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Misteri d'Italia

Ultimo Aggiornamento: 19/07/2023 13:28
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17/12/2010 02:33
 
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Re: Re:
giove(R), 16/12/2010 23.01:

cos'è che non hai capito Patric?



[SM=g27993] [SM=g27993] [SM=g27993]

...............

[SM=g27987]
vojo dì , non è che io "fischio" sotto quest'aspetto. te dico pure li morti se me fai incazzà, come ben sai per aver assistito... [SM=g27989]

poi probabilmente sei blogger e forumer molto più di me su tante altre cose (e chissà in quante lingue! [SM=g27987] [SM=g27988] ) e non te lo devo insegnare certo io che per robe del genere c'è gente (e l'amministratore con lui) che s'è beccato una denuncia... [SM=g27994]


PS. siccome ce ne ho messe poche de faccine allora [SM=g27988]





sì, vabbe', ma giusto in italia.
una media impressionante di omicidi bianchi, omicidi di mafia, uxoricidi... ma fare i permalosi per parolacce e maledizioni. bah, se veramente si lamenta qualcuno, ti passo il mio indirizzo e lo rigiri alle sedi opportune. per me sarebbe praticamente un vanto essere denunciato per un "reato" del genere.

***********************************************************************

Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.
(Samuel Beckett, Worstward Ho)
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già.. ma infatti mica t'ho detto cotica.
le cose che hai scritto anche io te le posso dire a quattrocchi e metterci pure il carico da 1000 e undici.
però... come dicono benigni e troisi nella lettera a Savonarola: "e pure per te!".

PS. un ragazzetto amministratore di un forum di calcio che aveva anche sezioni off topic ed extracalcistiche in un topic di gossip ha raccontato una ...voce di popolo... un "si dice" a proposito di un personaggio femminile noto di cui si diceva che frequentasse e se la facesse con certe persone, non ti sto a dire...

l'hanno denunciato. poi che sia una denuncia di merda, che ci sono cose più importnati, ecc. non c'è nemmeno bisogno che te lo confermi io.

a posto così. ho fatto il mod, come ruolo imponeva.
ne siamo usciti puliti.
[SM=g27988]


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17/12/2010 16:41
 
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cosa vi ricorda?
Parmalat: storia di un crollo annunciato
L'intreccio politico e finanziario che ha portato al collasso

Marco Vitale, economista d'impresa[...].

Prof. Vitale, può aiutarci a ricostruire la storia di Parmalat?
Quella di Parmalat, soprattutto negli ultimi anni, non è fondamentalmente una storia criminale. E’ la storia di un’impresa nata nel 1962, fondata da un giovane che allora aveva 23-24 anni, con una intuizione imprenditoriale corretta, con una forte determinazione e che ha avuto una sua prima fase di sviluppo sano. Basti pensare che nel 1973 il fatturato era salito a 20 miliardi di lire, diventati 550 nel 1983. A questo punto si innesta da parte di Calisto Tanzi un’ambizione errata, che va al di là del successo aziendale: l’ambizione di contare, di essere importante, di influenzare lo sviluppo del settore in cui opera. È in questo periodo che Tanzi si lega con politici importanti che guardano a questo imprenditore emergente con interesse, come fanno sempre i politici con chi gestisce tanti soldi.

Qual era il quadro politico dell’epoca?
Siamo nella fase in cui la politica italiana è dominata dal socialista Bettino Craxi e da un mondo cattolico emergente che ha come punto di riferimento il giovane Ciriaco De Mita, controbilanciamento di Craxi, alla ricerca di appoggi industriali. Questo connubio, legittimo e comprensibilissimo, porta Tanzi a sviluppare una grande ambizione, e a cercare un’espansione sconsiderata, su basi finanziarie estremamente fragili. Il latte è un prodotto dal basso margine e col latte puoi fare certe cose e non altre. Tanzi, essendo consapevole di questo, in quel periodo si lancia in una grande politica di sponsorizzazioni, altra innovazione nel settore. Mai nessun produttore di commodity si era impegnato con queste grandi campagne che coinvolgono nomi dello sport come Ingemar Stenmark, Gustav Thoeni, Nelson Piquet, Niki Lauda. Nel contempo cerca quindi di costruire un marchio, e in gran parte ci riesce. Poi individua filoni di sviluppo nuovi, non solo quello del latte. In particolare lo yogurt, i succhi di frutta (compra la Santàl), le merendine (acquista Mr.Day). Queste acquisizioni vengono fatti tutti a debito, perché è un imprenditore che piace, che dà affidamento, ma soprattutto perchè è amico di De Mita, di Giulio Andreotti, dei grandi banchieri cattolici (da Ferdinando Ventriglia del Banco di Napoli a Gianni Zandano del S.Paolo, a Piero Barucci del Monte Paschi), che allora dominano il sistema bancario e sono molto legati al potere economico.

Quale fu il punto di svolta?
Una prima crisi si verificò già nel 1987-88. Allora la situazione della Parmalat era nota a tutti, anche ai grandi concorrenti. Infatti è in quegli anni che l'olandese Kraft offre di rilevare tutto per una cifra tra i 700 e gli 800 miliardi di lire. Da un punto di vista puramente economico e finanziario, quella era una soluzione fantastica per Tanzi: avrebbe risolto i suoi guai, l’impresa si sarebbe consolidata, ne sarebbe uscito con 700 miliardi di lire con cui potersi cimentare in altre attività. Però lui non volle perché, perdendo Parmalat, avrebbe perso il proprio obiettivo imprenditoriale, il potere, l’immagine di un imprenditore forte, emergente, importante. Quindi venne malconsigliato dagli amici politici che lo incitarono a mantenersi autonomo, assicurandogli appoggi finanziari (il loro interesse è chiaro: con Kraft non avrebbero potuto continuare ad andare a Roma in aereo). Tanzi quindi restò. E con lui lo squilibrio finanziario della sua azienda. A quel punto si verificò un’operazione molto ambigua che fa capo ad una piccola finanziaria toscana, di un tale Giuseppe Gennari, che godeva dell'appoggio del governatore del Monte Paschi, Carlo Zini, e di Lo Bianco, presidente della Federconsorzi, all’epoca un ente di grande peso. Seguendo un primo binario, Gennari si introdusse con molta forza in Parmalat, fino a contando talmente tanto che Tanzi sembrava messo da parte. La sua forza era l’importante dote finanziaria fornita dal Monte dei Paschi di Siena. Su un secondo fronte c’era un progetto denominato “Aquila”, studiato sempre da Federconsorzi e Montepaschi, per creare un polo di imprese agroalimentari e di banche particolarmente attente al mondo agricolo. La capofila era la Banca Nazionale dell’Agricoltura, posseduta al 13% da Federconsorzi, proprietaria di una serie di aziende importanti, per lo meno di nome, come la Polenghi Lombardo. Parmalat era un soggetto ideale per diventare perno di questo disegno.

Come mai questa iniziativa non ebbe successo?
Questo disegno venne spazzato via dall’implosione di Federconsorzi che, sulla base di un mismanagement lungo decenni, sempre nascosto attraverso il potere e la finanza bancaria, causò una crisi irreversibile che condusse allo scioglimento del gruppo. Nel contempo il potente governatore del Mps dovette fronteggiare problemi di natura giudiziaria, e fu costretto a lasciare la banca. I salvatori dovevano essere salvati: Tanzi era di nuovo nei guai, molto seriamente. In quel periodo io ero presidente di una merchant bank. Ci fu chiesto di intervenire. Io vidi il dossier su Parmalat. Ci rifiutammo di entrare per due motivi: secondo noi lo sviluppo finanziario era talmente grande da non poter più essere curato con metodi normali. Le persone con cui ci eravamo incontrati trasmettevano un senso di oscurità, di ambiguità, di non trasparenza. Avevamo la sensazione che le cifre fossero truccate. In me e nel consigliere delegato della merchant bank, Giorgio Cirla, sorse un grande sentimento di diffidenza. E credo che questo non fosse solo una questione personale. Infatti Tonna nelle sue deposizioni, che la manipolazione dei dati iniziò proprio in quegli anni, a cavallo tra il 1988 e il 1989. Già allora chi voleva, poteva capire. Si decise di portare Parmalat in Borsa, come soluzione di tutti i problemi, un’idea molto pericolosa: andare in Borsa quando un'azienda ha problemi. A quel punto entrò un banchiere d’affari, Gianmario Roveraro, all’epoca presidente della Banca Akros, da lui stesso fondata. Roveraro era ed è una persona di grande capacità, competenza e correttezza. Egli, mostrando quella pazienza che noi non avevamo avuto e senza farsi spaventare dagli atteggiamenti di oscurità, costruì pazientemente uno schema di salvataggio, accompagnò la società in Borsa, riuscì a convincere a tagliare dei rami secchi e a ricercare un equilibrio interno più serio. Restò per un paio d’anni anche nel consiglio d’amministrazione per vigilare che questa linea di nuova serietà venisse preservata.

Cosa avvenne in seguito?
La presenza di Roveraro si diluì e l’azienda venne risucchiata. Tanzi perseguì di nuovo una linea d’espansione dissennata, tornando a puntare tutto sul debito, sull'appoggio dei banchieri, sugli amici della politica. Nel frattempo, la Sme decise di privatizzare le sue aziende alimentari, che comprendevano Cirio, Bertolli ed altri marchi noti. Si scatenò una corsa alla loro acquisizione e apparve Sergio Cragnotti, appena uscito da un’avventura con Raul Gardini in Enimont. Con questi soldi fondò la Cragnotti & Partners, trovò l'appoggio di banche e gruppi finanziari importanti, ed acquisì queste aziende del settore alimentare. Il suo grande referente era Cesare Geronzi, consigliere delegato del Banco di Roma. E’ sotto la sua regia che Cragnotti acquistò Cirio, la Centrale del Latte di Roma, ottima azienda, e altre realtà imprenditoriali. Sempre sotto la sua regia si incontrarono per la prima volta Cragnotti e Tanzi, che sotto la guida di questo spericolato banchiere, cominciò ad accumulare sempre maggiori debiti. Da notare che Geronzi era creditore della Federconsorzi, partner della Cragnotti e Partners, creditore della Cirio: un intreccio di interessi che impedisce di agire con la necessaria oggettività, lucidità e imparzialità. E’ qui che ci sono gli sbagli e le omissioni della Banca d’Italia, non dopo.

A cosa si riferisce?
I veri errori della Banca d'Italia si verificano a questo punto della vicenda: aver permesso la crescita di questi nodi di conflitti d’interesse e di poteri strampalati, come per esempio essere banchiere ed essere anche partner della Cragnotti & Partners. Cragnotti acquistò la Cirio per 26 miliardi con una base d’asta di 106 miliardi e dopo alcuni anni Tanzi, per permettere a Cragnotti di rientrare verso un’esposizione che aveva soprattutto verso Banco di Roma, venne convinto e finanziato - oggi dice «forzato» - ad acquistare il polo del latte fresco che faceva capo alla Cirio, composto da Polenghi Lombardo, dalla centrale del latte di Roma e da qualche altra cosa. Un polo che Tanzi comprò ad un prezzo altissimo, sotto la regia di Geronzi, per oltre 700 miliardi. Sempre sotto la regia di Geronzi, Tanzi venne forzato - io dico guidato - ad acquistare le acque minerali di Giuseppe Ciarrapico, perchè anche lui doveva rientrare dai suoi debiti. Questa non è attività da banchieri: è la filosofia delle tre tavolette. Questo comportamento spinse Tanzi nel cosiddetto “schema Ponzi”: pagare i debiti contraendo altri debiti, ogni volta con interessi crescenti, restando intrappolati in una spirale perversa. Questo è lo schema mortale in cui Parmalat è rimasta intrappolata.

Qual è il ruolo delle banche in tutto questo?
Per istituti bancari di livello internazionale come Citicorp, Deutsche Bank, Jp Morgan, Parmalat era attraente perché pagava commissioni mostruose. Quando le banche non gli davano più credito si offrivano emissioni obbligazionarie nei posti più disparati del mondo. Questa è stata l’impiccagione finale di Tanzi. Queste banche hanno una responsabilità altissima: l’accusa è quella di non aver fatto seriamente il loro mestiere di banchieri. Basti un esempio: nel solo 1998, Parmalat ha acquisito la bellezza di 15 aziende all’estero. Acquisire un’azienda richiede lunghi tempi di adattamento delle organizzazioni, degli uomini, delle procedure. Figuriamoci quindici! La prova che le banche conoscevano l'entità del dissesto di Parmalat è che tutta l’industria dei fondi italiani, che è un’industria sana, aveva investito in azioni e obbligazioni Parmalat, la più grande azienda alimentare italiana, soltanto lo 0,11% del proprio patrimonio. Questo dato è già di per sé un giudizio negativo. Un ulteriore riprova è che Assogestioni è l’unico organismo che ha scritto una lettera a Tanzi, sottolineando la necessità di una maggior trasparenza nella contabilità e nelle procedure, data la quotazione in Borsa.

Le banche hanno cercato di giustificarsi in qualche modo. La loro difesa è credibile?
Arroccarsi dietro la posizione della Banca d'Italia, dell'Abi, e delle principali banche italiane è una colossale falsità che impedisce al sistema di migliorare. Oggi le banca operano in modo troppo meccanico: si bada alla cassa senza andar troppo per il sottile nell'analisi dei bilanci. L’unica parziale autocritica è stata mossa da Corrado Passera di Banca Intesa che ha ammesso che il sitema bancario poteva fare molto di più. E’ impossibile che un gruppo di queste dimensioni facesse un botto del genere senza che si sapesse. La verità è che tutti mangiavano su Tanzi: i banchieri, i politici, la città di Parma. Quella di Parmalat è la storia di un collasso annunciato. E’ dall’89 che il destino dell'azienda era segnato. Il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio ha detto: «Noi non siamo responsabili delle scelte delle singole banche. La nostra responsabilità è controllare che il sistema sia solido». Ha ragione. Ma la Banca d’Italia è responsabile della solidità del sistema, un valore che su difende innanzitutto attraverso la tutela della fiducia del risparmiatore. Se un governatore non interviene in un’operazione come quella Parmalat non fa il suo dovere. In questo momento il totale dei rimborsi che le aziende fanno in Italia è maggiore del totale delle emissioni. Vuol dire che il sistema economico italiano è fermo e senza linfa. [...]





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21/12/2010 14:54
 
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Metro B, bomba in un vagone
Atac: verifiche in corso. Isolata l'area


L'ordigno rudimentale è stato trovato da un macchinista dell'azienda di trasporti in un convoglio che stava per partire. L'area è stata messa in sicurezza. Il sindaco Alemanno: "Poteva esplodere"

Ritrovato un ordigno esplosivo sulla linea B della metropolitana, alla stazione di Rebibbia. Alle ore 9.50 circa un macchinista dell'Atac ha trovato un oggetto sospetto all'interno del primo vagone di un convoglio fermo su un binario al capolinea. La busta di plastica era stata lasciata sotto un sedile, al suo interno una scatola, con due tubi, polvere pirica, fili elettrici e un comando per farla esplodere a distanza. L'ordigno rudimentale, del tipo 'Pipe', è stato subito disinnescato dagli artificieri dei carabinieri. Il punto sul quale è stato visto l'esplosivo è un "binario tronchino", che si trova nell'area in cui vengono effettuate le manovre dei treni. Al vaglio i filmati delle telecamere di sorveglianza.

Sono state immediatamente allertate le forze dell'ordine e i vigili del fuoco, che, intervenuti sul posto, hanno provveduto ad isolare l'area procedendo poi alla constatazione della potenzialità esplosiva dell'ordigno.

Poco dopo la diffusione della notizia il sindaco di Roma, Gianni Alemanno ha dichiarato: "Una bomba atta a esplodere. Ma al momento la situazione è stata ristabilita ed è sotto controllo".

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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28/12/2010 12:06
 
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Ganzer d'accordo con i trafficanti"

Le motivazioni della condanna
a 14 anni per il comandante
del Ros: «Ha tradito lo Stato»


ROMA
"Il generale Gianpaolo Ganzer non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l'assoluta impunità. Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge". Con queste parole i giudici del Tribunale spiegano perchè il 12 luglio scorso condannarono il capo del Ros dei carabinieri Gianpaolo Ganzer a 14 anni di reclusione per traffico internazionale di droga in riferimento a operazioni sotto copertura.

In 1159 pagine i giudici dell'ottava sezione penale spiegano anche perchè non ha retto l'accusa legata al reato associativo. Ganzer infatti ha avuto una pena severa ma più bassa di quella chiesta dal pm, 27 anni di carcere. Con Ganzer era stato condannato a 7 anni e sei mesi anche Mauro Obinu, ex colonnello del Ros e attuale alto dirigente dei servizi segreti, oltre a diversi ex appartenenti all'Arma. Tra il 1991 e il 1997, il metodo targato Ros sarebbe stato quello "di creare traffico di droga prima al fine di reprimerlo usando a tal fine le conoscenze investigative, strumentalizzando le risorse dell' Arma, inducendo a importare droga trafficanti-fonti poi non perseguiti e arricchitisi con i soldi versati dagli acquirenti e mai sequestrati, e arrestando persone di sicuro interessate al narcotraffico ma ad esso istigati dai militari e dalle loro fonti".

"Il generale Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per se stesso e per il suo reparto" aggiungono i giudici del Tribunale di Milano.

"Le attenuanti generiche, quindi, non possono essere riconosciute a Ganzer non solo per l'estrema gravità dei fatti, avendo consentito che numerosi trafficanti - primo fra tutti Bou Chaaya - fossero messi in condizioni di vendere la droga in Italia con la collaborazione dei militari e intascarne i proventi, con la garanzia dell'assoluta impunità, ma anche per la preoccupante personalità dell'imputato, capace di commettere anche gravissimi reati per raggiungere gli obiettivi ai quali è spinto dalla sua smisurata ambizione" fa osservare il collegio, secondo il quale "pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta negli anni in questione Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale; che veniva sistematicamente non messo al corrente di fatti rilevanti e ingannato dai suoi collaboratori, nessuno dei quali gli avrebbe parlato, per esempio, della consegna di oltre un miliardo e mezzo di lire a José-Berrocal; che non chiedeva spiegazioni e non sentiva il dovere di controllare l'operato dei militari che da lui dipendevano".

"Non si ravvisa negli imputati l'intento di partecipare in modo stabile e permanente ad un programma comprendente la realizzazione di una serie indeterminata di reati, ma soltanto l'intenzione di eseguire alcune operazioni che, da una parte, avrebbero consentito di individuare e arrestare - seppure con metodi illegali - pericolosi trafficanti di sostanze stupefacenti, disposti ad acquistare ingenti quantitativi di dette sostanze, e, dall'altra, di dare lustro, davanti ai propri superiori e all'opinione pubblica, al corpo di appartenenza" sono le parole con cui giudici del Tribunale di Milano spiegano perchè Ganzer e gli altri imputati tra i quali i narcotrafficanti sono stati assolti dal reato di associazione per delinquere. "Non vi è stata neanche una suddivisione dei ruoli tra gli imputati, diversa da quella esistente nell'ambito militare e in qualche modo funzionale alla commissione dei delitti di cui trattasi, e pertanto neppure sotto questo aspetto può dirsi che gli imputati abbiano costituito una autonoma struttura funzionale all'attuazione di un programma criminoso - scrivono i giudici - Ritiene il Tribunale che l'esistenza di reiterate deviazioni nell'ambito del ROS, ad opera di appartenenti al suddetto Raggruppamento e nei termini sopra sintetizzati, non sia sufficiente ad integrare il delitto, in mancanza di un vincolo stabile tra gli imputati e della creazione da parte degli stessi di una seppur minima struttura finalizzata al raggiungimento di fini illeciti e criminosi".

Conclude il collegio: "Si deve osservare, con riguardo alla esistenza di una struttura dell'associazione, che essa non può essere identificata nella stessa struttura del Raggruppamento Operativo Speciale, poiché questa non solo era stata creata, indipendentemente dalla volontà degli imputati, per il perseguimento di fini ovviamente leciti, ma era anche normalmente utilizzata dagli stessi imputati per lo svolgimento dei normali e regolari compiti d'istituto".

Sul "metodo Ros" e le operazioni sottocoperura è in corso il processo stralcio a Mario Conte, magistrato ex pm a Bergamo, la cui posizione era stata separata da quella degli altri imputati a causa di problemi di salute.

Sull'intera vicenda potrebbe pesare soprattutto in vista del processo d'Appello una modifica delle norme che regolano le operazioni sottocopertura approvata dal parlamento nell'agosto scorso appena un mese dopo le condanne di primo grado. Qualcuno aveva parlato di "legge salva Ganzer".
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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30/12/2010 20:09
 
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Battisti, parere negativo dell'avvocatura di stato brasiliana contro estradizione

Torna ad essere un caso politico la storia di Cesare Battisti, l'ex terrorista che sta per ricevere dal Brasile asilo politico. Mentre nel nostro Paese infuria la polemica, fonti del governo brasiliano fanno sapere che l'avvocatura dello Stato presenterà al presidente Luis Inacio Lula da Silva un parere contrario all'estradizione in Italia. Da noi Palazzo Chigi - attraverso una smentita al quotidiano Il Riformista - fa sapere che il premier Silvio Berlusconi non ha "mai mostrato sottovalutazione per la vicenda dell'estradizione, richiamando invece costantemente la linea perseguita dall'Italia a ogni livello perché Battisti venga riconsegnato alla giustizia italiana". "L'ultimo atto ufficiale di una lunga serie in questo senso - si legge ancora nella nota - è stata la convocazione, il 21 dicembre scorso a Palazzo Chigi, dell'ambasciatore del Brasile a Eoma, José Viegas Filho, da parte del sottosegretario Letta". In serata, dopo una serie di comunicati dello stesso tenore diffusi da vari ministeri, ne arriva un altro della presidenza del Consiglio in cui si afferma che sarebbe "incomprensibile e inaccettabile" se l'eventuale no fosse motivato con il peggioramento delle condizioni di Battisti in caso di detenzione in Italia.


Gli altri latitanti degli anni di piombo

Ormai non li cercano più quei settantasei terroristi ancora latitanti inseguiti da condanne definitive mai eseguite. È inutile darsi da fare, dicono all´Antiterrorismo, per stanarli, perché intanto i Paesi che li ospitano non li estradano in Italia. Il caso di Cesare Battisti è solo l´ultimo di una serie di no all´estradizione giunti da Stati di mezzo mondo, dalla Francia di Sarkozy al Nicaragua, dal Giappone all´Argentina alla Spagna. E ora anche dal Brasile di Lula che già ospita da anni come "rifugiato politico" Achille Lollo, accusato del rogo di Primavalle dove morirono arsi vivi i fratelli Mattei.
Quella di Battisti è l´ultima prova che i canali diplomatici, in azione quando parte una richiesta di estradizione, ormai non funzionano più per riportare in Italia quel drappello di 20-30 terroristi che durante gli Anni di Piombo si sono macchiati di reati di sangue. Ecco perché oggi s´è gettata la spugna all´Antiterrorismo e la caccia ai ricercati degli Anni di Piombo s´è praticamente conclusa.

Perché - è il ragionamento degli inquirenti - investire risorse ingenti per delicate indagini internazionali quando fin dall´inizio si sa che si andrà incontro a un fallimento? Per gli altri latitanti di ruolo gregario s´è già rinunciato da tempo a riportarli in Italia perché i loro reati, per così dire minori, sono andati in prescrizione.
La stragrande maggioranza dei terroristi riparati all´estero sono ex militanti brigatisi, ma fra loro ci sono pure esponenti del terrorismo nero come Delfo Zorzi, di Ordine Nuovo, processato e poi assolto per la strage di Piazza Fontana. Ora vive in Giappone, fa l´imprenditore, ha ottenuto là la cittadinanza e non c´è alcuna speranza che possa essere estradato in Italia. Analoga situazione ha protetto Alessio Casimirri, condannato all´ergastolo per l´agguato di via Fani, ma "libero" cittadino del Nicaragua le cui autorità hanno sempre respinto le richieste di espellerlo avanzate dal governo italiano.
Dal 2002 ad oggi (ad eccezione dell´unico caso dell´ex brigatista Paolo Persichetti), tutti gli altri tentativi di estradizione hanno avuto esito negativo. Leonardo Bertulazzi, ex Br, catturato in Argentina, è stato là dichiarato «non estradabile». Germano Fontana, ex Prima Linea, viene liberato dalle autorità spagnole. Il caso di Marina Petrella ha però definitivamente tolto ogni speranza agli investigatori italiani di riportare in Italia i terroristi che a Parigi hanno trovato rifugio grazie alla "dottrina Mitterrand": contro il rimpatrio dell´ex brigatista condannata per il sequestro Moro scese in campo la first lady francese, Carla Bruni. E Sarkozy negò l´estradizione.
Ecco alcuni dei casi piu' eclatanti..

1. CASIMIRRI - DAL RAPIMENTO MORO ALLA FUGA IN NICARAGUA...
Alessio Casimirri è nato a Roma nel 1951. Il padre Luciano è stato responsabile della sala stampa vaticana dal dopoguerra al pontificato di Paolo VI. Alessio militò in Potere Operaio per poi aderire alle Brigate Rosse. Partecipò al rapimento di Aldo Moro in via Fani il 16 marzo del 1978 e all´omicidio degli agenti di scorta. Per questi reati è stato condannato all´ergastolo in contumacia. Nel 1982 si è rifugiato in Nicaragua, dove si è sposato e ha avuto due figli. Attualmente gestisce un ristorante a Managua. Grazie alla cittadinanza nicaraguense, l´estradizione in Italia è stata sempre negata.

2. ZORZI - SOSPETTI SULLE STRAGI E DUE ASSOLUZIONI...
Delfo Zorzi, vive in Giappone, paese nel quale ha ottenuto la naturalizzazione e svolge l´attività di imprenditore. Alla fine degli anni ‘60 entrò a far parte dell´organizzazione neofascista Ordine Nuovo. Accusato di essere l´esecutore materiale della strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 fu poi assolto. È stato imputato, come esecutore materiale, anche per la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. È stato condannato all´ergastolo in primo grado nel 2001. Il 12 marzo 2004, l´appello ha però ribaltato il verdetto ed ha assolto Zorzi.
3. PIETROSTEFANI - CONDANNATO A 22 ANNI PER IL DELITTO CALABRESI...
Giorgio Pietrostefani, abruzzese, fu tra i fondatori di Lotta Continua. È stato condannato a 22 anni per l´omicidio del commissario Luigi Calabresi, avvenuto nel 1972. Secondo la sentenza definitiva, il delitto fu materialmente eseguito da Ovidio Bompressi e Leonardo Marino, su mandato di Pietrostefani e Adriano Sofri. La condanna si basa sulla testimonianza del pentito Leonardo Marino, che fu inizialmente condannato a 11 anni di carcere, ma la pena è poi caduta in prescrizione. Pietrostefani per sottrarsi all´esecuzione della condanna definitiva è fuggito in Francia.
4. LOIACONO - OMICIDI E RAPIMENTI ORA È CITTADINO SVIZZERO...
Alvaro Loiacono, membro delle Brigate Rosse, è stato condannato a 16 anni per l´omicidio dello studente greco Miki Mantakas avvenuto nel febbraio 1975 di fronte alla sede dell´Msi del quartiere Prati a Roma. Gli altri delitti dei quali è stato accusato sono l´assassinio dei giudici Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione. È anche stato condannato per aver partecipato alla strage di via Fani. Sfruttando la cittadinanza svizzera della madre, Lojacono è espatriato ed è diventato cittadino svizzero. In Svizzera è stato condannato a 17 anni di carcere per l´omicidio Tartaglione, scontandone 11 per buona condotta.
5. LOLLO - TRA I RESPONSABILI DEL ROGO DI PRIMAVALLE...
Achille Lollo vive in Brasile, come Cesare Battisti. Durante gli anni di piombo faceva parte di Potere Operaio. È stato condannato per il rogo di Primavalle: nel 1975 venne dato fuoco all´appartamento di Mario Mattei, segretario della sezione di quartiere dell´Msi. Nel rogo persero la vita i due figli del politico di destra. Dopo l´arresto Lollo ha scontato due anni di carcere preventivo in attesa della sentenza definitiva. Ma riuscì a fuggire in Brasile dopo la condanna in appello. Ha rilasciato un´intervista il 2 febbraio 2005 in cui espose la sua ricostruzione sui fatti: "Quella sera eravamo in sei".
6. PETRELLA - "NO ALL´ESTRADIZIONE PER MOTIVI UMANITARI"...
Marina Petrella ha aderito alle Brigate Rosse col nome di battaglia di «Virginia». Fu arrestata il 4 gennaio 1979 e poi rilasciata per decorrenza dei termini, con obbligo di residenza nel comune di Montereale, in provincia di Chieti. Il 12 agosto 1980 fuggì entrando in clandestinità. Fu di nuovo arrestata nel 1982 a Roma, ma rilasciata nell´1986, per decorrenza dei termini. Nel 1993, dopo la sentenza del Moro-ter la Petrella si rifugiò in Francia. Dopo la richiesta di estradizione da parte del governo italiano del 2002, la polizia francese la arresta nel 2007. Nel Sarkozy ha deciso di non estradarla in Italia per «ragioni umanitarie».

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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05/01/2011 16:12
 
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questo simpatico manifesto da un paio di giorni si trova un po' dappertutto. monteverde ne è praticamente ricoperta ovunque nel corso di una notte.



a parte l'ortografia (dovrebbe essere larentia, se non erro), i misteri sono i seguenti:
questi gruppi dove li trovano i soldi, l'infrastruttura e la logistica per queste azioni?
come mai questi manifesti abusivi non vengono rimossi?
perché questi personaggi non vengono estradati in germania, dove per il saluto nazista e fascista ti becchi fino a tre anni di galera, senza condizionale?


ah, dimenticavo! a proposito di acca larenzia presente... XXXXX, o sbaglio? [SM=g27997]


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lo vedi? Il pezzo sopra è lecito,quello sotto fa il paio con "sensi bruci all'inferno".E non si può.E' un forum libero e iperdemocratico ma non vorrei che diventasse una cloaca tipo laziocity.
Tra l'altro io e gli altri 4 creatori e moderatori del forum siamo responsabili di quello che si scrive.
ps-idem con patate per il "sarcasmo"(eufemismo) vs vittime di altre aree politiche,sia chiaro.

modalità moderatore off
[Modificato da lucaDM82 06/01/2011 02:12]

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Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.
(Samuel Beckett, Worstward Ho)
05/01/2011 16:31
 
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Re:
BeautifulLoser, 05/01/2011 16.12:

questo simpatico manifesto da un paio di giorni si trova un po' dappertutto. monteverde ne è praticamente ricoperta ovunque nel corso di una notte.



a parte l'ortografia (dovrebbe essere larentia, se non erro), i misteri sono i seguenti:
questi gruppi dove li trovano i soldi, l'infrastruttura e la logistica per queste azioni?
come mai questi manifesti abusivi non vengono rimossi?
perché questi personaggi non vengono estradati in germania, dove per il saluto nazista e fascista ti becchi fino a tre anni di galera, senza condizionale?


ah, dimenticavo! a proposito di acca larenzia presente... un paio di loro dovrebbero mancare all'appello anche quest'anno, o sbaglio? [SM=g27997]



IN questo periodo il cui il 'complottismo' è di moda , anzi è molto chic......vorrei essere diplomatico:
"Perchè l'Assessore alle Attività produttive, al Lavoro e al Litorale, che dovrebbe occuparsi della rimozione 'del manifesto selvaggio' non fà bene il suo mestiere".

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17/01/2011 15:00
 
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Rogo di Primavalle: Lollo in tribunale
come «persona informata dei fatti»


ROMA - Achille Lollo, ex leader di Potere Operaio, condannato a 18 anni di reclusione, condanna ormai prescritta, per la morte dei fratelli Stefano e Virgilio Mattei, uccisi nel rogo di Primavalle del 16 aprile del 1973 è in Italia e sarà interrogato lunedì mattina dai magistrati di piazzale Clodio. Finora tutti i tentativi di rogatoria internazionale da parte della Procura di Roma erano falliti.


SOLO COME PERSONA INFORMATA DEI FATTI - Tornerà davanti al pubblico ministero di Roma, questa volta come persona informata sui fatti. Achille Lollo è, già stato protagonista come imputato della vicenda giudiziaria legata alla strage di Primavalle. Da qualche mese Lollo è tornato in Italia essendosi prescritta la condanna inflittagli per la vicenda. Il 16 aprile del 1973, nell'incendio della loro abitazione, morirono i fratelli Stefano e Virgilio Mattei, di 22 e 10 anni. L'interrogatorio di Lollo, che è assistito dall'avvocato Tommaso Mancini, avverrà lunedì prossimo alle 11 davanti al pubblico ministero Luca Tescaroli al quale è affidata l'indagine su alcuni risvolti della vicenda. La procura spera che Lollo accetti di rispondere alle domande del pm e contribuisca a chiarire il mistero delle altre persone coinvolte nel rogo. Ma l'ex leader di Potere Operaio potrebbe anche non rispondere, come gli consente la legge.

INDAGINI RIAPERTE DOPO L'INTERVISTA DEL «CORRIERE» - «A Primavalle eravamo in sei» aveva detto Achille Lollo a Rocco Cotroneo nell'intervista in esclusiva al Corriere della Sera nel 2005. «Vi racconto chi c'era quella notte. Giurammo di non parlare per 30 anni, ma il silenzio non ha più senso» (per leggere l'intervista cliccare qui). In seguito alle dichiarazioni rilasciate la Procura di Roma decise di riaprire le indagini sul rogo di Primavalle ipotizzando per i responsabili il reato di strage. L'incendio era scoppiato nell'aprile del '73 nella casa del segretario di una sezione romana dell'Msi, Mario Mattei, nel quale morirono i figli Stefano e Virgilio Mattei.

IL FRATELLO DELLE VITTIME - «Finalmente si sta scrivendo la storia vera, la storia giusta». Questo il commento a caldo alla notizia della comparsa di Achille Lollo lunedì davanti al pm Luca Tescaroli di Roma da parte di Giampaolo Mattei, fratello di Stefano e Virgilio, figli del segretario della sezione Msi di Primavalle. A distanza di quasi 38 anni dalla tragedia, Giampaolo Mattei ha le idee chiare: «Non ci interessa la galera, nemmeno un giorno, ciò che ci preme è invece la verità, nel rogo di Primavalle come anche in altre questioni degli anni di piombo. È importante che vengano fatti i nomi dei veri responsabili». Ricordando le tante iniziative condotte insieme con la madre di Valerio Verbano, «che ancora non sa chi abbia ucciso suo figlio», Mattei ha precisato che «il sangue non ha colore politico e vorrei che non lo avesse nemmeno la giustizia». Da questo punto di vista grandi speranze vengono riposte «nel dottor Tescaroli, che ha avuto molto coraggio nel riaprire questa vicenda rispetto anche al suo predecessore che ha fatto di tutto per archiviarla. Il mio appello - ha aggiunto - rivolto anche allo Stato è che stiano affianco a Tescaroli. Noi vogliamo - ha ancora aggiunto Mattei - la verità e la giustizia, non ci interessano le gogne. Il magistrato non deve essere isolato; che lo Stato ci dia un aiuto e ci appoggi in questo». Particolarmente a cuore di Mattei stanno «le nuove generazioni, dopo che alcuni pupari hanno distrutto le generazioni negli anni '70». E lancia un consiglio ai giovani: «Mai portare il cervello all'ammasso. La controinformazione ha fatto molti danni», ricordando in particolare quanto pubblicò Il Messaggero subito dopo la strage di Primavalle, «facendo appunto controinformazione nei nostri riguardi, che magari era stato mio padre ad aver ucciso i suoi propri figli». Mattei ha fatto riferimento anche alle coperture avute da Lollo: «Nel 1975, con l'assoluzione, a Lollo fu data la possibilità di fuggire. Oggi occorre chiarire anche tutte le strumentalizzazioni avvenute all'epoca, ai fiancheggiamenti».

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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03/02/2011 12:27
 
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Dal fatal balcone una Roma mai vista

Lo storico poggiolo di piazza Venezia non è più un tabù:
aperto ieri per la prima volta dal 1943



ROMA
Il brivido del feticista non si racconta, si raccomanda. Anche se adesso è inutile che vi affrettiate verso Palazzo Venezia: il fatal balcone non è più un tabù ma non è ancora una consuetudine. E questa potrebbe essere la risposta alla domanda che molti si saranno posti: come mai sul balcone - dal quale Benito Mussolini, il 10 giugno 1940, dichiarò l’ingresso nella Seconda guerra mondiale, dopo avervi arringato gli italiani («italiani!») per un decennio e mezzo - non si è mai più vista anima viva? La stessa domanda se l’era posta Mario Resca (direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale), e gli era stato risposto che una delle prime leggi repubblicane impediva l’utilizzo del balcone per scopi turistici o ricreativi o anche altamente culturali.

Non si sarebbe fatto del poggiolo un luogo della memoria, o addirittura della nostalgia. Tanto è vero che quel coriandolo di pietra (più o meno ottanta centimetri per due metri e mezzo) era stato ultimamente adibitio a deposito per due motori dell’aria condizionata. E, come racconta a La Stampa la sovrintendente per il Polo museale della città di Roma (di cui Palazzo Venezia fa parte), Rossella Vodret, ricopriva il ruolo di appoggio logistico per le fasi di montaggio e smontaggio delle mostre. L’importante era che nessuno si affacciasse mai, né per la caricatura né tantomeno per l’emulazione. La lunga ricerca della leggina, dice oggi Resca, «si è conclusa in nulla».

Cioè, la legge non esiste, se non come tradizione orale, una specie di eccesso di zelo asceso di bocca in bocca alla dignità di norma. E la finestra che dà sul balcone era quindi perennemente occultata da un pesante tendaggio nero e chiusa con un lucchetto per una damnatio memoriae spontaneamente nata fra i gestori del Palazzo, dalla notte del Gran Consiglio in poi (25 luglio 1943). Ma qualche giorno fa, visitando insieme con Resca la mostra «Due imperi.

L’Aquila e il dragone», a Giorgio Napolitano è stato aperto e mostrato il balcone, sebbene il presidente si sia limitato alla sbirciata e abbia prudentemente evitato di sporgersi. «Nell’occasione - dice Resca - e dopo molte altre chiacchierate, abbiamo chiesto al Capo dello Stato se considerasse sconveniente che il balcone fosse aperto e utilizzato, di quando in quando». Napolitano non si è opposto. Naturalmente la cosa va fatta con le cautele del caso.

Ieri, per esempio, per accedere al luogo così a lungo calpestato dagli stivaloni del Duce, il cronista ha dovuto spuntare una considerevole quantità di permessi. La praticabilità del balcone non sarà automatica, almeno non da subito. Non andate domattina a compulsar la mostra e battere i pugni quando due gufi nerovestiti, piazzati a guardia della finestra, vi negheranno l’affaccio. Insomma, come dice Rossella Vodret, il «balcone fa parte di un palazzo storico, che ha cinque secoli e mezzo di esistenza, una piccolissima porzione della quale dedicata al fascismo.

Credo sia giusto che oggi, sfumati i rischi del pellegrinaggio elegiaco, il balcone sia restituito al palazzo, al museo, alla vita». E dunque è probabile che un pomeriggio di aprile, senza annunci e squilli di tromba, si deliberi di aprire le finestre per far entrare un po’ di luce e di aria, e che di conseguenza i visitatori abbiano la facoltà di dare un’occhiata alla piazza, così come la vedeva Mussolini durante i suoi orgasmi oratori.

E che la cosa si ripeta poi frequentemente sino a diventare normale. Certo che, con l’interesse che gli italiani continuano a dimostrare per il Ventennio, ci si domanda come mai, caduto il divieto sacrale, non si sia deciso di trasformare il luogo in un business. Un biglietto per visitare la sala del Mappamondo (dove il Duce lavoravae riceveva le ospiti per il quotidiano relax) e l’annesso balconcino: soldi a palate per finanziare la cultura, sempre a corto di liquidi.

A dire la verità, è un’idea talmente ovvia che è venuta a tutti. Ma non è sembrato il caso. Non ancora, almeno. Certe coscienze sono così sensibili, sul tema, così storicamente corrette, che si è giudicato già un bel colpo togliere le catene alle maniglie senza cori di geremiadi. Poi, fra qualche tempo, chissà.
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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03/02/2011 12:27
 
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Stragi 'del 93, parla Spatuzza
"Chiedo perdono a Firenze"


Si è aperta, nell'aula bunker di Santa Verdiana a Firenze, l''udienza del processo sulle stragi del '93 a Roma, Firenze, Milano, che vede imputato Francesco Tagliavia. Al centro della giornata l'audizione di Gaspare Spatuzza. Il" pentito" è arrivato scortato da 7 agenti coperti da ’mefisto' per motivi di sicurezza. Lui stesso è stato fatto accomodare su una sedia circondata da paraventi. Si vedono solo i piedi. Numerose le telecamere presenti in aula, autorizzate a fare le riprese pur con queste cautele per la sicurezza del testimone. In collegamento dal carcere di Viterbo l’imputato Francesco Tagliavia.
Il procuratore capo di Firenze Giuseppe Quattrocchi assisterà in aula alla deposizione del pentito Spatuzza. Accanto a lui, i pm Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi. Nell’aula bunker assiste al processo anche una scolaresca dell’Istituto tecnico per il turismo ’Marco Polò di Firenze, accompagnata dagli insegnanti. A fare le riprese anche uno studente dell’Università di Firenze per un sito di informazione studentesca autorizzato dal presidente della Corte di Assise Nicola Pisano.
«Che sia un buongiorno per tutti..». Così, il pentito Gaspare Spatuzza ha esordito dopo aver preso posto nell’aula. Spatuzza ha detto di «intendere» rispondere alle domande dei pm. E ha continuato: «Sono arrivato in questa città, a Firenze, da terrorista, il nostro obiettivo era colpirla nel cuore e ci siamo riusciti». «Oggi dopo 18 anni vengo come uomo e soprattutto come pentito - ha aggiunto Spatuzza - e intendo chiedere perdono che può non essere accettato, che può essere strumentalizzato ma dovevo farlo».


[Modificato da Sound72 03/02/2011 12:29]
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22/02/2011 16:59
 
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Omicidio Valerio Verbano, ci sono i due indagati


Nel giorno del 31mo anniversario dell'assassinio del giovane comunista, confermata la notizia data da Repubblica sulla riapertura del "cold case". I due sospettati riconosciuti da testimoni tramite foto segnaletiche dell'epoca. Uno risiede all'estero

ROMA - Sono effettivamente indagati per omicidio volontario dalla Procura di Roma i due uomini di cui scrive oggi Repubblica 1, indiziati dell'assassinio di Valerio Verbano, il giovane comunista ucciso in casa il 22 febbraio 1980. Entrambi identificati dopo una rilettura del vecchio fascicolo processuale, sarebbero stati riconosciuti da alcuni testimoni tramite ricognizione delle foto segnaletiche dell'epoca. Il caso Verbano è dunque riaperto, con l'obiettivo di consegnare alla giustizia, 31 anni dopo l'omicidio, due dei tre assassini di Verbano.
Un vero e proprio "cold case", quello di Valerio Verbano. L'inchiesta è infatti stata riaperta oltre un anno fa nell'ambito di una verifica sulla insolubilità di vecchi casi attraverso l'utilizzo delle tecniche investigative più moderne e sofisticate. Le indagini sul caso Verbano sono coordinate dal procuratore aggiunto Pietro Saviotti e dal sostituto Erminio Amelio. All'epoca dell'omicidio, i due indagati, uno dei quali oggi risiede all'estero, non militavano in organizzazioni eversive, ma, stando alle indiscrezioni, frequentavano personaggi legati a Terza Posizione e ai Nar. L'omicidio, avrebbero accertato i carabinieri del Ros, sarebbe maturato nell'ambito delle
vendette tra estremisti di destra e di sinistra che caratterizzarono, soprattutto a Roma, gli anni di piombo. Nelle intenzioni degli inquirenti c'è ora la convocazione in procura dei due indagati.

La madre di Valerio Verbano, Carla Zappelli, 87 anni, aveva in precedenza commentato l'articolo di Repubblica in cui si rivela l'esistenza dei due presunti killer identificati. "Ieri in effetti - rivela la signora - è successo un fatto curioso, che si spiega alla luce di ciò che ho letto oggi sul giornale: sono venuti qui a casa mia un magistrato e un tenente colonnello dei Ros. Mi hanno detto che era un anno e mezzo che lavoravano sulla documentazione di Valerio".

"La notizia che ci sono finalmente due nomi collegati all'omicidio di mio figlio è un sollievo - dice ancora la signora Zappelli -. Se dopo 31 anni si riuscisse a scoprire qualcosa sarebbe meraviglioso. E' quello che aspetto. Ed acquista un valore ancora più grande perché avviene in questa giornata, nel 31mo anniversario della morte di mio figlio. Non voglio illudermi più di tanto. E' già successo tante volte e altrettante sono rimasta delusa. Però oggi ho più speranza".

L'anziana madre della giovane vittima di quegli anni di violenza politica ricorda anche la precisione con cui suo figlio aveva messo assieme un suo schedario dei militanti di destra del "triangolo dell'odio", i quartieri di Roma Trieste-Salario, Talenti, Montesacro. Documentazione che Valerio aveva collezionato in circa tre anni e che "assomigliava - ricorda la madre - per grandezza, a una tesi di laurea, senza la copertina rigida però. All'indomani dell'assassinio presero quel grande quaderno e quando mi venne restituito mancavano tante pagine".

Sollevata dalla notizia e con rinnovata speranza di verità, la signora Carla oggi presenzierà al ricordo di Roma nel 31mo anniversario della tragica fine di suo figlio. Gli appuntamenti sono alle 16 davanti alla lapide di Valerio in via Monte Bianco, dove Valerio abitava e fu ucciso in casa. Alle 17 è previsto un corteo cittadino nelle vie del IV Municipio. Alle 20, infine, "iniziativa musical-teatrale" presso la palestra popolare "Valerio Verbano", in via delle Isole Curzolane.
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24/03/2011 11:25
 
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Morte di Giuliani al G8 di Genova
La Corte di Strasburgo assolve l'Italia


La decisione è stata assunta a maggioranza dai giudici della Grande Camera

BRUXELLES
La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, con sentenza definitiva, ha assolto oggi l’Italia dalle accuse di aver responsabilità nella morte di Carlo Giuliani avvenuta durante gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine nel corso del G8 di Genova.

La decisione è stata presa a maggioranza dai giudici della Grande Camera: tredici voti a favore e quattro contrari. I giudici della Grande Camera hanno stabilito la piena assoluzione di Mario Placanica, il carabiniere che sparò a Carlo Giuliani in piazza Alimonda, confermando così la sentenza di primo grado emessa il 25 agosto 2009. La Grande Camera ha anche assolto l’Italia dall’accusa di non aver condotto un’inchiesta sufficientemente approfondita sulla morte di Giuliani. In questo caso la Corte si è espressa con 10 voti a favore e 7 contrari. La stessa maggioranza si è pronunciata anche per l’assoluzione dell’Italia dall’accusa di non aver organizzato e pianificato in modo adeguato le operazioni di polizia durante il summit del G8 a Genova.

A presentare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, nel giugno del 2002, sono stati i genitori e la sorella di Carlo Giuliani, che ieri sera, di fronte alle indiscrezioni che parlavano di verdetto favorevole all'Italia, hanno detto che non si sarebero comunque arresi. «Siamo pronti anche ad una causa civile - handetto il padre di Carlo -: non per rifarci sul carabiniere, ma per aprire l’unica possibilità che ci rimane affinchè ci sia un dibattimento pubblico».

Nel loro ricorso a Strasburgo i Giuliani hanno accusato le autorità italiane di aver di fatto causato la morte del ragazzo. Mario Placanica, il carabiniere che sparò a Carlo Giuliani in piazza Alimonda il 20 luglio del 2001, secondo la famiglia, avrebbe fatto un uso sproporzionato della forza. Ma a giocare un ruolo nella morte di Carlo sarebbero state sia l’inadeguata organizzazione delle forze dell’ordine presenti a Genova, sia le regole di ingaggio, che a differenza di quanto succede per esempio in Iraq, non impongono l’uso di proiettili di gomma per il mantenimento dell’ordine pubblico durante le manifestazioni.

La famiglia Giuliani sostiene inoltre che le autorità non hanno condotto un’inchiesta adeguata per accertare le cause della morte del ragazzo, sollevando dubbi anche su come è stata eseguita l’autopsia. In prima istanza, la Corte di Strasburgo ha accolto solo parzialmente le tesi dei Giuliani condannando l’Italia per il modo in cui è stata effettuata l’inchiesta mentre ha pienamente assolto Placanica, che, secondo i giudici, agì per legittima difesa.

Questo verdetto, per altro non unanime, non ha soddisfatto né la famiglia né il governo italiano che hanno quindi chiesto e ottenuto una revisione dell’intero caso davanti alla Grande Camera. I 17 giudici sorteggiati per il riesame, hanno ascoltato le parti durante un’udienza pubblica lo scorso 29 settembre.
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07/04/2011 11:46
 
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Moby Prince, vent'anni fa la strage
Il traghetto si scontro' con la petroliera Agip Abruzzo al largo di Livorno, morirono 140 persone


Vent'anni di processi senza colpevoliLa testimonianza: "Io, impotente davanti a fumo e fiamme"


LIVORNO - Aveva mollato gli ormeggi alle 22.03 dal porto di Livorno, mezz'ora più tardi era già una palla di fuoco alla deriva nella rada del porto toscano, una bara galleggiante.

Nessuno, però, per quasi un'ora si accorse di ciò che avveniva a bordo del Moby Prince, il traghetto della Navarma sul quale il 10 aprile 1991 morirono 140 persone. Alle 22.36 Renato Superina, comandante della petroliera Agip Abruzzo, contro la quale era finita la prua del Moby, lanciò l'allarme per un incendio a bordo dopo la collisione con una bettolina.

A Livorno, chi pensò al Moby, lo immaginò ormai diretto ad Olbia, con al timone il comandante Ugo Chessa, e i soccorsi si concentrarono sull'Agip. Solo per caso alle 23.35 due ormeggiatori si avvicinarono al traghetto in fiamme e così venne scoperta quella che sarà la più grave tragedia della marina mercantile italiana dalla Seconda Guerra mondiale.

Un solo superstite, il mozzo Alessio Bertrand che, aggrappato al bordo del Moby fu salvato proprio dagli ormeggiatori che lo convinsero a gettarsi in acqua. Dal traghetto, come poi verrà ricostruito durante i processi, la richiesta di soccorso era partita: "May day.... may day..Moby Prince..... Moby Prince.....siamo in collisione ..siamo in fiamme..occorrono i vigili del fuoco...compamare se non ci aiuti prendiamo fuoco..may day may day......".

Erano le 22.26, ma alla sala radio della Capitaneria arrivò con un segnale debolissimo, non venne sentito. Sono passati 20 anni ma il film di quella notte e quello dei giorni successivi continuano a scorrere negli occhi e nelle menti dei familiari delle vittime, 75 passeggeri e 65 membri dell'equipaggio. E coloro che lavorarono tutta la notte con la speranza di trovare ancora qualcuno in vita nei saloni di quell'ammasso di lamiere annerite che il giorno dopo verrà rimorchiato, ancora fumante, nella Darsena del porto. Le tante storie di chi solo per miracolo si è salvato, perché arrivato in ritardo per la partenza o sbarcato poche ore prima per qualche giorno di ferie, si intrecciarono con quelle dei corpi trovati a bordo.

Di certo la morte per la maggioranza delle persone a bordo non fu immediata: oltre 40 corpi vennero trovati all'interno di uno dei saloni centrali del traghetto e le autopsie confermeranno la presenza di monossido di carbonio nei polmoni. Probabilmente si erano riuniti convinti che i soccorsi arrivassero prestissimo vista la vicinanza al porto.

Invece il racconto dei primi vigili del fuoco saliti a bordo di quello che restava del Moby parlarono di un ammasso di corpi bruciati, ormai tutt'uno con le lamiere e ciò che restava di mobili e suppellettili. Terribile l'opera di riconoscimento delle vittime: ai familiari venne chiesto di ricordare qualsiasi particolare utile a permettere di riconoscere i loro cari.

E intanto, mentre ancora il Moby bruciava, partirono le prime polemiche: per i ritardi nei soccorsi, per la nebbia che per qualcuno c'era per altri no, per un tratto di mare affollato da navi americane di ritorno dalla prima guerra del Golfo. Poi l'avaria del timone, l'errore umano. Fino all'ipotesi di un attentato. Polemiche che alimenteranno i processi e che faranno della tragedia del Moby uno dei misteri italiani.
( ansa.it )


La versione ufficiale ridicola per alcuni anni fu un errore di distrazione del comandante e dell'equipaggio tutti presi vedere barcellona-juventus.. [SM=g27996]

la cosa piu' agghiacciante è che volutamente nn vennero salvati..

in uno speciale de la storia siamo noi c'è una ricostruzione molto accurata di quel disastro intitolata non a caso " il porto delle nebbie "..


www.youtube.com/watch?v=DJoj_i8rsb8&feature=fvwrel


le altre parti si trovano su youtube
[Modificato da Sound72 07/04/2011 11:49]
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12/04/2011 14:44
 
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Nozze Izzo-Papi, già finito il matrimonio
tra il mostro del Circeo e la giornalista


L'annuncio della sposa: Angelo deve chiarire alla giustizia ciò che ha detto a me e io non voglio essere complice di cose che non condivido

ROMA - Da primavera a primavera. È durato un annetto appena il discusso matrimonio tra Angelo Izzo, «il mostro del Circeo» e la giornalista Donatella Papi. La signora, che subito dopo le nozze, il 10 marzo dello scorso anno, nel carcere di Velletri (Roma), aveva annunciato raggiante di aver finalmente coronato un sogno d'amore lungo decenni e di voler trascorrere accanto al pluriomicida il resto della sua vita, oggi pare aver cambiato idea.

LA FINE DEL MATRIMONIO - Il perché lo ha spiegato lei stessa. «Izzo non è colpevole dei reati che gli sono stati attribuiti, ma di altri fatti gravissimi per la nostra Repubblica. Penso che Angelo debba chiarire alla giustizia quello che ha detto a me, sulla sua posizione. Deve prima chiarire i fatti di Ferrazzano e del Circeo. Se non fa chiarezza su questi fatti come fa a essere collaboratore di giustizia in altri processi? Lui non porta avanti i suoi processi personali, dove potrebbe dimostrare la sua posizione. Credo che Izzo non sia responsabile dei delitti per i quali è stato condannato - ha insistito la Papi - ma io mi fermo qui, perché non mi voglio fare complice di cose che non condivido». Una spiegazione un po' ermetica dove non compare più la parola «amore» con la quale, il giorno delle nozze, Donatella Papi aveva sfidato tutti quelli - prima fra tutti la sorella di Rosaria Lopez, vittima del massacro compiuto a metà degli anni Settanta - a cui pareva assurda la sua scelta. «Sono una sposa serena. Ho sposato l'uomo che amo. È quello che volevamo entrambi. Non abbiamo paura, non abbiamo fatto nulla di male» aveva dichiarato assicurando che l'uomo conosciuto 35 anni prima, era portatore di «un enorme patrimonio spirituale, dotato di un autentico codice sentimentale».

In carcere le nozze di Izzo




LE NOZZE IN ROSA - Per il bramato sì aveva indossato un abito di seta rosa cipria con un soprabito bianco. Alla cerimonia, c'erano solo i due sposi, i 4 testimoni (due amiche carissime della Papi), un pubblico ufficiale dell'Ufficio Stato Civile, il Direttore Generale del Comune di Velletri e il Direttore del Carcere. Ma lo scambio delle fedi, aveva raccontato la sposa ai giornalisti, era stato molto toccante, così come il bacio tradizionale. Una felicità turbata, appena un mese dopo, dalla tragica scomparsa dell'unico figlio 17enne della giornalista, nipote di Amintore Fanfani, morto in un incidente con la sua minicar. Una fatalità dietro la quale la donna aveva visto oscure trame tanto da dichiarare che la morte del ragazzo era stata «un sacrificio per la patria» e da pretendere autopsia e indagini rigorose. Oggi un altro «addio» nella vita di Donatella Papi. (fonte Ansa).

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Questa dovrebbe spiegare solo come si fa ad avvicinarsi ad un personaggio del genere.
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19/04/2011 13:40
 
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Gravi motivi di salute, torna libero Concutelli
L'ex leader di Ordine Nuovo il 10 luglio del 1976 uccise a Roma il giudice Vittorio Occorsio



Il neofascista Concutelli, meta' vita in carcere
ROMA - Pierluigi Concutelli, l'ex leader di Ordine Nuovo, che, il 10 luglio del 1976, uccise a Roma il giudice Vittorio Occorsio, è uscito dal carcere.
Concutelli è tornato in libertà, secondo quanto si è appreso, per 'gravi motivi di salute'. Dal marzo del 2009 era ai domiciliari perché colpito da ischemia cerebrale, anche se formalmente dipendeva dal carcere di Rebibbia.

NIPOTE OCCORSIO, GLI AVREI DATO PENA MORTE - "Io a Concutelli gli avrei dato la pena di morte. E non parlo solo come nipote di Vittorio Occorsio ma perché l'Italia da oggi è un paese meno sicuro con lui in libertà". E' l'opinione di Vittorio Occorsio, nipote ventitreenne del giudice, del quale porta lo stesso nome, ucciso nel 1976 da un commando neofascista. Il giovane ha saputo dal padre Eugenio la notizia della liberazione dell'assassino del nonno. "Sono incredulo e amareggiato", dice il ragazzo.

BLOG, SOSPESA PENA, ANDRA' DA AMICI A OSTIA - Secondo il blog "Fascisteria" curato dal giornalista Ugo Maria Tassinari, a Pier Luigi Concutelli "è stata riconosciuta la sospensione della pena per le gravi condizioni di salute". Due anni fa "ha subito infatti un grave ictus che gli impedisce di parlare e di alimentarsi regolarmente", si legge nel blog. "Dopo il riconoscimento del beneficio da parte del giudice dell'esecuzione della pena, ha lasciato gli arresti domiciliari - era ospite del fratello a Portogruaro - ed è stato trasferito dagli amici che lo assisteranno in una casetta sul mare, sul litorale di Ostia, a Roma", si spiega nel blog di Tassinari.


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20/04/2011 10:40
 
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Attentato a Wojtyla, l'ultima verità-il mistero della terza pallottola
Il numero di colpi sparati e la reale identità dei mandanti. Trent'anni fa Giovanni Paolo II fu ferito da Alì Agca. Nuove carte e testimonianze smontano le ipotesi finora tracciate. Esecutori e mandanti furono gli stessi: i Lupi grigi. Una montatura della Cia dietro la pista bulgara. E la giustizia italiana fallì di MARCO ANSALDO

CITTA DEL VATICANO - "Se solo il Vaticano parlasse... Il Santo Padre, quel benedett'uomo, ci nascose persino la pallottola che gli uomini della sua sicurezza raccolsero sul pianale della papamobile. Noi giudici fummo tenuti all'oscuro di questo fatto per molto tempo, anni. Eppure si trattava di un elemento unico, determinante ai fini dell'indagine. Poi, in occasione di un anniversario dell'attentato, uno dei primi, il Pontefice andò a mettere il proiettile sopra la testa della Madonna di Fatima, in Portogallo".
Fu Ilario Martella a condurre, dopo il primo rito per direttissima, la seconda inchiesta giudiziaria dell'atto di terrorismo forse più eclatante del XX secolo insieme all'omicidio di John Fitzgerald Kennedy a Dallas. Oggi quel dettaglio che l'anziano magistrato ricorda, assieme a quello - tutt'altro che secondario - di tre colpi sparati in piazza San Pietro invece dei due di cui si è sempre saputo e che raggiunsero il Papa, potrebbe contribuire ad alzare il velo sul mistero dell'attentato a Wojtyla.

Chi furono i mandanti? Attorno a questa domanda ruota, esattamente da 30 anni, il nodo irrisolto dell'agguato a Giovanni Paolo II in piazza San Pietro avvenuto il 13 maggio 1981. E la risposta, in un'inchiesta lunga vent'anni e compiuta in sei Paesi diversi, è che non vi furono mandanti. I responsabili non furono né i bulgari, né il Kgb. E neppure, come hanno sostenuto altre ricostruzioni, la Cia, e tantomeno il Vaticano. I mandanti furono gli stessi esecutori. A ideare, concepire e compiere l'attentato a Wojtyla furono infatti i Lupi grigi turchi, ultranazionalisti, filo islamici, contrari all'Occidente e al capo della religione che per essi lo rappresenta. E lo fecero per ragioni ben precise.

LA TERZA PALLOTTOLA
Allora forse bisogna partire da qui, da uno dei dettagli più nascosti di un'indagine ormai finita a livello processuale - anche gli ultimi due gradi di giudizio non riuscirono a determinare prove sufficienti per individuare i mandanti - nel tentativo di ricostruire i meccanismi che portarono agli spari del 13 maggio 1981. Perché, appunto, quella pallottola esplosa contro il Papa è un dettaglio dimenticato, rimasto sepolto nelle cronache della visita di Giovanni Paolo II in Portogallo, e mai riemerso. Il proiettile posto sulla corona della Madonna di Fatima, rimasto fino al 1984 in Vaticano e mai periziato dalla magistratura indipendente, potrebbe dire molto: ad esempio se a esploderlo fu lo stesso Agca, oppure, qualora risultasse non compatibile con la sua arma, da un'altra pistola.

Un contributo nuovo e rilevante lo danno gli archivi della Repubblica federale tedesca a Berlino, che negli ultimi anni stanno raccogliendo, classificando, e riunendo pezzo per pezzo, avvalendosi di computer di ultimissima generazione, le briciole dei documenti stracciati dai funzionari comunisti nelle drammatiche ore che seguirono la caduta del Muro. L'azione è cominciata alle 17.19", leggiamo in un protocollo del Ministerium für Staatssicherheit (MfS), il ministero per la Sicurezza dello Stato, noto come STASI, cioè i servizi segreti della Germania Est, "il Papa è stato colpito da tre pallottole".

IL COMPLOTTO
La possibile presenza di una terza pallottola è un dettaglio rilevante. Ilario Martella conferma che si tratta di un elemento capace di portare a nuove piste. Una tesi di cui sono convinti, pur nelle diverse valutazioni circa i mandanti, molti dei magistrati che indagarono sul caso, da Rosario Priore a Ferdinando Imposimato. Quel proiettile in più potrebbe dimostrare in maniera certa la presenza di un secondo killer, quindi di un commando e, dunque, di un complotto. Demolendo quindi la tesi dell'azione compiuta da un attentatore solitario come quella sostenuta in ultimo da Agca, estradato in Turchia dopo vent'anni di carceri italiane, una volta accettata la sua versione di aver agito da solo.

IL PROGETTO
L'azione fu pensata ed esposta ai suoi compagni in carcere dall'attentatore già quando Giovanni Paolo II andò in viaggio ufficiale in Turchia (28-30 novembre 1979). Il giovane killer, accusato dell'omicidio del direttore del quotidiano di sinistra Milliyet, Abdi Ipekci, fu fatto evadere solo quattro giorni prima dalla prigione di Kartal Maltepe con l'aiuto dei Lupi grigi e dei militari turchi. E inviò allo stesso giornale una lettera con la minaccia: "Ucciderò il capo dei cristiani".

I  MOTIVI
Agca non riuscì allora nel suo proposito, ma lo fece un anno e mezzo dopo, a Roma. Ad aiutarlo fu la fazione guidata dal capo dei giovani Lupi grigi Abdullah Catli, collegato in Turchia ai partiti di centro destra e alla polizia, come si scoprirà nell'incidente automobilistico di Susurluk che lo uccise nel 1996 e che divenne perciò un colossale caso politico, svelando gli intrecci fra criminalità e istituzioni.
I Lupi grigi, una volta usati dai generali per i disordini di piazza e gli omicidi organizzati che portarono al golpe del 1980 (12 settembre), furono ripudiati e cacciati per i loro crimini. Si rifugiarono in Germania, Francia e Austria. E lì, con un sentimento di rivalsa sia verso i militari turchi - da cui si sentivano traditi - sia nei confronti dell'Occidente in generale - da cui non si sentirono appoggiati - vollero dimostrare di che cosa fossero realmente capaci puntando a obiettivi più alti, a livello internazionale. Concepirono così nel periodo seguente (fine 1980-'81) l'ipotesi di attentati a grandi personalità politiche mondiali, la Regina d'Inghilterra, il segretario dell'Onu Kurt Waldheim, la presidente del Parlamento europeo Simone Weil. E il Papa, naturalmente, che incarnava tutto il contrario del pensiero ultranazionalista dei Lupi grigi. "Il progetto partì dallo stesso Ali - confessa oggi l'ex Lupo grigio Dogan Yildirim - e il piano spaccò la nostra base". Alla fine il disegno fu appoggiato e finanziato dal gruppo.

LA CIA E IL FALSO DELLA PISTA BULGARA
Non ci furono mandanti, perché i Lupi grigi organizzarono il piano da soli. Né ci sono - come non ci sono mai stati, del resto - documenti in proposito, al di là delle minute disegnate dall'attentatore. Il progetto avvenne in puro stile criminale, nello stile del gruppo. La pista bulgara fu un falso. Un'operazione fortunata e di grande successo, cavalcata ancora oggi da alcuni politici e magistrati, soprattutto in Italia, ma preparata a tavolino. Fu ideata dalla Cia, addirittura un anno e mezzo dopo l'attentato, alla fine del 1982, dopo che un gruppo ristretto costituitosi all'interno del Centro di studi internazionali e strategici di Washington e guidato da Michael Ledeen (lo stesso analista che nel 2003 inventerà la pista dell'uranio arricchito in Nigeria venduto all'Iraq come motivo dell'attacco di Bush a Saddam Hussein), sulla spinta dal segretario di Stato americano, il "falco" ex generale Alexander Haig, scatenò una campagna di accuse contro Sofia, per colpire l'Unione Sovietica allora considerata dall'amministrazione Reagan come l'Impero del Male.

Si fece leva, in maniera molto astuta, sul periodo trascorso dall'attentatore nel 1980 in Bulgaria. I Lupi grigi erano certamente presenti a Sofia, ma non per progetti politici inconcepibili (erano infatti un gruppo fascista), quanto piuttosto per compiere affari con i bulgari nella compravendita di armi e droga, come dimostreranno le coraggiose inchieste del giornalista turco Ugur Mumcu (poi saltato in aria sulla sua auto nel 1993), riprese poi in Italia dal giudice Carlo Palermo. Lo strumento su cui l'intelligence Usa agì furono i servizi giornalistici di Claire Sterling sul Reader's Digest e sulla Nbc, pilotati dal capo della stazione Cia ad Ankara, Paul Henze. A queste "rivelazioni" dei media americani (settembre 1982), seguì il viaggio del giudice Ilario Martella a Washington per parlare con gli autori degli articoli (ottobre 1982). Al suo ritorno, Agca, che ha sempre avuto la capacità di fiutare il vento e di riadattare le proprie versioni, cominciò per la prima volta a parlare, pur tra evidenti contraddizioni e sotto la probabile influenza dei servizi italiani, della nuova pista bulgara (interrogatorio dell'8 novembre 1982).

IL PROCESSO E L'ASSOLUZIONE
Le sue accuse finirono per costituire il fondamento della partecipazione di Sofia nell'azione contro il Papa polacco, con il sottinteso (mai dimostrato) che la regia dell'operazione risiedesse a Mosca. A Roma tre funzionari bulgari, Antonov, Ayvazov e Vassilev, furono indicati dall'attentatore come suoi complici. Il primo subì un lungo processo, con accesi confronti in aula con i Lupi grigi, i quali, senza scrupolo, a quel punto trascinarono lui e la Bulgaria nel vortice di un fantomatico complotto.

LE FALLE DELLA GIUSTIZIA ITALIANA
La giustizia italiana, che fallì completamente (e fu per questo molto criticata all'estero) perché non riuscì mai a concentrarsi sui veri motivi che condussero all'attentato, impiegando tempo a privilegiare ipotesi rivelatesi come irrealistiche e svianti, nel 1986 fu costretta ad assolvere i bulgari per insufficienza di prove. Oggi il corrispondente del Washington Post, Michael Dobbs, che seguì il caso spiega: "Molte delle prove portate in tribunale avrebbero fatto ridere una Corte americana".

I LUPI GRIGI OGGI
Agca, nelle migliaia di parole scritte e scambiate a voce con noi in vent'anni, di recente si è lasciato sfuggire con me e la giornalista turca Yasemin Taskin, coautrice del libro Uccidete il Papa (Rizzoli), che "l'attentato non è complicato, come si crede, ma, in fondo, è una faccenda semplice". Una faccenda semplice e lineare perché ad attentare alla vita del Papa e a concepire l'idea dell'agguato fu il suo gruppo, i Lupi grigi turchi. Le complicazioni arrivarono dopo, artatamente, quando a mischiare le carte furono i vari servizi segreti dei Paesi coinvolti, Italia compresa, tese ad accusare o a coprire, a seconda delle rispettive convenienze. Sono i Lupi grigi il solo gruppo che l'attentatore ha sempre protetto, nelle 107 versioni fornite finora, gli unici che non ha mai tradito, e da cui, tuttora, è assistito, finanziato e sostenuto.

I CRIMINI ANTICRISTIANI
L'avversione dei Lupi grigi - frammentatisi nel tempo in decine di sigle diverse, e presenti ancora nel Parlamento ad Ankara - agli esponenti cattolici, è resistita fino a oggi. Come dimostrano gli omicidi recenti in Turchia del vescovo monsignor Luigi Padovese, di don Andrea Santoro, dei tre editori della Bibbia a Malatya (città natale di Agca) e di tanti altri assalti, avvenuti per mano loro.
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03/05/2011 16:35
 
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Roma Sud, maxi blitz del Ros
Stroncata la nuova banda della Magliana




ROMA - Un'organizzazione violenta e ambiziosa che, dopo i successi nelle zone di Cinecittá, Tor Bella Monaca e Tuscolana, puntava a espandersi quella smantellata dai carabinieri del Ros che hanno arrestato 38 componenti e indagato altri 43 in un'operazione denominata Orfeo.
«Pijamose tutta tutta Roma» diceva alcuni giorni fa uno degli esponenti di spicco in una conversazione intercettata dai militari. Il gruppo, ben radicato nella capitale, era collegato allo storico sodalizio che faceva capo a Michele Senese, arrestato alcuni anni fa durante l'operazione «Orchidea», che in passato si era affermato grazie ai rapporti con gruppi camorristici napoletani. Mensilmente il gruppo criminale commercializzava sul mercato romano fino a tre quintali di hashish e marijuana e oltre trenta chili di cocaina.

Sequestrato anche un laboratorio a Grottaferrata in cui veniva confezionata la droga e vari depositi per lo stoccaggio. «Il comando provinciale ha fornito il personale necessario per l'attuazione tempestiva ed efficace delle misure cautelare e dei sequestri - ha detto il comandante provinciale dei carabinieri, Maurizio Mezzavilla nel corso di una conferenza stampa presso la Procura di Roma - abbiamo impegnato circa 250 uomini».

Un'organizzazione particolarmente violenta, «ben strutturata, con basi logistiche e un sistema che garantiva gli affiliati anche la tutela legale». L'organizzazione nata nella periferia sud est di Roma (Tor Bella Monaca, Cinecittà, Tuscolana) era pronta ad espandersi in tutto il territorio capitolino. Mensilmente la banda, secondo quanto emerso nel corso di una conferenza stampa in Procura alla presenza del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e del comandante provinciale dei Carabinieri Maurizio Mezzavilla, è risultata in grado di commercializzare, sul mercato romano, sino a tre quintali di hashish e marijuana, oltre a circa trenta chilogrammi di cocaina.

messaggero.it

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altri nuovi eroi..cmq se uno da un'occhiata su youtube ai commenti dei video sulla banda della magliana è pieno di gente esaltata che sa tutti i cazzi dei vari boss..Grande quello, infame quell'altro, ci ha avuto le palle, hanno fatto bene a fallo fuori etcetc....
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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Re:
Sound72, 03/05/2011 16.35:

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altri nuovi eroi..cmq se uno da un'occhiata su youtube ai commenti dei video sulla banda della magliana è pieno di gente esaltata che sa tutti i cazzi dei vari boss..Grande quello, infame quell'altro, ci ha avuto le palle, hanno fatto bene a fallo fuori etcetc....




il ritratto di mio cognato .... che naturalmente segue anche uomini e donne [SM=x2478843]

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"La mafia, Berlusconi e Mancino"
Le verità di Giovanni Brusca


"Molti contatti con il Cavaliere, ma con le stragi del '92-'93 non c'entra niente". E l'ex ministro dell'Interno Mancino era "garante e terminale della trattativa" Stato-Cosa nostra. La replica: "Dice falsità per vendetta"

"Berlusconi può essere accusato di tante altre cose, ma per le stragi del '92-'93 non c'entra niente, non facciamolo diventare un martire. Veniva accusato anche di cose peggiori. Di tutto questo parlai con i miei cognati, Salvo e Rosario Cristiano. Ho querelato l'Espresso perché non ha rettificato una notizia falsa: io non sono mai andato da Berlusconi". E' quanto ha sostenuto Giovanni Brusca nell'aula bunker di Rebibbia, deponendo al processo al generale dei Carabinieri Mario Mori, accusato di favoreggiamento alla mafia. Il pentito è di nuovo tornato ad accusare Nicola Mancino, sostenendo che l'ex ministro dell'Interno era il "garante e il terminale" delle presunte intese tra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni. Dura la replica di Mancino: "E' un 'pentito' itinerante tra i vari uffici giudiziari. Ripete per vendetta falsità nei confronti di un ex ministro dell'Interno che nel periodo 1992-93 fece registrare, tra i tanti arresti di latitanti, anche quello di Riina. Non desidero dire altro".

I rapporti con Berlusconi. Per quanto riguarda i rapporti con Silvio Berlusconi, secondo Brusca l'attuale premier sarebbe stato oggetto di pressioni da parte dei mafiosi di Santa Maria di Gesù e avrebbe avuto rapporti con i boss Stefano Bontate e Giovanello Greco. Brusca nella deposizione di Rebibbia rispondendo al pm Nino Di Matteo ha parlato di investimenti fatti da Greco, che si sarebbe rivolto a Gaetano Cinà, dicendogli di volere riprendersi soldi dati a Berlusconi.

Il pizzo. "Cinà, persona diversa dal medico pure lui mafioso - ha detto Brusca - poteva arrivare a Berlusconi tramite Dell'Utri", l'attuale presidente del Consiglio "pagava una 'messa a posto' di 600 milioni al mese a Stefano Bontade e successivamente a Totò Riina", ha aggiunto. "Aveva smesso di pagare - ha poi affermato Brusca - e gli venne fatto un attentato. Il mandante era Ignazio Pullarà. L'attentato fu programmato perché ricominciasse a pagare il pizzo". Per questa cosa, ha sostenuto ancora il mafioso, "Totò Riina si arrabbiò e tolse la guida del mandamento a Pullarà, affidandola a Pietro Aglieri. Fu proprio Ignazio a raccontarmi questi fatti. I rapporti con Berlusconi sono durati anche successivamente".

Investimenti mafiosi. Il pentito ha poi sottolineato che "a Milano non era solo Berlusconi che pagava". All'inizio degli anni Ottanta - ha detto ancora - la mafia legata a Stefano Bontate, quella dei cosiddetti perdenti, investì denaro con Dell'Utri e Berlusconi". "Seppi da Ignazio Pullarà - ha aggiunto - che poi il boss Giovannello Greco, temendo di perdere i frutti dell'investimento fatto con Berlusconi, fece un blitz a casa di Gaetano Cinà per riprenderseli".

Lo stalliere di Arcore. Nel '93 ci fu un nuovo tentativo di avvicinare Berlusconi e di spingerlo a trattare, dato che, secondo Brusca, era già ritenuto scontato che sarebbe diventato presidente del Consiglio. "Dopo l'arresto di Riina ho contattato Vittorio Mangano, il cosiddetto stalliere di Arcore, perché si facesse portavoce di alcune nostre richieste presso Dell'Utri e Berlusconi", ha sostenuto il pentito. "Lui - ha aggiunto - era contentissimo di poterci ristabilire i contatti e ci spiegò che si era licenziato dall'impiego ad Arcore per non creare problemi a Berlusconi, ma che tutto era stato concordato anche con Confalonieri e che aveva ancora con loro buoni rapporti". A fare da tramite tra Mangano e l'allora imprenditore Berlusconi sarebbe stato un personaggio che aveva la gestione delle pulizie alla Fininvest.

Nuovi contatti. "L'episodio risale alla fine del '93. Gli volevamo chiedere - ha detto Brusca - tra l'altro di attenuare i rigori nei trattamenti dei detenuti a Pianosa e Asinara e di alleggerire il 41 bis". Brusca ha poi aggiunto di avere detto a Mangano, affinché questi lo riferisse a Dell'Utri in modo tale da fornirgli "un'arma politica", che la sinistra sapeva tutto sulle stragi mafiose del '92 e del '93". Dopo un mese Mangano sarebbe tornato con la risposta di Dell'Utri che gli avrebbe detto: "Vediamo cosa si può fare". Confermando quanto già dichiarato ai pm, Brusca ha ribadito di avere saputo da Mangano che dopo il contatto "erano contenti". "Non mi disse - ha concluso - a chi si riferiva". Brusca, infine, ha ammesso di non avere avuto più notizie sui contatti tra Mangano e i suoi referenti in quanto lo stalliere di Arcore venne poi arrestato nel corso del '94.

Le trattative tra mafia e Stato. Secondo il pentito ci sarebbero state più trattative mafia-Stato: una risale al periodo successivo all'omicidio di Salvo Lima, l'altra al '93, dopo l'arresto di Totò Riina. Secondo la ricostruzione di Brusca, dopo l'omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992) "si sarebbero fatti sotto" due personaggi come Vito Ciancimino, padre di Massimo, e Marcello Dell'Utri. "Il primo portò la Lega (non ha specificato quale, ndr), l'altro un nuovo soggetto politico che si doveva costituire, o che già era costituito, non mi ricordo bene. Entrambi si proposero come alternative a Lima e al sistema politico di cui l'esponente andreottiano della Dc era stato il garante".

Brusca ha fatto poi riferimento a un altro pezzo della trattativa, risalente al periodo successivo alla strage di Capaci (23 maggio 1992): in quel periodo "a farsi sotto" sarebbero stati altri soggetti, non specificati, ma che avrebbero avuto come terminale finale il ministro dell'Interno Nicola Mancino. Quest'ultimo si insediò però il primo luglio del '92. Totò Riina avrebbe riferito a Brusca che nei confronti di questi soggetti si sarebbe presentato "con un papello tanto così (espressione accompagnata da un gesto delle mani) contenente una serie di richieste. Successivamente appresi che il soggetto interessato a fare cessare le stragi era Nicola Mancino. Da lui arrivò la richiesta: 'Cosa volete per finirla con le stragi?'".

In quella fase della trattativa il boss Leoluca Bagarella, sempre secondo Brusca, "si lamentava di essere stato preso in giro da Nicola Mancino 'gliela faccio vedere io', disse con l'evidente intento di ucciderlo". "Si era rimasti insoddisfatti dell'esito", ha spiegato il pentito che ha definito l'ex ministro dell'Interno "garante e terminale della trattativa".

L'altra fase della trattativa riguarderebbe invece il periodo successivo all'arresto di Riina (15 gennaiò93). "In quel momento a me, a Leoluca Bagarella e a Bernardo Provenzano stava a cuore attenuare i maltrattamenti inflitti nelle carceri speciali di Pianosa e dell'Asinara. Poi non volevamo revocare il 41 bis, cosa controproducente, ma svuotarne il contenuto".


( repubblica.it )
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