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NFL

Ultimo Aggiornamento: 28/04/2024 21:40
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31/01/2011 18:09
 
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Grasso è forte, football extra large

La Nfl cambia forma: prima muscoli e velocità, adesso stazza e peso. I Packers si giocano il Super Bowl con 13 uomini sopra i 130 chili

L'immagine che porta in giro per il mondo il prossimo Super Bowl sembra uscita dalla danza degli ippopotami di «Fantasia»: due campioni dei Green Bay Packers, in finale domenica con i Pittsburgh Steelers, saltano sedere contro sedere per festeggiare un touchdown. Sono T. J. Lang e B. J. Raji ovvero 296 chili che ballonzolano e il filmato passa in tv al rallentatore, pezzo clou del promo che racconta la partita dell'anno. E la trasformazione del campione.

Socialmente obesi e sportivamente straordinari, non si è ancora capito come gli opposti possano stare insieme, ma proprio grazie a quel pachiderma di B. J. Raji, i Green Bay sono arrivati a un passo dal titolo. Suo l'intercetto decisivo, di uno dei 13 uomini in squadra che superano i 130 chili cioè la soglia tra stazza e grasso. Limite sbandierato dai medici e sbeffeggiato dalla National Football League che difende i suoi ciccioni: «Ci vuole fisico, si prendono troppe botte. Sono tutti ragazzi allenati, definirli obesi significa non conoscere il football». La polemica non è recente, ma quest'anno si è esasperata perché il campionato è diventato extra large: 532 giocatori pesi massimi e un Super Bowl che sembra lo spot del cibo spazzatura.

Una volta l'eroe dello sport più amato dagli americani (di molto avanti al baseball) era un omaccione rapido, corporatura massiccia e zero colesterolo, una pantera pronta allo scatto e senza paura, capace di andare a sbattere contro gli avversari e uscire dalla mischia. Quarantaquattro anni fa, epoca del primo Super Bowl vinto dai Green Bay Packers, il giocatore più grosso non raggiungeva i 116 chili, peso che adesso rappresenta la media. I ruoli sono un po' cambiati, i linemen hanno bisogno di essere invadenti, di occupare spazio, in attacco devono creare varchi e in difesa sono un ostacolo vivente, impacciano i rivali mentre il quarterback si inventa la traiettoria. Col tempo si sono allargati, espansi, di solito hanno i capelli lunghi e le cosce mollicce: a vederli seduti su un sofà sarebbe impossibile considerarli atleti. Eppure piacciono, hanno ingaggi da favola e un pubblico invasato, contento di somigliare all'eroe che gli cambia ogni maledetta domenica.

I colossi si muovono sul campo e chi sta a casa, a consumare il catino di ali di pollo fritto davanti alla tv, perde ogni senso di colpa e si sente più vicino all'idolo. A ogni morso. Gli esperti lo chiamano effetto «beerbelly» che sarebbe uno strano specchio deformante. Se l'uomo che trascina la squadra al Super Bowl (quanto di più eccitante esista per il mondo Usa) ha la pancia e il doppio mento, allora anche io comune mortale che mi esalto davanti alle sue prestazioni non sono poi tanto male. Posso strafogarmi e ingurgitare birra, anzi proprio l'eccesso mi accomuna al campione.

L'idea non era neanche tanto male e pazienza se le squadre che si qualificano al Super Bowl promuovono la raccolta fondi contro l'obesità dei bambini americani e il progetto suona un filo ipocrita. Hanno lavorato sul una nuova immagine e forse perso di vista la bilancia. Un quarto dei professionisti sarebbe classificato obeso di livello due se non portasse un numero sul petto e l'imbottitura sopra le spalle. Nel 2005 il primo studio allarmante: quei campioni sono destinati a morire giovani, soffriranno di colesterolo, pressione alta, diabete, difetti di circolazione, molti lieviteranno una volta chiusa la carriera e in più smetteranno presto perché il cuore non si può portare a spasso 150 chili e reggere quei ritmi. Diverse università hanno pubblicato in contemporanea ricerche e statistiche e la Nfl le ha rispedite indietro: «Usano parametri assurdi».

Nel 2002 il primo deceduto illustre, Frank Warren, dei New Orleans, muore per un attacco cardiaco giusto dopo un'intervista sul tema: «L'obesità sta diventando un pericolo per i linemen?». L'ultima frase pubblica di Warren fu: «La verità è che quando mi guardo allo specchio mi spavento». Un epitaffio che nessuno ha ascoltato. Due anni dopo è toccato a Reggie White, ex dei Philadelphia, nome nella Hall of Fame ribattezzato dai fan «Ministero della difesa» e ucciso da un'aritmia cardiaca a soli 43 anni. Il secondo cadavere si è portato dietro un'onda di disagio, tanto che per White sono state quasi organizzate autopsie in diretta: rivelavano ogni dettaglio per dare una motivazione alla morte improvvisa. Un difetto di respirazione, problemi non legati al peso e rimozione collettiva della minaccia. Dopo il famoso studio datato 2005 e la lite, tra salutisti e appassionati, sull'immagine da dare all'America, è crollato Thomas Herrion, collassato negli spogliatoi alla fine di un'amichevole. L'ala oltranzista della dieta lo ha usato come martire e ha sbagliato la mira. Herrion era adorato, dicevano si «muovesse in musica», era un simbolo del suo sport e si doveva rispettare il lutto invece di usare il cadavere per la campagna. In risposta nessun tifoso di football ha voluto associare la morte al peso. Scacciata l'idea è ripartita la deriva, solo che a maggio è toccato a Norman Hand, dei Giants: è caduto a terra in casa sua e non si è più rialzato. Ipertensione cardio vascolare e pochi dubbi sulla causa del decesso.

Qualche giocatore ha provato a tornare indietro. Max Jean-Gilles si è addirittura fatto operare per farsi levare 40 chili «ne pesavo 181, faticavo a muovermi nella vita quotidiana eppure in partita facevo il mio dovere». Quest'anno si è ripresentato più magro, un figurino di 140 chili. Adesso arriva il Super Bowl ciccione. Ryan Pickett, uno degli extra-large dei Green Bay, ha tentato l'impossibile per scendere sotto i 135 chili: «Ma è inumano, non ce la faccio e rendo peggio, devo essere massiccio. Nel grasso c'è la mia forza fisica».

Resta la paura di essere andati oltre, l'esempio nefasto su generazioni di ragazzini e anche l'intercetto da Oscar di B.J. Ray e tante azioni che devono per forza essere speciali: è difficile attribuirle a dei semplici grassoni. I due pachidermi che sbattono l'uno contro l'altro in un delirio di felicità oggi sono un pezzo di Super Bowl e per invertire la tendenza, cavalcata dal marketing e resa romantica dal tifo, non basterà contare i chili. Serve qualche alternativa, altrettanto coinvolgente.
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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