Bellissima intervista riproposta dal Corriere
«Accendeva il telefonino alle 10 e 30 del mattino, lo spegneva alle 12, lo riattivava alle 16 per chiudere definitivamente i contatti col mondo alle 18 e 30. «Non sono schiavo del cellulare, quando pedalo, mangio, leggo o riposo non voglio essere disturbato». Felice Gimondi, mito del ciclismo mondiale scomparso venerdì in Sicilia, era un uomo riservato. Nella sua enorme casa di Paladina, sulle colline bergamasche, più castello che abitazione civile, non c’è – in apparenza – nessuna traccia di una carriera sportiva senza uguali in Italia e con pochi paragoni nel mondo. Gimondi aveva vinto tutto: tutti e tre i grandi giri (quello d’Italia tre volte), il mondiale, Roubaix, Sanremo e Lombardia. E’ arrivato secondo al Fiandre, a Gand e alla Freccia dei podi “monumento” gli manca solo la Liegi. Senza Merckx il Cannibale sarebbe stato lui. «Non mi è mai piaciuto fare il gradasso – spiegava – e per questo tengo maglie, coppe e biciclette nella torre accanto al castello e, soprattutto, nel Museo del Falegname “Tino Sana”, ad Almenno San Bartolomeo. Se ho combinato qualcosa nella mia carriera di sportivo, è giusto che tutti possano vedere i miei trofei. E poi mi piace l’idea delle mie bici in mezzo agli strumenti dei falegnami. In fondo anch’io ero un artigiano, della fatica e dei pedali». Quella che segue è una delle ultime interviste a Felice Gimondi, registrata nel dicembre dello scorso anno a Bergamo e pubblicata in Francia nel volume «Secrets de maillots jaunes» per Hugo Editions.
Nel luglio 1964 lei disputa il Tour de l’Avenir, la più importante corsa a tappe del mondo per dilettanti. Anche lì il simbolo del primato è color limone. Come ricorda quella corsa?
«Con gli occhi di un ragazzino di provincia uscito pochissime volte dall’Italia. L’Avenir era una gara importante, in tutti i sensi, che si correva per squadre nazionali. Quell’anno si partiva dalla Costa Azzurra (Antibes, se non ricordo male) e io come tutti i miei compagni pendevo dalle labbra di Elio Rimedio, il commissario tecnico azzurro. Un personaggio di umanità e competenza formidabili. Elio mi disse, nel suo romanaccio affettuoso, di non prendere nessuna iniziativa, di stare sempre coperto per provare a fare un po’ di classifica dopo qualche giorno di gara. No, non lo presi alla lettera: m’infilai subito in una fuga e vinsi la prima tappa in volata, su un pista in terra battuta, passando in testa all’ultimo chilometro e tenendo duro fino alla fine. Tatticamente una follia che mi costò una quantità enorme di energie. «E per fortuna che dovevi stare coperto!» mi rimproverò Rimedio. Successivamente arrivai secondo nella cronometro, mi difesi in montagna e alla fine vinsi la classifica con 42” di vantaggio su Lucien Aimar, gran bel corridore. Fu una fatica bestiale, terribile, superiore a quella che avrei provato l’anno successivo tra i professionisti: in certi momenti mi auguravo di rompere la bicicletta per poter smettere di soffrire. Ma il risultato mi bastò e avanzò per passare professionista, pochi mesi dopo».
E anche, l’anno successivo, per essere convocato al Giro d’Italia dalla sua nuova squadra, la Salvarani.
«Arrivai terzo dietro Adorni e Zilioli difendendomi sia nelle cronometro che in montagna. Insomma, avevo qualche buon numero anche da professionista. La squadra – correvo appunto con la Salvarani, un team di grande nome all’epoca - mi chiese di andare al Tour per fare esperienza. Me lo chiesero lo sponsor e il mio direttore sportivo, Luciano Pezzi, mentre mangiavamo un boccone in autogrill dopo la fine della corsa. «Non avrai nessuna responsabilità – mi spiegò Pezzi – solo quella di stare vicino ad Adorni fino a quando resisti e di tenere gli occhi aperti». Vittorio aveva appena vinto il Giro ed era la stella del ciclismo italiano. Io risposi che avrei dovuto prima chiedere il permesso a mio padre Mosè e poi alle poste di Sedrina, il mio paese, dove lavoravo come apprendista portalettere. Entrambi mi lasciarono libero. In realtà avevo già deciso che si sarei andato, ero affamato di corse e a quel Tour andai più che volentieri. Non avevo ancora compiuto 23 anni, la fatica non mi spaventava».
Si dice che Luciano Pezzi, leggendario direttore sportivo italiano, avendo intuito le sue potenzialità per lasciarle spazio abbia fatto fuori apposta Bruno Fantinato, un onesto gregario veneto di Adorni, inventando per lui un problema al ginocchio che non esisteva.
«Sarà vero? Non lo so, so che Luciano mi disse chiaramente che potevo tornare a casa dal Tour il primo giorno di riposo se fossi stato troppo stanco. Non credo pensasse nemmeno lontanamente a una mia possibile vittoria e nemmeno a un podio, immagino che volesse farmi fare esperienza di alto livello, proprio stando vicino ad Adorni da cui avevo molto da imparare. All’epoca nessuno avrebbe pensato di “proteggere” un ragazzo di 23 anni non facendogli fare il Tour un mese dopo il Giro: se si poteva correre si correva e via. Oggi invece… Oggi si gareggia molto di più. Impossibile fare paragoni. Non sono uno di quelli che dicono sempre «ai miei tempi era diverso…».
Lei che aspettative aveva partendo per la Francia?
«Nessuna. Avevo soltanto fame di correre e di esperienza. E al Tour potevo soddisfarla. Feci la valigia con gioia e curiosità. Quello del 1965 era un Tour con un percorso davvero completo. Si partiva con due semitappe a Liegi e la seconda tappa, ad esempio, arrivava in un posto chiamato Roubaix. Il pavè, sicuro: la Roubaix, quella vera, l’avevo disputata per la prima volta la primavera precedente e non mi aveva spaventato. Anzi, non mi fossi perso nei ventagli dopo essermi fermato a fare pipì sono certo che non sarebbe andata male. Invece terminai in coda al gruppo, tra gli ultimi, ma con sensazioni positive: il pavè mi piaceva. Al Tour fu tutto diverso. Avevo più esperienza, gambe buone e arrivai all’ingresso del velodromo nel gruppetto di testa. Con un piccolo problema: non avevo mai fatto una volata in pista. Ma andò bene, mi misi davanti a tutti cercando di non far passare nessuno e fui battuto solo da uno specialista come Bernard Van De Kerckhove».
Oggi la maggior parte degli specialisti delle corse a tappe non disputa la Roubaix per non rischiare infortuni e grida allo scandalo se nel percorso del Tour ci sono pavè o “muri”, spesso presenti nelle ultime edizioni. Tutti hanno paura di farsi male o perdere troppo tempo in classifica.
«L’unica volta che mi avvicinai alla macchina del direttore di corsa per lamentarmi per la fatica, Felix Lévitan, il boss della corsa, mi disse: «Mon cher ami, nous sommes au Tour de France». Come dire: se ti va bene così ok, altrimenti puoi tornare a casa, che se sei in maglia gialla. Lezione imparata. Non ho mai più aperto bocca: le regole del Tour erano quelle e il mio compito era solo di rispettarle. Il giorno dopo quel secondo posto ci fu la terza tappa, da Roubaix a Rouen, la città del grande assente Jacques Anquetil».
Riuscì a recuperare la fatica?
«Avevo talmente tante energie che m’infilai in una fuga disperata a 10 chilometri dal traguardo. Prendemmo un po’ di vantaggio e riuscimmo miracolosamente a tenerlo fino alla fine, pedalando a 50 all’ora. Ero talmente fuori posto in una corsa di quel livello che mi ero scritto sui guantini i nomi e i numeri di dorsale degli uomini da tenere sotto controllo: mano destra velocisti, mano sinistra uomini di classifica. Dopo un po’ col sudore le scritte cominciarono a sbiadire e facevo a leggerle. Di uomini di classifica nel gruppo dei fuggitivi non ce n’erano, di velocisti parecchi: uno su tutti André Darrigade, ex campione del mondo. In volata sicuramente avrei perso, ma approfittando di un passaggio a livello all’ultimo chilometro presi dieci metri di vantaggio e li mantenni fino alla fine. All’arrivo ero contento ma non avevo capito bene quello che avevo combinato.
Cosa aveva combinato?
«Mi chiamarono sul podio quattro volte: vincitore di tappa, maglia bianca di miglior giovane, maglia verde della classifica a punti. E ovviamente maglia gialla: grazie a quella specie di contropiede che mi era sembrata una mezza follia ero in testa alla classifica generale».
Come la prese?
«Con filosofia: noi bergamaschi siamo gente di mezza montagna, non ci montiamo mai la testa. In albergo trovai uno di quegli enormi e altissimi letti in legno a baldacchino, che devi faticare per arrampicartici sopra e metterti a dormire. Ci distesi tutte le maglie e me le guardai per cinque minuti seduto in poltrona. Poi scesi a cena: avevo fame, di quel Tour ricordo soprattutto sensazioni elementari come fame, fatica, sonno».
Dormiva facilmente?
«Anche in piedi. Raramente ricordo dopo corsa così tranquilli. Ero come un bambino dalle energie inesauribili: correvo, mangiavo, dormivo. E il gruppo come la prese? Lei era un 23enne neoprofessionista in maglia gialla, dopo un secondo posto sul pavè e una vittoria in volata… Con curiosità. Vennero a stringermi la mano Bahamontes e Gaul, che per me erano delle superstar, dei miti. La loro curiosità era sincera, come quella di Jan Janssen, il campione del mondo in carica. Mi fece i complimenti, mi disse che ero stato bravissimo a mantenere una forma eccellente per tre giorni. Credo tutti pensassero che la mia gloria era effimera, che presto sarei andato in crisi profonda, come normale per un debuttante. Ma i loro complimenti erano sinceri».
Nella sua Salvarani il capitano era Vittorio Adorni. Cinque anni più vecchio di lei, fresco vincitore del Giro. In Italia era il numero uno.
«Confermo. Il capitano era lui. Nella tappa di La Rochelle, la settima, Vittorio bucò e io che ero in maglia gialla mi fermai ad aspettarlo. Nessuno mi chiese di farlo, mi sembrò una cosa naturale, ovvia. E infatti, dopo sei tappe da leader, quel giorno dovetti cedere la maglia a Van De Kerckhove. Vittorio me ne fu grato, i rapporti tra noi sono stati sempre cordiali. In quel Tour non potevo in nessun modo essere un suo rivale, infatti ripresi la maglia gialla a Bagnères de Bigorre, sui Pirenei, nel giorno in cui Adorni si ritirò».
Quel giorno vinse Julio Jimenez, un grande scalatore spagnolo.
«Sì, era la tappa del Tourmalet, una delle salite più dure di quel Tour. A metà rimasi solo con Motta e Pulidor. Stavo bene ma non conoscevo il percorso e avevo paura di strafare. A un certo punto mi voltai e vidi Pambianco, che saliva assieme a Van Loy, farmi cenno di attaccare: aveva capito che pedalavo molto bene. Gli diedi retta, cambiai ritmo e tornai in giallo. Dopo la tappa Arnaldo mi disse che si capiva che avevo una marcia in più, che sulle montagne potevo stare tenere il passo gli scalatori puri».
Nella quattordicesima tappa, un altro mito del ciclismo da affrontare: il Mont Ventoux.
«Nella parte centrale della salita sbagliai tutto, cercando di rispondere ad ogni attacco e rischiando di saltare. Non avevo l’ammiraglia vicina, non esistevano ovviamente radioline: la mia bravura fu di capire che stavo facendo una cavolata e riprendere a salire sul mio ritmo. Stavo talmente bene che non pagai conseguenze, arrivando quarto nel gran giorno di Poulidor, che arrivò a soli 34” da me in classifica. Ma effettivamente se c’è un giorno in cui ho rischiato di perdere il Tour è stato quello. Per Poulidor quella fu, secondo molti, la più grande occasione persa della carriera.
Al Tour quell’anno non c’era Anquetil e lui, adorato dai francesi, era il grandissimo favorito.
«Devo dire che, a posteriori, mi spiace molto per lui. Poupou era ed è una persona amabile e un grandissimo campione la cui carriera fu bloccata prima da Anquetil e poi, come me, da Merckx. E io riuscii a soffiargli il Tour proprio prima che cominciasse il dominio di Merckx, quando lui aveva già quasi trent’anni. Quel giorno sul Ventoux avrebbe davvero potuto farmi affondare e vincere il Tour se io non avessi avuto l’intelligenza di gestire bene le forze».
Grande favorito, ma eterno secondo
«Sì, Poupou per tutti era il grande favorito e l’idea (soprattutto dei francesi, che lo adoravano) era che dopo l’impresa del Ventoux si potesse riprendere la maglia nella cronoscalata da da Aix-Les-Bains a Le Revard. A dire il vero, non era solo l’idea dei francesi. La sera prima della tappa vennero a trovarmi sponsor e amici dall’Italia. Beh, mi trattavano come se stessi per crollare da un momento all’altro. Hai fatto una grandissima corsa, dicevano, non ti preoccupare di quello che succederà, il Tour è come se l’avessi vinto. Quello che dovevi fare l’hai fatto alla grande. Insomma, mi preparavano al tracollo! »
Lei si preoccupava?
«Ma no. Di cronoscalate ne avevo corse tante, mi paicevano e sapevo di potermela cavare piuttosto bene. Non mi sentivo davvero un condannato in attesa dell’esecuzione: ero sereno, tranquillo. E quando scattai da Aix per ultimo in maglia gialla ero concentratissimo.
Come andò?
«C’erano tre punti in cui venivano rilevati gli intertempi. Oggi ci sono le ammiraglie che ti tengono aggiornato, all’epoca i distacchi venivano dati direttamente un motociclista, su una lavagnetta. Io di quella tappa ricordo tre numeri: -18, 0, +18. Al primo passaggio perdevo 18” da Poulidor, al secondo eravamo esattamente alla pari, al terzo rilevamento ero in vantaggio di 18”. Conclusi distanziando Raymond di oltre mezzo minuto e di oltre un minuto in classifica generale. E subito dopo il traguardo per la prima volta pensai che avrei potuto vincere il Tour de France.
Fu una cronometro facile?
«No, fatica e stanchezza a parte avevo problemi al cambio che si bloccava e da metà salita in poi fui costretto a pedalare con un rapporto piuttosto duro. Davanti avevo un “42”, dietro mi servivano il 18 e il 19, ma non riuscivo a scalare oltre il 17 e salii con quello. Non avessi avuto ottime gambe, probabilmente mi sarei piantato. Ma le avevo».
Panico?
«Assolutamente no. La sera pensavo solo a mangiare bene, poi mi addormentavo come un sasso. Il giorno dopo ripartivo da zero e mi rendevo conto che gli avversari mi guardavano con sempre maggiore rispetto e timore. E questo mi faceva sentire più forte».
Era un Tour a cronometro: tre individuali più la cronosquadre. Lei, oltre a quella di Le Renard, vinse anche la cronometro conclusiva da Versailles a Parigi e a 44 di media.
«Quella dove rimasti stupito della mia forma fu la cronosquadre di Liegi, a inizio Tour. I mie compagni dovettero urlare più volte per farmi rallentare: andavo come un treno, li stavo staccando. A Versailles usai tutte le energie che mi rimanevano e quei 44 chilometri all’ora furono davvero una bella media. Poi Parigi. Uno pensa ai Campi Elisi, al podio, alle premiazioni, all’inno. Gimondi come Bottecchia, Bartali, Coppi e Nencini. Di quel giorno la cosa che mi colpì di più fu il trasferimento dal traguardo all’albergo che - pensi – veniva fatto con quattro autobus di linea pieni di corridori. Avevamo la scorta della polizia in moto che bloccava il traffico per farci passare a 80 all’ora con i semafori rossi. Ecco, in quel preciso momento capì quello che avevo fatto e che cos’era il Tour de France. Si ricordi che avevo 23 anni e venivo dalla Val Brembana. Quella sera viaggiavo scortato su un bus nelle strade di Parigi: per un contadinotto come me era un sogno».
A quel Tour non partecipò Jacques Anquetil. «Maître Jacques» aveva già vinto cinque edizioni. Quanto pesò la sua assenza?
«Non lo so, onestamente. Quell’anno Jaques fece scelte diverse e negli anni successivi non vinse più nessun grande Tour. La nostra ultima sfida fu il Giro d’Italia del 1967: io primo, lui terzo».
Dopo la vittoria al Tour tornò a casa subito?
«Macchè, la sera stessa della premiazione, in albergo, il mio procuratore mi fece firmare una ventina di contratti per disputare altrettanti circuiti tra Francia e Belgio. Correvamo ogni giorno a volte due volte al giorno e in posti distanti da loro centinaia di chilometri. Certe smacchinate. Un giorno - per andare non mi ricordo dove - mi fecero salire su un aereo così piccolo che per farci entrare la bici dovetti smontare le pedivelle. Partimmo di sera, atterrammo col buio in un campo di patate. L’aereo ballava, io tremavo di paura: pensa se uno che ha vinto il Tour deve morire in un campo di patate».
Non si schiantò e dopo tre settimane di circuiti tornò nella sua Sedrina.
« Che festa! Strade bloccate, gente che faceva chilometri a piedi per venirmi a salutare. Qualcuno ancora oggi me lo rinfaccia.
Il suo primo gesto “italiano” da vincitore del Tour?
«Andai all’ufficio postale di Sedrina a presentare le dimissioni. Formalmente ero ancora un portalettere aggiunto in distacco dal servizio. Il postino titolare era mia madre. Dopo Giro e Tour realizzai che forse potevo mantenermi anche col ciclismo e lasciai il posto fisso e sicuro».
I suoi genitori?
«Felici,ma composti e silenziosi, come veri bergamaschi. Mia madre restò a badare alla casa: la rividi dopo quasi due mesi. Mio padre era venuto a trovarmi in albergo dopo una delle ultime tappe sulle Alpi ma era rimasto fuori per non disturbare. Si rende conto? Fu un compagno a dirmi di averlo visto seduto nella veranda. Scesi subito e lo trovai lì, col berretto in mano a fissare il panorama. Ci abbracciamo senza dirci niente. Giuro, fu l’unico momento in tutto il Tour in cui mi sono davvero commosso».