’interesse per la tecnologia lo porta a fare il primo dvd multimediali, ‘Explora’ (seguiranno Secret World e Eve) e un sistema di audio-streaming HQ, OD2. Il richiamo dell’arte lo porta a cercare artisti contemporanei per le sue copertine, a spettacoli –con il palco spesso al centro dello spazio- in cui l’elemento sorpresa/meraviglia è il fulcro; produce colonne sonore per il cinema (su tutte ‘Birdy’ di Alan Parker e ‘L’ultima tentazione di Cristo’) e per lo spettacolo ‘Nei Segni dell’Alveare’, tratto dalle ‘Città Invisibili’ di Italo Calvino, messo in scena dall’Assemblea Teatro Torino. E non dimentichiamo i suoi videoclip da stato dell’arte. E dopo un’interruzione di dieci anni, nel nuovo secolo torna anche sul palco, sobrio ed elegantissimo nei suoi abiti neri in stile giapponese. Concerti da brividi, la sua voce rauca e lievemente strozzata ormai ancora più matura, come quando canta ‘Scratch My Back’ all’Arena di Verona, una intera orchestra sinfonica alle spalle, o quando torna con la sua superband storica nel tour ‘Back To Front’ nel 2014.

Expect the unexpected
E’ stato uno dei suoi famosi slogan che lo ha portato lontano. Un viaggio sontuoso, da vero esploratore a 360° delle umane cose. Non a caso, si considera «a humanist», più che «a musician», che alla richiesta «quando il nuovo album?» risponde sempre «in autunno», senza specificare mai l’anno. Arrivato a 70, tutto è ancora possibile: anche che da quel mantra, «cerca di non essere prevedibile», nasca un album di inediti: «‘So’…’Us’…’Up’…che ne dite di ‘Now’»? Siamo sempre qui, Peter. E questa è casa tua.

lastampa.it
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola