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Questo è il famoso "Processo di Pace israelo-palestinese"...

Ultimo Aggiornamento: 11/09/2014 11:00
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10/02/2011 16:43
 
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non so quanto questa sconvolgente notizia (sconvolgente fino a un certo punto, almeno per chi ne sa poco) sia assurta e con che volume, alle cronache recenti.
e c'è chi dice che Israele non è protetto...
sono stati da poco pubblicati da Al Jazeera e dal Guardian i cosidetti Palestine papers, che rivelano tutte le storture e i rapporti sbilanciati nelle forze in campo.
rivelano in pratica, a tutti coloro i cui timpani sono stati neglia nni tarlati dalla frase "processo di pace" "processo di pace" "processo di pace", che alla collanina delle prese per il culo della vita, possono infilare anche questa perla.


Le verità dei palestinesi
Seumas Milne e Ian Black, The Guardian, Gran Bretagna

I Palestine papers pubblicati da Al Jazeera e dal Guardian sono destinati a cambiare per
sempre il processo di pace in Medio Oriente

La più grande fuga di documenti riservati nella storia del conflitto in Medio Oriente ha rivelato che i negoziatori palestinesi hanno accettato in segreto l’annessione da parte di Israele di tutti gli insediamenti costruiti illegalmente a Gerusalemme Est, tranne uno. Questa concessione senza precedenti è solo una delle tante destinate a causare sconcerto tra i palestinesi e, più in generale, nel mondo arabo.
Al Jazeera è entrata in possesso di migliaia di documenti segreti palestinesi, che coprono più di dieci anni di negoziati con Israele e con gli Stati Uniti, e li ha condivisi in esclusiva con il Guardian. Queste carte offrono un punto di vista straordinario sulla progressiva disintegrazione di un processo di pace ventennale, che molti ritengono ormai morto e sepolto.
Le rivelazioni toccano varie questioni: la portata delle concessioni fatte in segreto dai negoziatori palestinesi sul delicatissimo nodo del diritto al ritorno dei profughi; il trasferimento di alcuni cittadini arabi nel nuovo stato palestinese richiesto in segreto dai leader israeliani; la stretta collaborazione tra le forze di sicurezza israeliane e l’Autorità
Palestinese; il ruolo centrale dei servizi di intelligence britannici nel mettere a punto un piano segreto per sconfiggere Hamas nei Territori occupati; il fatto che i leader dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) erano stati avvisati in segreto dell’invasione israeliana di Gaza a cavallo tra il 2008 e il 2009.
Oltre all’annessione di tutti gli insediamenti di Gerusalemme Est, tranne quello di Har Homa, i documenti palestinesi svelano che i leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) hanno segretamente suggerito lo scambio tra il quartiere arabo di Sheikh Jarrah, nell’infiammata Gerusalemme Est, e altre terre. E ancora più discutibile è la proposta, avanzata dagli stessi leader dell’Olp, di istituire una commissione congiunta per il controllo dei luoghi
sacri della Spianata delle moschee (il Monte del tempio per gli israeliani) nella città vecchia di Gerusalemme. Fu proprio
questo il nodo cruciale che determinò il fallimento dei negoziati di Camp David nel 2000.
Queste proposte risalgono a un periodo compreso tra il 2008 e il 2009, dopo la conferenza di Annapolis del 2007, promossa dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush. Secondo le dichiarazioni confidenziali di uno dei più importanti negoziatori palestinesi, Saeb Erekat, si trattava di dare a Israele “la più grande Yerushalayim (il nome
ebraico di Gerusalemme) della storia” per risolvere il più complicato conflitto del mondo. I leader israeliani, sostenuti dal governo statunitense, considerarono l’offerta inadeguata.

Contenuti affidabili
Gli sforzi dell’amministrazione Obama per riaprire il dialogo sono falliti a causa del rifiuto israeliano di estendere la moratoria sulla costruzione di nuovi insediamenti. Le prospettive sono ora incerte, segnate dalla convinzione sempre più forte che una soluzione al conlitto è sempre più lontana, e dai timori di una nuova guerra.
Gran parte dei 1.600 documenti che compongono i Palestine papers sono stati redatti da funzionari dell’Anp e da avvocati al servizio dell’unità di supporto ai negoziati dell’Olp finanziata dalla Gran Bretagna. I documenti comprendono i verbali degli incontri privati e il loro contenuto è stato confermato da persone che erano coinvolte nei negoziati, da fonti di intelligence e diplomatiche.
Per questo, i resoconti dei funzionari israeliani potrebbero mostrare delle discrepanze rispetto a quelli palestinesi.
Nel 2008 i leader palestinesi concessero a Israele l’annessione degli insediamenti di Gerusalemme Est, compreso quello di Gilo.
Questa colonia ha fatto molto discutere negli ultimi tempi dopo che Israele ha dato il via libera alla costruzione di 1.400 nuove abitazioni. Secondo il diritto internazionale,tutti gli insediamenti costruiti sui Territori occupati da Israele durante la guerra del 1967 sono illegali, ma quelli di Gerusalemme sono spesso descritti e considerati da Israele come “quartieri” della municipalità.
I governi israeliani hanno sempre cercato di ottenere l’annessione degli insediamenti più grandi in un eventuale accordo di pace, e nel 2000 a Camp David ci erano quasi riusciti.
Nel 2008 Erekat fece notare ai leader israeliani che era “la prima volta nella storia israelo-palestinese in cui veniva fatta
una proposta del genere”. L’oferta, però, fu respinta perché non includeva un vasto insediamento vicino alla città di Ma’aleh Adumim né Har Homa né molti altri in Cisgiordania, compreso quello di Ariel.
“Questa proposta non ci piace, perché non corrisponde alle nostre richieste”, rispose ai palestinesi l’allora ministra degli esteri Tzipi Livni. “Immagino che non sia stato facile per voi arrivarci, lo apprezzo comunque molto”.
I Palestine papers, che coprono un periodo di tempo che va dal 1999 al 2010, restituiscono nel complesso un’impressione di debolezza e disperazione crescente tra i leader dell’Anp, preoccupati che l’incapacità di raggiungere un accordo facesse vacillare la loro credibilità nei confronti dei rivali di Hamas. D’altro canto, i documenti rivelano la grande fiducia in sé dei negoziatori israeliani e l’atteggiamento spesso troppo frettoloso con cui i politici statunitensi
hanno liquidato i rappresentanti palestinesi.
Dopo la pubblicazione dei Palestine papers, Erekat ha dichiarato che i verbali degli incontri sono solo “un mucchio di bugie e mezze verità”. Secondo il capo dei negoziatori palestinesi Abu Ala “molte parti dei documenti sono state inventate per gettare discredito sulla leadership palestinese”.
Tuttavia, l’ex incaricata palestinese per i negoziati Diana Buttu ha chiesto le dimissioni di Erekat in seguito alle rivelazioni: “Saeb deve fare un passo indietro, altrimenti sarà evidente quanto distanti e poco
rappresentativi siano i negoziatori”.
I funzionari palestinesi e israeliani si difendono sottolineando che ogni presa di posizione durante i negoziati deve sottostare al principio del “niente è deciso finché non si è d’accordo su tutto” e che nessuna concessione può essere ritenuta valida in assenza di un accordo globale.


Un partner per il dialogo
Aluf Benn, Ha’aretz, Israele
I Palestine papers offrono uno sguardo nuovo sul modo in cui sono stati condotti i negoziati israelo-palestinesi. Questi documenti mostrano che, contrariamente all’opinione diffusa tra gli israeliani di non avere una controparte con cui discutere, i palestinesi stavano negoziando seriamente sui confini del loro futuro stato: hanno prodotto una mappa dettagliata dei territori che erano disposti a scambiare in Cisgiordania e un’altra con i quartieri di Gerusalemme est che erano disposti a cedere.
Tuttavia, i Palestine papers mostrano anche perché non è stato raggiunto nessun accordo e perché è improbabile che succeda in futuro: ci sono forti divergenze sul destino dei grandi insediamenti israeliani.
nel corso degli anni i leader di Tel Aviv hanno più volte ribadito che Ma’aleh Adumim, Gush etzion, Ariel e la zona intorno a Gerusalemme diventeranno parte del territorio di Israele. e la destra e la sinistra israeliane continuano a discutere del destino di un centinaio di insediamenti che si trovano oltre il muro di separazione con la Cisgiordania. le proposte di olmert e dell’ex ministra degli esteri Tzipi livni non erano minimamente accettabili per i palestinesi.
Probabilmente il primo ministro israeliano Benjamin netanyahu si sta godendo l’imbarazzo causato ai suoi due avversari, livni e Abu Mazen.
Ma quando l’oltraggio iniziale comincerà a svanire, i palestinesi potranno usare i documenti ottenuti da
Al Jazeera per raforzare le loro critiche a Israele. Guardate, diranno, abbiamo preparato una mappa e accettato di rinunciare al diritto al ritorno, ma non abbiamo ottenuto niente in cambio.


Come si comportano i protagonisti
Rami Khouri, The Daily Star, Libano
Di fronte alle richieste impossibili di Tel Aviv, i palestinesi hanno scelto una linea ragionevole. Ma fanno troppe concessioni e rischiano di tradire i loro princìpi
I Palestine papers chiariscono molti aspetti chiave dei lunghi negoziati israelo-palestinesi. leggere l’intero archivio formato da oltre 1.600 documenti fornisce un’utile panoramica e vari elementi di giudizio sui tre principali attori del processo: l’Autorità nazionale Palestinese, il governo israeliano e i funzionari statunitensi.
I documenti fanno luce sulle posizioni assunte dalle parti, sulle loro oferte, le concessioni fatte, le proposte respinte e i princìpi che le guidavano, insieme alle posizioni dei mediatori statunitensi su questioni chiave, che possono essere riassunte in questi termini: terra, conini, sicurezza, insediamenti, acqua, Gerusalemme e profughi.
I Palestine papers mettono in evidenza che gli israeliani sono ossessionati da tre dimensioni del loro stato e del loro popolo, che si traducono in richieste probabilmente impossibili da esaudire. Queste sono: 1) l’afermazione dell’identità “ebraica” dello stato israe liano, con implicazioni negative per i palestinesi che vivono in Israele e per i
milioni di profughi; 2) la richiesta di una “sicurezza” assoluta, a priori ed eterna, per gli ebrei di Israele e per chi vive negli insediamenti sotto la giurisdizione del futuro stato palestinese; 3) il riiuto intransigente di riconoscere ogni responsabilità verso i profughi che hanno abbandonato la Palestina nel 1947-1948.
Israele riconosce le “aspirazioni” e i “sogni” palestinesi, ma non i “diritti”. È disposto a riconoscere le “soferenze” dei profughi e il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, ma non il loro diritto a tornare nelle loro case. I palestinesi respingono queste richieste israeliane. Però, non avendo il potere per ammorbidirle, scelgono una linea negoziale ragionevole: 1) i conini del 1967 sono il punto di partenza per i colloqui; 2) gli
scambi territoriali con Israele devono avvenire con un rapporto di uno a uno; 3) le colonie israeliane sono illegali; 4) i profughi hanno diritto al ritorno. Tuttavia fanno continuamente concessioni che sembrano diluire o addirittura negare questi princìpi, come accordare il controllo israeliano sulle parti di Gerusalemme che in precedenza erano arabe. Alcune dichiarazioni dei negoziatori palestinesi sono già state interpretate come un grave tradimento del diritto dei profughi al ritorno, agli indennizzi e ad altri modi di mettere ine alla loro condizione di rifugiati. Il problema principale è l’ambiguità
ricorrente, che dà l’impressione che il diritto al ritorno dei profughi palestinesi sia “una carta” da giocare per contrattare su altri punti, o che ai profughi non sarà consentito esprimere il loro giudizio attraverso un referendum. La leadership palestinese dovrebbe subito chiarire pubblicamente il contenuto delle conversazioni private con i funzionari israeliani e statunitensi.

Mediatori incapaci
Quanto a Washington, i suoi funzionari appaiono come mediatori incapaci e poco propensi a sfidare le posizioni israeliane sulle questioni chiave. Gli Stati Uniti sembrano spesso il messaggero del governo israeliano e della lobby iloisraeliana negli Stati Uniti, invece di presentarsi come mediatori imparziali. Sembrano operare partendo dal presupposto che sono la politica interna israeliana e statunitense a deinire il modo di risolvere il conlitto, invece di fare
riferimento al diritto internazionale, ai princìpi basilari di etica e giustizia o alla semplice decenza.
Inine, dai documenti si ricava l’impressione che gli israeliani non siano davvero interessati a negoziare una pace che si avvicini a quella considerata giusta dalla comunità internazionale. I palestinesi sono seri nel volere l’accordo per una soluzione a due stati, ma incapaci di mobilitare la forza diplomatica in grado di smuovere gli israeliani.
Gli Stati Uniti comprendono l’importanza strategica di raggiungere un accordo permanente, ma non hanno la capacità o la volontà politica di far cambiare posizione a uno qualsiasi dei giocatori chiave.


Karma Nabulsi, The Guardian, Gran Bretagna
Karma Nabulsi insegna scienze politiche all’università di Oxford, in Gran Bretagna.
Dal 1977 al 1990 è stata una funzionariadell’Olp.

Se teniamo conto della natura, della portata e di quanto sono dettagliate le sconcertanti rivelazioni sul processo di pace in Medio Oriente, possiamo concludere che questo gioco sporco e apparentemente infinito è terminato una volta per tutte. Nessuno dei protagonisti palestinesi di questa storia ne uscirà incolume. Il piccolo gruppo di uomini che
ha inquinato la sfera pubblica palestinese con i suoi interessi privati è stato smascherato.
Molti palestinesi non si sono stupiti dei resoconti sulla rinuncia a tutti i loro diritti fondamentali riconosciuti a livello internazionale (il diritto al ritorno di milioni di profughi palestinesi, l’annessione della parte araba di Gerusalemme, l’illegalità delle colonie israeliane). È una resa che conosciamo bene – nonostante ufficialmente si affermi
il contrario – perché ne constatiamo ogni giorno gli effetti distruttivi. Lo stesso vale per il ruolo scandaloso giocato dagli
Stati Uniti e dalla Gran Bretagna nella creazione di un bantustan di massima sicurezza e nella progressiva rovina della nostra sfera civile e politica.
Per la grande maggioranza dei palestinesi, la politica ufficiale degli ultimi decenni è stata l’antitesi di una strategia legittima, rappresentativa e coerente per conquistare le libertà che ci vengono negate. Ma la presa di coscienza della situazione in cui viviamo, le manifestazioni e le campagne di protesta dei cittadini non sono bastate a scardinare
quella politica. La pubblicazione di questi documenti è un evento epocale perché distrugge le ultime tracce di credibilità del processo di pace. I funzionari coinvolti hanno fatto il doppio gioco con i palestinesi: ci hanno tradito, mentito e spogliato dei nostri diritti fondamentali, sostenendo allo stesso tempo di meritare la nostra fiducia.
L’idea che agissero in buona fede è stata completamente distrutta dalla pubblicazione dei Palestine papers.
I documenti fanno luce anche sulla prevaricazione antidemocratica, autoritaria e coloniale esercitata sui palestinesi dagli
Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dagli altri governi occidentali attraverso gli alti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Lo strapotere statunitense è evidente in ogni singolo documento. Da queste carte risulta anche il totale fallimento della politica mediorientale di Washington, che ha portato i palestinesi alla rovina e ha creato un Israele sempre più aggressivo, imprevedibile e senza freni, sul piede di guerra e intento a sottomettere i palestinesi a una forma di apartheid. Questo squilibrio di poteri può essere affrontato con successo solo come ha fatto in passato ogni movimento di liberazione nazionale: con la forza inattaccabile di un mandato popolare. Se un giorno questi accordi fossero stati ufficializzati, i palestinesi li avrebbero respinti in toto.

I giovani traditi
Forse il tradimento peggiore è stato nei confronti dei giovani. I funzionari dell’élite li hanno portato a credere che fare politica sia una cosa spregevole ed egoistica, e che entrare in un partito sia il modo meno utile per sostenere dei princìpi e cambiare le cose.
L’opinione, sempre più diffusa, che la rivoluzione palestinese sia stata un fallimento in dall’inizio è falsa, ma ha acquisito credibilità per colpa di questo governo. Il suo comportamento ha praticamente cancellato ogni traccia del contributo di decine di migliaia di palestinesi che hanno combattuto per i loro princìpi e hanno creato un’autorappresentanza
reale e democratica in condizioni molto difficili.


I Palestine papers non sono una novità
Amira Hass è una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, scrive per il quotidiano israeliano Ha’aretz

Per i lettori e i telespettatori stranieri, abituati dai mezzi d’informazione a pensare ai negoziati come a un “processo di pace” andato a monte chissà perché, le rivelazioni dei Palestine papers sono forse state clamorose.
Viste da qui, cioè dalla Cisgiordania occupata, non fanno lo stesso effetto.
A metà del lontano 1997 rimasi bloccata al check point di Erez, l’ingresso nord nella striscia di Gaza, chiuso per ore ai visitatori. Non lontano, sul versante palestinese, la segretaria di stato americana Madeleine Albright partecipava
a un incontro con alti dirigenti palestinesi e israeliani. In quel momento un centinaio di genitori e igli di detenuti
palestinesi tornavano da Israele, dove erano andati a trovare i parenti in prigione.
Si erano svegliati alle 3 del mattino e avevano afrontato un viaggio di ore per poter passare con i loro familiari una
mezz’oretta. Tornati esausti, erano stati costretti a restare chiusi a bordo degli autobus fuori dal check point, sbarrato perché gli alti papaveri erano in riunione. Le ore passavano e la rabbia si accumulava. A un certo punto avvistammo un’auto di lusso che usciva da Gaza. A bordo c’era Abu Ala, uno dei leader di Al Fatah. I parenti dei carcerati circondarono l’auto implorandolo di “fare qualcosa”. Lui non li guardò né disse una parola. In questi ultimi 17 anni di
negoziati diretti tra israeliani e palestinesi, ci sono stati migliaia di episodi del genere. Da cui si potrebbero trarre
varie conclusioni sull’arrendevolezza dei funzionari palestinesi verso i loro interlocutori “superiori” (israeliani
e statunitensi) o sulla stridente contraddizione tra le loro solenni dichiarazioni (per esempio sull’affetto verso i palestinesi incarcerati) e il loro atteggiamento (e la loro indifferenza) reale.
Quella palestinese è una società piccola, dove tutti si conoscono, e nessun segreto rimane tale a lungo. Più ci si avvicina alla cerchia di Al Fatah, più è facile captare impressioni, riflessioni e informazioni che vengono dal suo interno. “Per arrestare quelli di Hamas noi collaboriamo con gli agenti della Cia”, mi ha detto di recente un funzionario dell’intelligence palestinese. Da un esponente di Al Fatah ho saputo che Abu Mazen, presidente dell’Olp e dell’Autorità nazionale palestinese, ha chiesto agli alti dirigenti di Al Fatah di non partecipare ai cortei contro il Muro, per evitare che gli israeliani si vendicassero revocandogli i permessi di viaggio di cui beneficiano in quanto vip. E quando non lo fanno i palestinesi,
sono fonti israeliane a far trapelare alla stampa la stretta collaborazione che c’è tra le forze di sicurezza israeliane e palestinesi.
Perciò i Palestine papers non rivelano molto ai comuni palestinesi. E non dicono tutto quel che c’è da sapere.
Per quanto siano sconvolgenti, le rivelazioni sul fatto che è stata l’Autorità palestinese a chiedere agli israeliani di rafforzare l’assedio su Gaza confermano quello che i comuni mortali di Ramallah sapevano già nell’estate del 2007: erano soprattutto i ministri dell’Anp di Gaza (in esilio a Ramallah) a sperare che Israele tagliasse del tutto l’erogazione di
corrente elettrica alla Striscia. L’indifferenza verso Gaza è un tratto distintivo – e non da oggi – dei leader politici della Cisgiordania.
Quel che invece i documenti mettono in luce è la complicità degli occidentali (cioè di americani e britannici) con la politica
e gli atteggiamenti arroganti di Israele. Basta pensare all’insistenza dei funzionari statunitensi sul fatto che i leader palestinesi devono essere Abbas e Salam Fayad e nessun altro. E questo mi ricorda anche un altro episodio. Nel 1998, in un raro gesto di sida, Yassir Abd Rabbo, capo della delegazione palestinese per i negoziati, chiese una sospensione delle trattative dicendo: non possiamo andare avanti finché gli israeliani continuano a costruire gli insediamenti.
Una o due settimane più tardi le trattative ripresero.
A quanto mi risulta, Albright prese il telefono e ordinò ad Arafat di risedersi al tavolo. Un’altra cosa che questi Palestine papers ci dicono è che i negoziatori palestinesi sono elastici e tenaci: e su questo la contraddizione tra dichiarazioni pubbliche e cose dette a porte chiuse è minima. I dirigenti palestinesi non si sono piegati alla pretesa israeliana di inglobare alcuni insediamenti colossali. Certo, erano disposti a scambiare le colonie nei dintorni di Gerusalemme
con terre disabitate: concessione amara ma in linea con il piano di Clinton del 2000. E anche la loro rinuncia più
grande, quella alla piena applicazione del diritto al ritorno dei profughi, è un segreto di Pulcinella da anni.
“Quando pretendiamo una soluzione a due stati”, mi ha detto anni fa un alto dirigente di Al Fatah, “non intendiamo
mica due stati palestinesi”.
Insomma, queste notizie sui negoziati confermano solo quel che già sappiamo da vent’anni, e cioè che Israele non vuole la pace, ma imporre una resa ai palestinesi.
E l’Autorità nazionale palestinese, malgrado tutti i suoi difetti, non può cedere. Si adatta a uno status quo umiliante (e conveniente per le élite) sperando che la comunità internazionale intervenga per amore della stabilità mondiale. Ma non firma certo una resa.


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