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Amarcord

Ultimo Aggiornamento: 27/03/2024 10:46
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05/02/2020 09:57
 
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Antonio De Falchi, morte a San Siro. «Non soffriva di cuore, fu ucciso» |

Giugno 1989, tifoso morto prima di Milan-Roma. La sorella Anna: «Gli aggressori furono protetti, aspettiamo ancora giustizia». La cameretta rimasta identica 31 anni dopo, con tutte le sue cose: «Lui dorme qui...»


viaggio nel dolore della famiglia di Antonio De Falchi, il tifoso romanista ucciso a 18 anni fuori dallo stadio San Siro, quando al centro dell’attacco giocava Rudi Völler e il muro di Berlino non era ancora crollato, inizia appena la sorella apre la porta di casa. Viale di Torre Maura, ultimo lembo a est della capitale: la borgata salita alla ribalta dei tg per le rivolte anti-rom è la stessa che non l’ha dimenticato, il suo ragazzo della Sud. Vittima di un agguato di ultrà rossoneri che lo riconobbero dall’accento, chiedendogli una sigaretta, prima di quel Milan-Roma della vergogna (la partita si giocò ugualmente, e non importa come finì).


Sotto le torri ex Gescal, una scritta inneggia a lui. «4 giugno 1989: Antonio vive». Lo scorso anno, nel trentennale, gli amici della curva hanno moltiplicato per cento la sua faccia da pischello, tenendo alti gli striscioni con la foto. Pochi mesi fa, quando se n’è andata mamma Esperia, ai funerali c’era pure Sebino Nela, il calciatore sensibile diventato una specie di parente acquisito. Edificio D in fondo al cortile, quarto piano. L’uscio a fianco all’ascensore. «Entri, prego». Sorride. È emozionata. Sul mobile d’ingresso, le foto incorniciate di un bimbetto di 4-5 anni. «Qui era vestito da Arlecchino, qui da Robin Hood...»

E adesso Anna De Falchi, che a 54 anni ci è arrivata, rinunciando però a una vita piena («Io sposata? E come potevo? Dovevo badare a mamma»), mi fa strada nel salotto con la vetrinetta e le statuine di ceramica. Apre la portafinestra. Lo indica quasi con orgoglio. «Guardi, questo era il suo Boxer. Si chiamava così, giusto?» Già. Lo scooter della Piaggio più amato – assieme al Ciao – dai teenager degli anni ‘80. Un pezzo di cuore di Antonio. Arrugginito. Senza pedali. Con il sellino squarciato e l’adesivo della Lacoste sul fianco. Da quasi 31 anni è qui, parcheggiato in balcone. Affacciato sul raccordo anulare e sui prati degli spacciatori. Il sogno di libertà di un ragazzo di periferia trasfigurato in una reliquia metallica. Sospira, la sorella maggiore. «Quando Antonio tornava dal lavoro non pensava che al motorino: stava sempre a lucidarlo, aggiustarlo, coccolarselo. Per questo mamma non l’ha voluto buttare. Le piaceva tenerselo vicino…»


Anna, sediamoci. Se la sente di raccontare? Antonio era partito per Milano e...«Noi gliel’avevamo detto che era pericoloso! Ma alla Roma non rinunciava. Pensi che la sera prima, quando passò il suo amico per andare alla stazione Termini, io attaccai il citofono, ma lui aveva sentito lo squillo e scappò giù. Mia madre gli aveva preparato la parmigiana di melanzane, però non ha fatto in tempo a mangiarla...»

La famiglia. «Eravamo 8 figli e Antonio era l’ultimo, il piccolo di casa. Sveglio, allegro. Dopo le medie, aveva trovato lavoro da tappezziere e poi come fabbro, in un’officina di infissi. Quando successe il fatto, papà non c’era già più. Tre anni prima aveva avuto un crollo nervoso, per un avvelenamento da funghi. Si buttò di sotto...» Anna indica lo stesso terrazzino dello scooter. Ha gli occhi lucidi. «Si chiamava Enrico. Faceva l’addetto d’ascensore alla Rinascente di via del Corso. Accoglieva i clienti e pigiava i pulsanti. Su e giù. Un mestiere che non c’è più».


Quel 4 giugno. «Era mezzogiorno passato, la tv non l’aveva ancora detto. Come sempre per le cose brutte, vennero le guardie a casa. Mamma strillava “se siete qui significa che Antonio è morto!”, e loro negavano, dicevano che era in ospedale, ma solo per consolarci».

Il riconoscimento. «Partimmo per Milano. Mamma nella camera mortuaria lo abbracciò e gridò: “Pulcino mio, ti riporto a casa!” Era chiaro che gli avevano menato: aveva la testa fasciata e il corpo pieno di lividi. Ma a voi giornalisti raccontarono che era morto per una disfunzione cardiaca. Falso! Aveva una coronaria più piccola, un fatto congenito. Senza complicazioni. Antonio stava bene, faceva culturismo. Aveva superato la visita militare. La vuole vedere le foto del cadavere con i segni del pestaggio?» Anna va a prendere un faldone alto due palmi. Sfoglia gli atti giudiziari. Trova un’immagine del fratello nudo, con addosso solo gli slip, sul tavolo dell’obitorio. Si vede poco, si intravedono ematomi. «La canottiera era a brandelli, strappata a calci. Altro che malformazione!»


Il processo. Un ultrà milanista venne condannato a 7 anni di carcere, due furono assolti. «Si accordarono. Uno si prese la colpa, dicendo che gli altri non erano presenti, e in cambio fu aiutato a uscire dopo pochi mesi. Li difendevano avvocati importanti, principi del Foro». Il procuratore di Milano era Francesco Saverio Borrelli, di lì a poco impegnato nell’inchiesta Manipulite. Sul caso De Falchi dichiarò: sono dispiaciuto, i testimoni non hanno collaborato. «Pesce grande mangia pesce piccolo, ci disse il nostro avvocato....»


I ricordi. Anna si alza. «La camera di Antonio la vuole vedere? È rimasta identica. Per noi è come se dormisse ancora qui...» Entriamo. Da brividi. La memoria di un giovanotto di borgata museificata negli oggetti che ha toccato, baciato, amato. Ci sono le foto alle pareti, Dino Viola, Bruno Conti, Zibì Boniek... La maglia che gli regalò Sebino Nela. Gli scarpini, le sciarpe, i gagliardetti. La sovraccoperta con il suo viso stampato a colori. Come se si fosse appena buttato sul letto, contento, di ritorno dall’Olimpico. E poi le targhe, le coppe, i pupazzetti...


Una cripta giallorossa. Manca solo l’altoparlante che scandisca le formazioni, con i boati dei tifosi in sottofondo. Il luogo dei sogni, dell’attesa della domenica. Ma pur sempre una cripta. Perché lui non c’è. «Era alto un metro e 90 ma nell’animo era rimasto un bambino, mio fratello. Non aveva la fidanzata. La Roma era la sua vita. E l’amore che ci regalano ancora oggi gli amici della curva è immenso. Pensi che ci hanno aiutato con una colletta a riscattare il fornetto a Prima Porta...» Anna si blocca. Le viene in mente qualcosa. «Ma lei lo sa che giorno era nato?» No, perché? Scuote la testa. «Il 2 novembre. Antonio con nostra madre ci scherzava sempre: “Senti ma’, sicuro che non porta jella? Non potevo nasce’ il giorno dopo?”...»

roma.corriere.it/notizie/cronaca/20_febbraio_02/antonio-de-falchi-morte-san-siro-non-soffriva-cuore-fu-ucciso-video-storia-la-stanza-museo-7e444f4c-42d2-11ea-8fab-5eae1fe9cc...


Antonio, la Roma e la stanza-museo

roma.corriere.it/foto-gallery/cronaca/20_febbraio_02/antonio-roma-stanza-museo-0560ad26-4383-11ea-bdc8-faf1f56f19...


Antonio De Falchi, l’omicidio e la rabbia dei familiari

«Hai una sigaretta?» Antonio De Falchi, tifoso giallorosso di 18 anni, fu pestato a calci e pugni all’esterno dello stadio San Siro nella tarda mattinata del 4 giugno 1989, qualche ora prima di Milan-Roma. Chiedendogli una sigaretta, gli ultrà della Fossa dei leoni rossoneri lo riconobbero dall’accento. Gli amici di Antonio riuscirono a scappare, lui fu circondato e colpito ripetutamente, fino a crollare sull’asfalto, cianotico. De Falchi arrivò morto in ospedale. Nel giro di pochi giorni scattarono tre arresti, ma il processo si concluse con condanne e pene ridotte: sette anni per omicidio preterintenzionale a uno degli aggressori, assolti gli altri due per insufficienza di prove. La rabbia di mamma Esperia (morta nel 2019) e dei fratelli: «Giustizia negata». | Fabrizio Peronaci - CorriereTv




video.corriere.it/antonio-de-falchi-l-omicidio-rabbia-familiari/facc1d94-4343-11ea-bdc8-faf1...


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Bello speciale, è una delle puntate della serie "Che fine hanno fatto" sul sito del Corriere.

Impressionante la foto all'obitorio. [SM=g27992]
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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