Morto suicida a Roma il regista Mario Monicelli
Quell'ultima zingarata
che ci fa sentire un po' più soli
di Domenico Naso
Chi se ne frega della retorica. Non ci chiedete di misurare le parole a pochi minuti dalla notizia del suicidio di Mario Monicelli, gettatosi a 95 anni dalla finestra di una stanza di ospedale. Non ci chiedete di fingere distacco. Nessun amante del cinema italiano può restare indifferente. Non perché è morto un signore di 95 anni, sia chiaro. A quell'età il fatto strano è vivere ancora. Ma uccidersi a 95 anni, forse per paura di una fine lenta e dolorosa, forse per qualche altra insondabile ragione, è qualcosa che ci turba profondamente e insieme, come in un miscuglio malsano di sensazioni, ci emoziona e ce lo fa amare ancora di più, quell'omino toscano perennemente incazzato e scontroso, che ha regalato all'Italia e al mondo decine di capolavori cinematografici.
Mario Monicelli era uomo d'impeto e di genio smisurato. È stato il regista de La Grande Guerra e L'armata Brancaleone, I soliti ignoti e La ragazza con la pistola, Amici miei e Un borghese piccolo piccolo, I nuovi mostri e Il marchese del Grillo, Speriamo che sia femmina e Cari fottutissimi amici. E prima ancora il sodalizio con Steno, le decine di commedie con Totò, Aldo Fabrizi, Anna Magnani.
Monicelli era l'ultimo dei grandi registi italiani. E ha vissuto così a lungo che ci aveva fatto credere di essere immortale. Fino all'ultimo ha strigliato un paese addormentato e ripiegato su se stesso. Lo ha fatto a Raiperunanotte, usando toni forti, forse troppo, e mostrando un disprezzo nei confronti dell'Italia che in fondo era amore incondizionato, era voglia rabbiosa di uno scatto d'orgoglio. Era il solito Monicelli, quello caustico e un po' stronzo, che non mandava a dire le cose ma te le sparava in faccia, senza filtri, con quell'espressione severa da vecchio saggio che ti faceva diventare piccolo piccolo.
E lo stesso burbero padre nobile della settima arte italiana era persino riuscito a diventare padre a 74 anni, con una scelta che all'epoca aveva indignato tanti, troppi parolai: “Tra pochi anni non ci sarà più e lascerà una bimba orfana. Che egoista!”. E invece no, se l'è goduta quella figlia, anche se non viveva con lei, così come non voleva vivere con mogli, amanti, figli, parenti vari, amici. Viveva da solo, diceva, «per rimanere vivo il più a lungo possibile. La donna è infermiera nell'animo, e, se ha vicino un vecchio, è sempre pronta ad interpretare ogni suo desiderio, a correre a portargli quello di cui ha bisogno. Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona, non si muove più e diventa un vecchio rincoglionito. Se invece il vecchio è costretto a farsi le cose da solo, rifarsi il letto, uscire, accendere dei fornelli, qualche volta bruciarsi, va avanti dieci anni di più».
Quei dieci anni devono essere passati, almeno secondo lui, visto che quel volo dal balcone dell'Ospedale San Giovanni di Roma ha messo fine a una delle vite italiane più esaltanti. Potremmo aprire l'argomento spinosissimo della paura di morire soffrendo e della possibilità negata di non farlo, o potremmo fare il parallelismo tra il suicidio di Mario Monicelli e quello del padre Tomaso, giornalista e scrittore antifascista, nel 1946. Potremmo, ma non lo faremo. Perché il volo mortale di quel vecchietto gracile e minuto è in realtà un commiato pieno di ribelle libertà, è l'uscita di scena degna di un uomo che dell'opinione della maggioranza se ne è fregato per quasi un secolo, che ha sbeffeggiato la morale comune con decine di film geniali, divertenti, dolci, amari.
E allora cerchiamo di capirla, se non giustificarla, questa inaspettata “zingarata”. E quando seguiremo la bara del Maestro, magari ci scapperà da ridere, come nel funerale del Perozzi (il personaggio di Amici miei interpretato da Philippe Noiret). Lacrime di gioia, risate di dolore, chi lo sa. Poco importa. Perché Monicelli se ne è andato e se ne frega. Se ne è andato. E lo ha deciso lui.
29 novembre 2010