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Ultimo Aggiornamento: 29/06/2022 14:31
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22/02/2013 18:53
 
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Pistorius scarcerato: è caos fuori dal tribunale

E’ stata accolta la richiesta di scarcerazione per Oscar Pistorius: l’atleta sudafricano lascia dunque il carcere di Pretoria, dietro pagamento di una cauzione. Inizialmente si pensava che l’istanza non sarebbe stata accolta, per timore di una fuga dell’omicida della modella Reeva Stenkamp, ma alla fine si è deciso di agire diversamente. La decisione è arrivata dopo oltre un’ora di riflessione del magistrato che, di fronte alle insistenza dell’accusa sulla possibile fuga di Pistorius, ha affermato che, nelle sue condizioni di disabile, ciò non sarebbe comunque possibile. Pistorius è apparso parecchio provato, e le lacrime sono scese, copiose, come sempre.

Intanto il suo allenatore, Ampie Low, presente anch’esso in aula, ha affermato di essere un semplice tecnico, disinteressato a parlare dell’omicidio: “Oscar deve subito rimettersi in sesto ed allenarsi come faceva prima“. Fuori dal tribunale, alla notizia della libertà concessa a Pistorius, si è levata invece la durissima protesta di numerose persone, gran parte delle quali associazioniste contro la violenza sulle donne.

Le indagini, tra l’altro, potrebbero essere ad una svolta: nella giornata di ieri è stata tolta la gestione del caso a Botha, detective che stava seguendo le indagini, in quanto egli stesso accusato di ben 7 omicidi. Questa situazione risale al 2011 quando il polizitto, insieme a due colleghi, sparò contro un pullmino che conduceva ben 7 persone. Lo stesso Botha, nel controinterrogatorio subito nelle ore scorse ad opera della difesa di Pistorius, ha ammesso che non vi siano ancora elementi sufficienti a sostenere con certezza che l’ipotesi dell’incidente portata avanti dall’atleta non sia reale. Ma non solo. Le sostanze trovate in casa di Pistorius e definite dopanti, potrebbero in realtà essere di altro tipo. Insomma, l’impressione è che di luce, ancora, ne debba essere fatta, a parecchia.

calcioweb.eu
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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14/03/2013 09:28
 
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Arturo Merzario, settant'anni di corsa

A un'età in cui tanti piloti sono in pensione da lustri, lui è ancora in pista: Arturo racconta gli anni tra F.1 e Prototipi, quando salvò Lauda dal fuoco ("Ma non mi ha ringraziato") e cosa salva dei GP di oggi

Per carità, non chiamatelo “ex” pilota…. "Altrimenti mi incazzo! Io sono ancora un pilota vero; e non un “corridore”. Nasco pilota, con le mie gambe e, sin dalla mia seconda gara, sono un pilota remunerato. Non dico pagato perché sta male…". Eccolo qua, in tre righe, l’Arturo Merzario ("In realtà, per un errore all’anagrafe corretto cinque anni fa, Arturio, anzi Arturio Francesco…") il “pilota-fantino” che l’ 11 marzo compie 70 anni e che il 21 aprile inizia la sua 51ª stagione di corse, nell’occasione alla guida di una gran turismo Lotus. Il volto segnato da rughe che ricordano le duecento curve del vecchio Nürburgring, la “sua” pista, ancora secco come un chiodo, vivacissimo, chiacchierone, polemico, puntiglioso, divertente, professionista: il più popolare pilota italiano. Grazie alla sua storia e al suo esserci ancora, come pilota e protagonista di importanti rievocazioni storiche, come opinionista controcorrente e, last but not least, per essere l’uomo che il 1° agosto del 1976 al Nürburgring salvò Niki Lauda dal rogo della Ferrari F.1 garantendogli di poter continuare a vivere e a vincere. "Ma io penso (spero) di essere ricordato e riconosciuto più per i miei successi e per la mia storia sportiva".
"Storia antica. Nel ’71, con la Abarth, mi giocavo il titolo europeo a Salisburgo, ultima gara. Lui si schiera da intruso nel campionato con una Chevron. Beh io, in deficit di cavalli, non riuscivo a tenere bene a sua scia così lui vinse, io fui secondo. Presi a calci la mia macchina (e mi beccai un cazziatone da Carlo Abarth), poi presi per il cravattino Niki “Mi hai fatto perdere il campionato!” e lui “Io pagato per correre, e correre per vincere”. Poi lui prese il mio posto alla Ferrari in F.1, ma questo non c’entra. Lì ci fu la complicità del Clay, Regazzoni che fu in quell’occasione fu un po’ cattivello: avremmo dovuto fare coppia io e lui alla Ferrari, ma lui suggerì di assumere Lauda che correva con lui alla Brm e al quale lui stava regolarmente davanti….".

Però quel giorno al Nürburgring non esitò a tuffarsi nel rogo della Ferrari per salvarlo.
"In quel momento pensai soltanto che c’era un pilota che stava bruciando. Non sapevo che quella macchina fosse una Ferrari e che dentro ci fosse Lauda. Non so nemmeno come feci a tirare fuori dalla macchina Niki, cioè un peso di 70 kg. Certamente la sua fortuna fu che svenne e che rimanendo sena respiro si creò un piccolo spazio tra le cinture di sicurezza e il suo corpo, così riuscii a slacciare le cinture. Poi gli feci la respirazione bocca a bocca ma, bene inteso, tenendo il sottocasco che mi riparava la bocca… Pensate alle coincidenze: avevo appreso quella tecnica di salvamento in occasione di un corso di sopravvivenza che avevo seguito quando ero militare, ma soltanto perché a chi accettava di frequentare il corso garantivano una licenza di 15 giorni!".

Comunque un atto di eroismo.
"Per questo il Governo italiano mi insignì della medaglia d’argento al valor civile, e un riconoscimento analogo mi arrivò dagli austriaci. Poi anche l’Ambrogino d’oro del Comune di Milano. Invece ci rimasi male dopo l’incidente per l’atteggiamento di Lauda: mi aspettavo, una telefonata, non un grazie, magari un “vaffa”, invece niente e nella prima conferenza stampa non mi degnò nemmeno di una citazione!".

Ma le regalò un orologio prezioso, pegno della sua riconoscenza.
"Ah sì? l’orologio? Accadde un anno dopo: ero a Salisburgo per una gara con l’Alfa. Lui scese da casa sua - che era proprio sopra il circuito – e mi portò quel Rolex… Ma io sapevo che era un regalo riciclato, della Mariella, la sua prima fidanzata e dissi a Niki “L’orologio te lo metti….”. Lo prese in consegna l’ingegner Chiti che poi me lo diede. Ma io non lo indossai mai. Non potevo mettere nemmeno il mio di Rolex o altri orologi perché tutti mi dicevano. “Ah, ecco l’orologio di Lauda, che bello!”".

Poi tra salvato e salvatore è tornato il sereno.
"Merito di Bernie Ecclestone, che nel 2006, per il 30° anniversario del fatto, organizzò in pista, sul punto dell’incidente, una cerimonia, che prevedeva che io raccogliessi da dietro il guard-rail un orecchio di plastica, roba da negozio di carnevalate, e lo consegnassi a Lauda dicendogli “ho ritrovato questo che ho dimenticato di darti 30 anni fa”. Finì con una bella cena piena di racconti e ricordi".

Lauda, che è più giovane, ha smesso da un pezzo, lei continua. Perché?
"Primo per passione: le corse sono la mia vita; secondo perché non faccio fatica, nemmeno a stare davanti, anche a tanti più giovani di me. E poi percepisco, attraverso alcuni sponsor, una piccola rendita. In più partecipo – ingaggiato - a eventi, gare e raduni storici importanti in Italia e all’estero per i quali la mia tuta e il mio smoking sono sempre stirati, pronti all’uso".

Se la ricorda la prima gara?
"14 ottobre 1962, coppa Fisa a Monza. Non so se fu anche culo, comunque arrivai ottavo su 30 con la mia Giulietta Spyder Veloce (con su l’hard top) dotata di mangiadischi e autoradio, la macchina con cui scorrazzavo sulle strade del Lario a “caricare” le ragazze: e contro avevo già delle Giulietta SZ e piloti come Baghetti e Bandini…”.

Beh, se a 19 anni aveva la Giulietta Spyder tanto male non se la passava.
"Sono stato fortunato perché vengo da una famiglia benestante. Mio padre era un imprenditore edile, si insomma, faceva il magûtt (il muratore, ndr) e costruiva case. Gli piacevano le macchine e aveva la Ferrari e la Maserati. Io gliele prendevo e scorrazzavo per le strade del Lario anche quando avevo 16 anni… i carabinieri chiudevano un occhio. Ho avuto una buona educazione, anche culturale. E forse per questo che ancora oggi non litigo con i congiuntivi La mamma era maestra. Anzi nei primi tre anni di scuola era la mia maestra e io in classe dovevo darle del lei. Ero mancino ma all’epoca era una cosa non accettata. Così mi legavano la mano sinistra dietro la schiena per farmi scrivere con la destra. Oggi scrivere è la sola cosa che faccio con la destra. Di studiare non avevo molta voglia. Facevo ragioneria ma sono scappato dal collegio. Mi hanno messo a fare l’istituto per geometri per seguire le orme di papà costruttore e sono scappato da Cremona in autostop. La mia università è stata il marciapiede. Diciamo che preferivo “frequentare” i cantieri dove operava l’impresa di mio padre".

“Remunerato” dalla seconda corsa, diceva.
"Sì a Monza mi aveva notato Mario Angiolini, patron del Jolly Club. Mi offrì di correre, ospite spesato da loro, ma con la mia macchina, la nuova Giulietta SZ regalo di papà, il rally di Sardegna. Feci sesto e primo delle GT e la Csai mi mandò un premio di 1.250.000 lire: pensate che la mia macchina nuova era costata 1.620.000. Ma la scuderia pretendeva di avere il premio. Li mandai a quel paese".

Già rissoso e polemico?
"Io ho sempre detto quello che penso. Anche quando ero alla Ferrari e avrebbero voluto che dicessi bugie, ad esempio che la macchina si era rotta per colpa del Dinoplex (l’accensione; n.d.r.), io invece dicevo il vero, che una biella aveva sfondato il motore e che a momenti mi beccava in faccia… In molti a Maranello non mi sopportavano anche perché il Vecchio (Enzo Ferrari; n.d.r.) mi teneva nella manica. Ero l’unico che gli dava del tu, e che poteva permettersi di fumare davanti a lui. Gli altri si indignavano, lui diceva “lasciatelo fumare”. Gli piacevo perché rispondevo e polemizzavo. Gli dicevo nel mio dialetto “Rump minga i cujuni!” e lui giusto per polemizzare replicava nel suo “S’ al dis maroni!”. Con lui sono andato d’accordo anche dopo, quando lasciai Maranello".

Enzo Ferrari non è stato l’unico costruttore di carattere con il quale ha allacciato un rapporto professionale e umano molto intenso, Carlo Abarth, per esempio.
"Sono cresciuto con Abarth. Arrivai da ragazzino benestante e scanzonato e anche impertinente, pretendevo di fare quello che volevo. Abarth mi prendeva da parte e mi faceva la paternale. Un padre-padrone, anzi un nonno-padrone. Lo portai a disputare corse importanti dalla garette che faceva. Io le chiamavo così, le gare in salita, e lui si incazzava. Abarth era molto avanti in tante cose: ad esempio creò una linea di abbigliamento legata al marchio e alle corse che si chiamava Autoboutique. I capi glieli disegnava la moglie, una ex modella, e Mila Schoen. Ma lui, maniaco della qualità, pretendeva si usassero soltanto materiali pregiati, così il prodotto finale era troppo costoso e si vendeva poco. Con Abarth, se facevi una piccola critica alla macchina, lui fermava tutto, faceva smontare e verificare. Il suo primo pensiero era per il pilota, per la siurezza, magari a scapito della prestazione. Ferrari era l’esatto contrario".

Poi costruttore, e di Formula 1, lo diventò lei.
"L’errore della mia vita. Ho bruciato un sacco di soldi. Quando ho chiuso nell’81 avevo già speso 500 milioni di lire e avevo 800 milioni di debiti: ho pagato tutto, con fatica. Ma sapete che assunsi come disegnatore Giorgio Piola? Allora lo conoscevano in pochi, poi è diventato famoso come giornalista-tecnico della F.1".

Un peccato aver bruciato tanta ricchezza. Certo lei è sempre stato ben supportato e ben sponsorizzato, con quel cappello marchiato dalla Philip Morris…
"Fermi tutti: il cappello era già un mio segno distintivo da anni. Lo comprai alla mia prima trasferta in America nel ’67, in omaggio alla mia passione per i cow boy. Il primo sponsor tabaccaio, la Astor, arrivò a me e a Clay Regazzoni - con cui ci intendevamo benissimo, lui in ticinese, io in comasco - grazie alla proposta di un certo Barchetta, che era il più grande contrabbandiere del lago. “Mettete l’etichetta sul casco e sulla tuta. Poi a fine anno ci aggiustiamo” disse. E a fine anno arrivò un assegno in franchi svizzeri con un sacco di zeri! La Philip Morris venne dopo e mi fece un contratto non ricchissimo, ma a tempo indeterminato, come ambasciatore anche di altri marchi del gruppo".

Con questo passato godrà di una pensione d’oro.
"Eh no. Nonostante tutti i soldi i che ho lasciato allo Stato in tasse (ma qualche volta il conguaglio a fine anno è stato a mio favore e conservo ancora con orgoglio le fotocopie degli assegni della banca d’Italia delle imposte restituite) non ho la pensione: non ho fatto versamenti previdenziali perché non lo sapevo e perché nessuno me lo ha suggerito. Quando sono arrivato a 65 anni mi è stata recapitata la lettera dell’Inps dicendo di portare le carte per la pensione. L’impiegato in comune mi ha detto “Cusa te voeur Merzario, la pensiun? Ma ti te minga diritt. Nemmeno la minima!”".

Però diceva che corre ancora “remunerato”.
"A parte qualche piccola sponsorizzazione percepisco il gettone di presenza in certe manifestazioni. Partecipo a questi eventi in Italia e in tutta Europa. Cose di prestigio. Per esempio quando sono andato al Gran Premio storico di Montecarlo mi hanno affidato la Alfa Romeo 8 C, proprio quella della scuderia Ferrari. Una gran fatica e anche un po’ di casino con l’acceleratore in posizione centrale. Sono stato servito e riverito ospite al Grand Hotel de Paris. Io magari avrei preferito qualcosa di più modesto e quei 3000 euro per la stanza avrebbero potuto darli a me… Ma bisogna capire, c’è tutto il cerimoniale, l’immagina da mantenere, il tuo personaggio. Anche per questo il mio smoking è sempre pronto. Da 14 anni sono ospite fisso a Goodwood prima allo Speed festival poi anche al Revival. Lì guido di tutto e incontro un casino di superstiti... Arrivo all'aeroporto di Londra e trovo ad aspettarmi la Bentley d’epoca che mi manda Lord March il “padrone” di Goodwood. Sono l'unico degli ospiti ai quali spetta questo privilegio. Gli altri debbono prendere il taxi o l’auto a nolo, o l’elicottero, se ce l’hanno. Così qualche volta do io un passaggio con la Bentley a qualcuno. E poi al Castello per me c'è la stanza più bella con lo champagne sempre in fresco. Ma io sono astemio e bevo solo Coca Cola. Io al Castello: pensare che da una ricerca araldica che ho fatto ho scoperto che avrei diritto di fregiarmi del titolo di Conte de’ Merzari!".

Merzario, si reputa un fortunato?
"Sì perché sono riuscito a fare molte delle cose che volevo e perché sono vivo avendo corso tanto in un periodo in cui gli incidenti spesso erano fatali. Ho celebrato i 50 anni di corse, adesso i 70 anni e l’anno prossimo le nozze d’oro. Sono sposato dal 1964. Da giovane ero molto “birichino” e quando i genitori della mia futura moglie comprarono l’hotel Stella ad Asso (l’albergo dove andava in ritiro l’Inter) paese vicino a Civenna, dove stavo io, gli amici mi dissero. “Ehi Arturo, lo sai che all’Hotel Stella è arrivata una nuova famiglia? i proprietari hanno tre figlie una più bella dell’altra”. Dissi, va bene, che cosa vuoi che sia, un giorno andremo a vedere. Io frequentavo il Lido di Bellagio o l’Orsa Maggiore, tra Lecco e Abbadia, snobbavo Asso: mi stava sul culo perché lì ci avevo fatte le medie. Però un giorno andai al bar dell’hotel Stella. Le figlie avevano 25, 23 e 14 anni (la mia futura moglie) Io entrai. Poco dopo dissi “Signora, sua figlia mi piace e la sposerò”. Naturalmente mi cacciò dal locale. E allora cominciò la guerra, cioè il corteggiamento e tutto il resto. Ci sposammo che eravamo ancora minorenni (all’epoca si diventava maggiorenni a 21 anni). Tutti dicevano che sarebbe durata poco…".

Lei è sempre così sicuro di sé, quasi sfacciato. Ma ha mai avuto un momento di imbarazzo?
"Vi racconto un episodio. Ai tempi dell’austerity, nel 1974, mi proposero di fare un servizio per Playboy realizzato da Bob Krieger alle scuderie di San Siro. Feci il disinvolto e con atteggiamento diplomaticamente distratto dissi a mia moglie “Sai mi hanno proposto un servizio su Playboy con le modelle e i cavalli. Mah, una cosa da fare tra un paio di mesi…”. Passa il tempo, mi chiamano. E io “Ehi Mami, domani allora vado a San Siro per quel servizio…”. E lei “Va bene: vengo anche io”…. Che imbarazzo: io con quattro modelle nude addosso… e poi mi hanno fatto togliere anche le mutande e fuori c’era Mami che mi aspettava in macchina leggendo il giornale...".

Ma quante corse ha disputato?
"Nel 2000 mi hanno organizzato una festa con tanto di trofeo per le 2000 gare disputate. Da allora non le ho contate più".

Avrà un ricordo speciale di una gara speciale.
"Sono troppe. Però un successo al quale sono affettivamente legato è quello del circuito del Mugello nel 1969. Il circuito stradale quello da 65 km. Vinsi con grande vantaggio con la Abarth contro gli squadroni di Porsche e Alfa, disputando i 720 km della corsa sempre io alla guida con una temperatura tremenda. Era il 20 luglio del 1969 e nelle pagine sportive scrissero “Merzario trova la sua luna al Mugello” perché quello era il giorno dello sbarco del primo uomo sulla luna. Che culo che ho avuto l’anno dopo a Daytona. Ero pilota Ferrari e grazie a questo Mario Andretti, anche lui alla Ferrari con i prototipi, organizzò una visita a Cape Canaveral con cena assieme a Neil Armstrong!".

E le macchine? Quante ne ha guidate in corsa?
"Mah, forse 500. Le mie preferite sono l’Abarth 1000 con la quale facevo impazzire altri con vetture molto più potenti, la Ferrari 312 PB con la quale si vinse il titolo prototipi 1972, l’Alfa Romeo TT del ’75 e del ’77, pure iridata prototipi, e la Iso F.1 al cui progetto lavorò Giampaolo Dallara".

Con 40 anni di meno la proverebbe una F.1 di oggi?
"Mi servirebbero gli occhialini per vedere da vicino tutti quei comandi con i quali non capirei niente. No, non ne sarei capace. Ma nemmeno un pilota di oggi potrebbe guidare una nostra F.1, magari al Nürburgring: non finirebbe il primo giro, incorrendo in pesanti danni collaterali. I raffronti sono impossibili: siamo esponenti di generazioni cresciute in mondi e modi diversi".

E la F.1 di oggi?
"Non mi piace".

Nemmeno un pilota di oggi?
"Il “pallido” (Hamilton; n.d.r.) che è il migliore. Meglio anche di Vettel che è un po’ come il Lauda dei miei tempi, capace di perdere per vincere. Invece Hamilton perde a volte perché lui è pirla. Ma è così di carattere. Mi piace".

Arturo, lei ha troppe cose da raccontare e commentare. Perché non scrive un libro?
"Lo farei volentieri, ma non per raccontare episodi di corse, piuttosto i mille aneddoti che riguardano la mia vita e soprattutto le tante persone conosciute. Ma forse è troppo presto, sarebbe imbarazzante per le tante persone coinvolte…. Comunque c’è tempo. Perché io arriverò a 101 anni, come la mia nonna".

( gazzetta.it )

manco la pensione ahah [SM=g10633]
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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Di Luca alle Iene: "Liberalizzare il doping forse sarebbe la soluzione migliore"


Continuano a filtrare stralci dell'intervista delle Iene a Danilo Di Luca. Dopo le prime anticipazioni uscite nella giornata di ieri con il trailer ufficiale della trasmissione, Mediaset ha pubblicato un lungo botta e risposta tra l'ex corridore e l'intervistatore.
In attesa di capire se durante la trasmissione l'abruzzese dirà di più, sollevando davvero il coperchio e la temuta tempesta (che certe volte può essere più che utile), per il momento non sembra davvero emergere niente di nuovo.


Oggi cosa sei?
"Un radiato".

Cioè?
"Un ex atleta che non può più gareggiare in competizioni sportive".

Perché?
"Perché sono stato trovato positivo tre volte ad un controllo antidoping".

Ma sei l’unico? Non ci sono altri ciclisti radiati?
"Credo di no".

Per questo sei stato il più punito tra tutti i ciclisti del mondo. E adesso cosa può succedere?
"Potrei anche andare in galera".

Quando hai incontrato il doping?
"Sulla ventina d’anni, più o meno"

Perché?
"Ero sempre un vincente e vincevo spesso. Quando poi sono passato dilettante ho visto dei corridori che avevano corso con me fino al mese prima, che il mese dopo diventavano più forti di me".

E tu ne hai parlato con loro?
"Prima sì, 10 anni fa si parlava".

E adesso non più? Perché?
"Perché una volta c’era tra virgolette ignoranza in questo, invece con il tempo e con tutti gli scandali che sono successi ognuno fa le cose per sé e di questo non se ne parla più".

Quando i ciclisti parlano di doping tra loro?
"Quando si è in gara".

Cioè?
"Di Luca: Quando si è in gara succedono tante cose. Una gara dura 5/6 ore e in quelle 5/6 ore non sei sempre concentrato, non sei sempre, come diciamo noi in gergo, “a tutta”.

Non sei sempre “a tutta” ma lo sanno tutti?
" Questo no, perché il doping, nel ciclismo, il 99% delle volte è personale".

La prima volta che l’hai fatto ti sei sentito in colpa?
"No, mi sono sentito come gli altri".

Spiega meglio.
"Tornavo ad essere il Danilo Di Luca che vinceva le corse".

Quindi ti sei dopato perché non vincevi più?
"Sì".

E cosa hai fatto?
"Innanzitutto mi sono informato".

Con chi?
"Sempre con i medici".

E cosa ti hanno detto?
"Che ci sono determinati tipi di sostanze che, assunte in maniera giusta, ti fanno aumentare di quel 5-6% la prestazione fisica".

Quali sono queste sostanze?
"La più famosa è l’Epo".

Tornando al medico, ti dà una ricetta?
"No, il medico ti consiglia. Non ti può dare una ricetta perché, essendo un prodotto dopante, non si può prescrivere".

Il medico ti consiglia?
"Ti spiega più che altro come vanno fatte".

E tu cosa fai?
"Tramite l’ambiente del ciclismo cerchi di trovare quel tipo di farmaco".

Queste medicine le compri tu? Con i tuoi soldi?
"Certo".

E quanto costano?
"L’EPO 3/4.000 euro".

E come si prende l’Epo? Sono pastiglie?
"No, sono iniezioni".

Che si fanno quando?
"Prima si poteva fare anche tutti i giorni, adesso no perché viene scoperto nell’esame antidoping".

L’EPO più vicino alla gara lo fai meglio è?
"No, questo no. È una cura che bisogna fare per il periodo di tempo che si ritiene opportuno per poi essere al 100% della condizione".

Per usare una metafora ciclistica, chi va più forte? Il doping o l’antidoping?
"L’antidoping rincorre il doping, però il doping è sempre un passo avanti".

E dopo quanto arriva l’antidoping?
"Di preciso non lo so, però penso un paio d’anni".

Un ciclista può prendere l’Epo senza saperlo?
"Penso di no".

Per cui chiunque venga trovato positivo all’EPO sa di averlo preso?
"Ma..sì.

Il doping che ti sei fatto ti ha creato problemi fisici?
"No, non dà dei problemi. Innanzitutto il doping non è una droga, quindi non si è dipendenti. Secondo, il doping fatto in maniera corretta non fa male all’organismo".

Sicuro?
"Ha solo vantaggi fisici e basta"

E se si esagera?
"Se si esagera, a lungo andare il farmaco fa male al fisico".

Come fai a saperlo?
"Me l’ha detto qualcuno, perché è letto sui libri di scienza e perché è sulla mia pelle".

Oltre all’EPO si parla di sacche di sangue, di trasfusioni. È tutto vero?
"Le trasfusioni sono vere".

È da considerarsi doping?
"Certo. Puoi fare a meno dell’uso dell’EPO e usi la sacca. E nei controlli non vengono trovate".

Come funziona? Cosa fa un ciclista?
"Si toglie il sangue e dopo, quando ne ha bisogno, se lo rimette prima dell’appuntamento".

Questo sangue viene trattato?
"Alcune volte sì e alcune volte no, dipende".

E perché qualcuno se lo cambia?
"Perché rendi molto di più".

Quindi cambiarsi il sangue e prendere l’Epo cambia i livelli in campo?
"Il doping non cambia i livelli in campo. C’è perché c’è per tutti e uno si adegua, ma se non ci fosse il doping per nessuno i risultati sarebbero sempre gli stessi".

Per essere concreti, sui 200 ciclisti che partecipano al Giro D’Italia, normalmente quanti si dopano?
"Secondo me il 90%".

Quindi c’è un 10% pulito?
"Un 10% a cui non interessa in quel periodo il Giro D’Italia, che prepara altre gare e quindi non fa uso di doping".

Quindi tutti quelli che ambiscono alle prime posizioni nel ciclismo devono necessariamente fare uso di doping?
"È impossibile non fare uso di doping e arrivare nei primi 10 al Giro D’Italia".

Per cui possiamo dire che qualsiasi ciclista vincente non può non aver fatto uso di doping?
"Almeno una volta credo proprio di sì".

Esiste un’abilità nella scelta del doping migliore?
"È uguale per tutti. Perché i farmaci sono quelli. Poi magari capita, raramente, che esce un farmaco nuovo, che conosce solo un corridore, che è uscito in quel periodo e che magari riesce, solo in quella gara, ad essere superiore a tutti dal punto di vista del doping. Ma non è detto che vinca".

Quando ci si dopa? Prima di una gara?
"Prima, sì".

E durante?
"Durante è sempre difficile. Si può fare ma è difficile".

Quindi si può vincere anche da puliti?
"Tra virgolette puliti, perché comunque l’hai fatto prima".

Se lo fai prima rischi di meno?
"C’è chi rischia di più e chi rischia di meno, come in tutte le cose".

Gestire il doping è difficile e tu non sei stato bravissimo.
"Bravo, esattamente".

Hai fatto tutto da solo o ti hanno aiutato?
" Un po’ e un po’".

Stai ammettendo le tue colpe, ma nessuno lo fa.
" Nessuno ammette no. È normale, ognuno fa le sue cose".

Allora cosa dici a chi “fa le sue cose” e non ammette?
"Che loro sono comunque consapevoli di quello che io dico. Il doping c’è e ci sarà sempre. E che comunque per fare sport ad alto livello bisogna aiutarsi".

C’è in giro la voce che il Viagra aiuta?
"È una grossa stupidaggine. Se si usa il Viagra, non lo si fa per migliorare le prestazioni, ma quando fa freddo. Essendo un vaso dilatatore con il freddo ti riscalda il corpo".

Ma aumenta le prestazioni?
Secondo me no. Non l'ho mai provato".

Fra tutti quei campioni positivi al doping, cosa pensi di Armstrong?
"Armstrong, quando sono stato trovato positivo, ha parlato anche di me dicendo che ero uno stupido".

Perché ti ha dato dello stupido?
"Perché mi ero dopato. Però io Armstrong lo conosco: ha vinto 7 Tour De France e li avrebbe vinti comunque, anche senza doping. Anche lui si è adeguato".

Conosci qualche ciclista che non si è adeguato?
"No, mai conosciuto".

Pensi di aver danneggiato il ciclismo con la tua positività al doping?
"Sicuramente non è stata una cosa bella".

Dopo che sei stato squalificato la prima volta, quando sei rientrato come ti ha accolto l’ambiente?
"Non ho mai fatto nomi, ho sempre spiegato come funziona il doping ma non chi faceva doping. Quindi sono stato accolto come se non fosse successo nulla".

C’è qualcosa di cui ti sei pentito?
"Sicuramente di essere stato trovato positivo".

Hai capito dove hai sbagliato?
"Nel calcolare i tempi. È questione di ore. Magari 5 ore prima o 5 ore dopo e non sarei risultato positivo. Però non c’è una matematica certezza".

E rispetto ai tuoi colleghi che l’hanno fatta franca cosa pensi?
"Che sono stati più bravi di me".

La tua famiglia come l’ha presa?
"L’ha presa male, sicuramente".

Succede che ci siano delle combine nel ciclismo?
"Certo che succede: magari c’è un finale di gara con 5 corridori, c’è un corridore che si sente più forte degli altri, perché è più veloce degli altri e parla con un altro corridore che non è un suo compagno di squadra: “Ti do tot se mi tiri la volata. Ti do tot se mi vai a prendere quello che scatta”.

Te l’hanno mai proposto?
"Sì, l’ho fatto. E mi hanno pagato".

Succede che qualcuno non venga pagato?
"Sì, come no".

E poi cosa succede?
"Non so cosa succede tra di loro, qualcuno va a finire anche male.

Cosa fai adesso?
"Io adesso ho un negozio di bici, costruisco bici".

Com’è la storia delle bici col motore? È possibile?
"Certo che lo ritengo possibile".

Cioè? Spiegaci.
"Lo ritengo possibile perché c’era troppa differenza. Il doping non ti può dare quella differenza".

L’hai mai vista una bici col motore?
"Il motore so com’è fatto. Sono stati inventati credo 5/6 anni fa, si possono inserire dentro la bicicletta, quindi sono molto piccoli. Possano dare 150 watt di potenza".

E non se ne accorge nessuno? Non ci sono i controlli?
"Prima non si facevano perché non si sapeva. Quando si è iniziato a vociferare di questo motorino hanno iniziato".

Può esistere un ciclismo senza doping?
"Potrebbe esistere perché comunque i valori in campo sarebbero gli stessi, però secondo me non esisterà mai".

Cosa faresti?
"Liberalizzarlo forse sarebbe la soluzione migliore, ma secondo me è abbastanza improbabile".

E allora?
"Si va avanti come si è sempre andati: chi sbaglia e viene pizzicato viene squalificato".
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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14/02/2014 10:46
 
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Dieci anni fa moriva Marco Pantani, il Pirata è sempre in rosa

I tifosi hanno nostalgia del campione, del ciclista, a lei manca il figlio. Il 14 febbraio saranno passati 10 anni da quando il suo "piccolo" Marco chiuse per sempre le ali e lei, Tonina Pantani, aspetta ancora risposte concrete, certe. "Marco non tornerà mai, ma io aspetto ancora la verità, su Rimini (dove il 'Pirata' venne trovato morto, ndr) come su Madonna di Campiglio", dice all'ANSA. Mamma Tonina ha chiesto più volte che l'inchiesta sulla morte del vincitore di Giro e Tour 1998 venga riaperta, perché restano ancora tanti punti da chiarire. "Ho letto i faldoni - osserva - Marco non era da solo, quella sera del 14 febbraio 2004, nel residence di Rimini dove è stato trovato morto con lui potevano esserci più persone. Chiamò i carabinieri, parlando di persone che gli davano fastidio e, dopo un'ora, fu trovato morto". C'è anche la strana storia dei giubbotti "lasciati a Milano e ritrovati nel residence 'Le Rose', dove si era recato senza bagaglio". Chi li ha portati a Rimini? Questo, assieme a molti altri indizi, resta un mistero. "Il mio dubbio più grande è che Marco possa essere stato ucciso", ammette Tonina Pantani, attualmente assistita dall'avvocato Antonio De Rensis. Dopo 10 anni, le domande restano le stesse e vanno di pari passo con i sentimenti, i ricordi, il dolore, con il quale Tonina ha imparato a convivere. E' affranta, delusa, amareggiata e prova un po' di sollievo solo quando parla del suo Marco, delle sue imprese, dei trionfi, delle scalate. Andava più forte in salita, "perché così abbrevio la mia sofferenza", amava ripetere. "Era il numero 1, è stato un atleta irripetibile, un ragazzo buono, coraggioso - ricorda Tonina -: avrebbe dovuto mandare a quel paese tutti quanti, soprattutto chi gli diceva di non vincere. Il doping? E' sempre esistito, però Marco non lo ha mai preso. E poi, sai che soddisfazione: vincere sapendo di avere barato. Non era da Marco. Lui, per il ciclismo e per lo sport in generale, ha rappresentato tantissimo. Tutt'ora tanti bambini vanno a salutarlo al cimitero, lasciano disegnini per lui, lo ritraggono mentre pedala fra due ali di folla, in mezzo alle cime innevate. Questo è già di per sè bellissimo".

C'è una data nella vita di Marco che non può essere cancellata: il 5 giugno 1999, mentre si apprestava a vincere il suo secondo Giro d'Italia consecutivo, venne fermato a Madonna di Campiglio, perché il livello del suo ematocrito aveva toccato 51.9, oltre il massimo consentito di 50. Secondo mamma Pantani, in quel rilevamento dell'Unione ciclistica internazionale, ci sarebbe stato un vizio di forma. Tonina ha parlato di un "controllo fuori controllo". Se Rimini è stata l'ultima tappa di una vita breve ma intensissima, Campiglio è stata la prima di un calvario costellato da troppi lati oscuri. "Su quel giorno mi sono rimasti dentro tanti dubbi - è il pensiero di Tonina Pantani -: giorni prima, in maglia rosa, a Marco era stato rilevato un tasso di ematocrito pari a 46.0. Come ha fatto in pochi giorni a salire? E' tutto molto poco chiaro. Strano. Il mio Marco è sempre stato dolce, sereno, allegro, andava pazzo per i bambini. Ha sempre rispettato le regole. Mi diceva: 'Fai la brava che io devo badare a te quando sarai vecchia'. Invece... Se n'è andato". Le recenti dichiarazioni di Danilo Di Luca ("per arrivare fra i primi 10, al Giro devi per forza assumere l'Epo...") hanno lasciato il segno nell'anima della mite Tonina e fatto breccia nel suo cuore di mamma ferita. "Sono molto arrabbiata con lui, non mi piace la gente che spara nel mucchio - afferma -. Faccia i nomi davanti ai magistrati, se sa qualcosa. Per questo voglio incontrarlo, parlargli". Mamma Pantani non si dà pace, perché "prima di morire" vuole dimostrare la verità, tuttavia ribadisce che il suo "Marco si è battuto contro il doping". "Cosa gli direi se potessi incontrarlo? Io gli parlo ogni giorno, avverto sempre la sua presenza al mio fianco", conclude. Ma solo a parole, perché il 'Pirata' è volato via. Il capitolo della morte di uno dei campioni più controversi e amati della storia resta come un romanzo senza epilogo, i cui capitoli più interessanti devono ancora essere scritti. O forse no.


Domò l'Alpe d'Huez, il Galibier, il Mortirolo e tutte le montagne degli Dei con le sue gambe d'acciaio, l'agilità del felino e un cuore grande così. In salita sognava e fece sognare. A dieci anni dalla scomparsa, di Marco Pantani non resta solo il ricordo di campione genuino, carismatico, coraggioso, appassionato. Resta il Mito, la storia di un eroe tragico, di un campione irripetibile per tutte le emozioni che è riuscito a trasmettere nel Paese di Coppi e Bartali, di un uomo passato dalla gloria al fango, che ha scalato ogni vetta e conosciuto anche il baratro. Il 'Pirata' se n'è andato il giorno di San Valentino di 10 anni fa, paradosso della Storia per chi ha fatto innamorare di sé tutta l'Italia, che lo vedrà e immaginerà per sempre con la maglia rosa addosso. Marco Pantani "e' morto perchè era incredibilmente forte e incredibilmente fragile", scrisse Gianni Mura ed è la sintesi migliore per ricordarlo.

Di miti è ricca la storia sportiva e non solo. Ciascuno a modo suo. Coppi è un mito, Bartali è un mito e anche Marco Pantani è uno di loro, eroe indiscusso di un ciclismo che non esiste più, dell'entusiasmo popolare. Uno che correva da solo contro tutti, capace di far battere forte il cuore, di far piangere e sorridere insieme. Per questo i suoi tifosi lo hanno sempre amato, nonostante tutto, nonostante le accuse di doping, la cocaina, i dubbi e le polemiche. Nonostante quel modo di andarsene. Il 14 febbraio 2004 lo trovarono morto in una fredda stanza di un residence di Rimini. Aveva solo 34 anni e un carico grande così di disperazione: Marco Pantani, uno dei più grandi ciclisti italiani di sempre, tra i migliori scalatori della storia. Iniziò a correre con la vecchia bici di mamma Tonina, i giovani del Gruppo ciclistico di Cesenatico non avevano mai visto quel ragazzino mingherlino che però al primo allenamento staccò tutti in salita. Quando firmò il primo contratto da professionista Davide Boifava gli disse: 'Ricordati che ti ho fatto un bell'accordo', e lui di tutta risposta: 'Guarda che l'affare l'hai fatto tu, perché un giorno vincerò Giro e Tour'.


Marco mantenne la parola. L'inizio per la verità fu difficile perchè una lunga serie di infortuni si mise di traverso. Nel '95 fu travolto da un'auto e saltò la corsa rosa. Puntò tutto sul Tour de France e sull'Alpe d'Huez inanellò la prima perla della sua leggendaria carriera. Nell'ottobre di quell'anno, dopo essere arrivato terzo al Mondiale, un altro incidente lo costrinse a una lunga degenza. Ma la sfortuna non lo molla e al Giro del'97 un gatto gli taglia la strada e lo fa cadere, costringendolo ad abbandonare la corsa. Ancora una volta è il Tour il salvagente, con un'altra magnifica vittoria sull' Alpe d'Huez e il podio finale dietro a Ulrich e Virenque. L'anno d'oro è il 1998, quando il 'Pirata' irrompe definitivamente nell'Olimpo dei più grandi di sempre, conquistando sia il Giro che Tour, con le memorabili tappe di Montacampione, del Galibier e di Les Deux Alpes. Il 1999, dopo altre grandi imprese in salita (Gran Sasso, Oropa, Pampeago), segna l'inizio della discesa: il 5 giugno, dopo la tappa di Campiglio, i controlli fanno emergere un ematocrito oltre i margini di tolleranza. Non è doping ma tanto basta per sospenderlo dalla corsa. Marco è stordito, spaventato: "Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni, e sono tornato a correre. Questa volta, però, rialzarsi sarà per me molto difficile".

E' l'inizio dell'oblio e della depressione e quando Pantani torna in gara nel 1999, del campione è rimasta un'ombra sbiadita. Nel 2003 sceglie di ritirarsi per curarsi dalla depressione e dalla dipendenza dalla cocaina. Il resto sono cronaca e una data: 14 febbraio 2004, quando Marco viene trovato morto stroncato da un'overdose di cocaina, l'ultima salita che forse immaginava potesse essere la sua più grande vittoria. Aveva attaccato Tonkov, demolito Berzin, Jalabert, distrutto Ullrich, ma non era riuscito a sopravvivere a sé stesso. Marco non aveva mai avuto paura di nessuno, è vero, ma solo in bicicletta. La vita è stata per lui un'altra cosa. Dieci anni dopo, di quell'uomo speciale che ha elettrizzato e infiammato milioni di appassionati il ricordo non è sbiadito e il mito lo ha preso in custodia. Il suo posto nella storia del ciclismo è lì, ci è entrato per merito, col passo svelto dell'uomo di mare che ama le montagne, se l'è ritagliato, guadagnato con imprese epiche, emozionanti. Altri campioni hanno vinto molto e tanto più di lui ma di Marco si può ripetere quello che si disse per Coppi e del suo eterno rivale: è vero, Bartali ha vinto di più, ma Coppi e' stato un'altra cosa.

www.ansa.it
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09/04/2014 21:11
 
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è morto ultimate warrior [SM=g28000]
Dei wrestler anni '80 penso se ne siano andati almeno la metà.Quasi tutti per infarto.Che tristezza...
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08/05/2014 18:06
 
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32 anni senza Gilles Villeneuve

Sono 32 anni che Gilles non c’è più. Dall’8 maggio 1982. Nel giro di rientro ai box nelle qualifiche del gran premio del Belgio a Zolder, Gilles tirava come non riusciva a non fare, e volò ruota su ruota sulla March di Jochen Mass. La sua Ferrari si impennò e nel ricadere al suolo lo sbalzò fuori dall’abitacolo. Gilles Villeneuve finì contro un paletto delle reti di protezione (allora queste si usavano…) e si spezzò l’osso del collo.
Questa storia, e tutte le altre avvincenti storie di Gilles, le conoscono in molti e in questi giorni le riportano in tanti. Noi vogliamo provare a capire meglio cosa ha rappresentato Gilles per la Formula 1 e perché a detta di molti ha lasciato un vuoto incolmabile, un’assenza che nessun pilota è stato più in grado di colmare. Eppure Gilles è stato portatore di valori che oggi nessuno vuole più difendere, condividere e riproporre. Vediamo quali sono.
Vincere o Morire
Il primo grande confronto di Gilles è con Niki Lauda, pilota che sostituisce alla Ferrari. Lauda è il bicampione del mondo che ha riportato il titolo a Maranello dopo un decennio di sconfitte. Lauda è il sopravvissuto al rogo del Nurburgring ma è anche il pilota che nel diluvio del gran premio del Giappone del ’76, sul circuito del Fuji, si ritira per paura di avere un incidente, lasciando il titolo mondiale a James Hunt. Per il popolo ferrarista, e per Enzo Ferrari stesso, è un atto di codardia che neppure il successivo titolo mondiale del ’77 riesce a cancellare.
Gilles arriva a sostituire Lauda alla fine del 1977, quando mancano due gare alla fine del campionato e l’austriaco è già matematicamente campione del mondo. E ci arriva da perfetto sconosciuto: un pilota di motoslitte contro il campionissimo. Gilles vince il confronto con Lauda nel cuore dei tifosi ferraristi e prima di tutto nell’animo competitivo di Enzo Ferrari proprio per il coraggio che saprà dimostrare lungo tutta la sua carriera. Il Drake vede in lui un pilota d’altri tempi, consapevole di giocarsi la vita in ogni momento senza per questo essere pazzo, una maniera di vivere e morire che già alla fine degli anni ’70 molti trovavano inconcepibile e che oggi suona completamente assurda. Per questo non stupisce la schietta consapevolezza con cui Gilles dimostra di sapere che in ogni momento si gioca la vita e che non intende tirarsi indietro per nulla.

GP Giappone – Fuji 1977
La prima dimostrazione di questa lucidità è proprio nel suo secondo gran premio, Giappone 1977, quando a seguito di un incidente con il suo idolo Ronnie Peterson, la Ferrari di Gil impazzita finisce in mezzo al pubblico, che stava in realtà in una zona interdetta. Muoiono 4 persone: il commissario di pista Kengo Yiasa, il fotografo Kazuhiro Ohashi e 2 spettatori.
Gilles dichiara: “Noi piloti rischiamo la vita in ogni istante e l’errore può sempre capitare, non possiamo preoccuparci anche degli spettatori. Sono comunque terribilmente triste per le persone che hanno perso la vita, ma erano in un posto dove non avrebbero dovuto stare e non mi sento responsabile per la loro morte, quelle persone non dovevano trovarsi lì”.
Quale pilota mai oggi dichiarerebbe una cosa del genere?
Paradossalmente l’ultima vittima civile della Formula 1 è il commissario di pista australiano, Graham Beveridge, falciato dalla Bar di del figlio di Gilles, Jacques Villeneuve, nel gran premio di Melbourne del 2001.

Fino all’ultimo millimetro
GP Francia – Digione 1979
Al contrario del piloti ragionieri tanto acclamati oggi, per Gilles la Formula 1 finisce all’ultimo millimetro. L’ultimo millimetro in staccata, come a Digione nel 1979, quando con Renè Arnoux su Renault, diede luogo al più bel duello della storia della Formula 1. Gilles aveva sempre più millimetri di tutti in staccata.

GP Spagna – Jarama 1981
C’è l’ultimo millimetro prima della linea del traguardo, come a nel gran premio di Spagna del 1981 a Jarama, dove Gilles tiene dietro di sè per decine di giri cinque macchine più veloci di lui. Gli inseguitori si alternano nel tentare il sorpasso ma nessuno riesce a batterlo.
Questi due episodi sono una grandissima lezione di guida per chi oggi si lamenta che non si riesce a sorpassare in Formula 1. Gilles ha dimostrato come fare un sorpasso oltre il limite e come non farne fare nemmeno uno.
Poi c’è l’ultimo millimetro della macchina. Villeneuve era uno che avrebbe portato la macchina al traguardo anche a spinte (lo fece Nigel Mansell, ma questa è un’altra storia).
GP Olanda – Zandvoort 1979
Nel 1979 Zandvoort, nel gran premio d’Olanda, mentre era in testa alla gara arrivò all’ultimo millimetro delle gomme e uscì di pista per un testacoda innescato da una derapata in uscita di curva. Pur con una gomma stracciata, fece retromarcia e cercò di raggiungere la pitlane affidandosi al solo cerchione. Procedendo a una velocità folle per quelle condizioni, distrusse la sospensione posteriore, ma riuscì comunque a rientrare ai box dove pretese che i meccanici gli aggiustassero la macchina, cosa ovviamente impossibile.
GP Canada – Montreal 1981
Nel 1981 a Montreal nel gran premio del Canada, sotto un diluvio, Villeneuve rovina l’ala anteriore in un tamponamento. L’alettone si piega e va a oscurare completamente la visuale del pilota. Ma Gilles continua seguendo al millimetro la riga bianca ai bordi della pista, e fa segnare fra i tempi migliori al giro. Dopo un po’ l’alettone vola via e il pazzo Gilles conquista il terzo posto, riuscendo a controllare la macchina senza carico aerodinamico sotto la pioggia.
Gilles era così, voleva correre fino all’ultimo millimetro e ne trovava sempre uno in più degli altri.
Lealtà e fedeltà
Oggi si discute tanto di ordini di scuderia e di prima e seconda guida. Per Gilles c’erano solo due cose: la lealtà verso il compagno di squadra e la fedeltà alla scuderia. Fu così che a Monza nel 1979 Gilles avrebbe potuto passare Scheckter che era in testa e rimanere in corsa per il titolo mondiale. Invece rimase al secondo posto, proteggendolo dagli avversari e facendogli vincere il campionato. Ma soprattutto Gilles non si lamentò mai di essere una seconda guida.
GP San Marino – Imola 1982
Per questo pensiamo che Gilles sia morto non l’8 maggio 1982, ma due settimane prima a Imola, quando il suo compagno alla Ferrari, Didier Pironi, lo tradisce con un sorpasso all’ultimo giro, dopo che la scuderia aveva esposto il cartello SLOW a entrambi, che significava mantenere le posizioni e portare la macchina al traguardo.
Un tradimento inaccettabile per Gilles. Siamo dispiaciuti per lui che sia morto triste e ferito più dal suo comapagno che dal fatale incidente di Zolder.
Ecco un’intervista a Gilles Villeneuve dopo la gara di Imola ’82 e a pochi giorni dalla sua morte, in cui esprime proprio questo punto di vista:

www.youtube.com/watch?v=-3_mN8fQa8U

Oggi ancora, con soli sei gran premi vinti e nessun titolo mondiale, secondo noi Gilles Villeneuve rimane l’emblema del pilota di Formula 1, rimane la più grande leggenda di tutti i tempi della massima serie, e nemmeno i record di Michael Schumacher, la suprema maestria di Ayrton Senna, il professionalismo di Alain Prost, Niki Lauda e Juan Manuel Fangio, la velocità di Jim Clarke e di Jackie Stewart, riescono ad avvicinarsi alla leggenda.

Come disse Enzo Ferrari “Io in fondo gli volevo bene”. Anche noi ti vogliamo bene, Gilles.

www.derapate.it/articolo/32-anni-senza-gilles-villeneu...
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15/10/2014 12:10
 
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Armin Zoeggeler dice basta. Si ritira il più grande di sempre

MILANO – Armin Zoeggeler si ritira. Il 40enne di Foiana ha annunciato ufficialmente una decisione che era nell’aria in una conferenza stampa svoltasi presso lo Spazio Techa di Milano, nella zona Expo/Castello Sforzesco.

“Al termine delle Olimpiadi avevo già deciso, ma ho preferito non affrettare la decisione. Ho preferito prima parlare con tutti. Mi ritiro, perché penso sia il momento giusto“, ha dichiarato il campionissimo altoatesino.

Numeri alla mano, si chiude la carriera dello sportivo italiano più grande di tutti i tempi in campo maschile, superato per titoli complessivi solo dalla schermitrice Valentina Vezzali.

Impressionante il palmares del Cannibale, che elenchiamo di seguito:

- Olimpiadi: 2 ori (Salt Lake City 2002, Torino 2006), 1 argento (Nagano 1998) e 3 bronzi (Lillehammer 1994, Vancouver 2010 e Sochi 2014).

- Mondiali: 6 ori (record assoluto; Lillehammer 1995, Koenigssee 1999, Calgary 2001, Sigulda 2003, Park City 2005, Cesana 2011), 3 argenti (St. Mortiz 2000, Igls 2007 e Lake Placid 2009) e 1 bronzo (Altenberg 2012).

- Europei: 3 ori (Oberhof 2004, Cesana Torinese 2008, Sigulda 2014), 2 argenti (Winterberg 2006, Paramonovo 2012) e 3 bronzi (Koenigssee 1994, Winterberg 2000 ed Altenberg 2002).

- Coppa del Mondo: 10 (record assoluto; 1998, 2000, 2001, 2004, 2006, 2007, 2008, 2009, 2010, 2011), con 57 vittorie di tappa (record assoluto).

Ineguagliabile, forse irripetibile. Le sue gesta riempiranno per sempre pagine di storia del grande libro dello sport italiano, non solo dello slittino. Grazie di tutto, Armin.

www.olimpiazzurra.com/

In Francia avrebbe aperto pure Le Monde co sta notizia..qua se parla prima de Pellè e delle cazzate de Platini..
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15/10/2014 13:43
 
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Però diciamocelo tra noi lo slittino fa un po' saltare i coglioni a guardarlo. Comunque grande Armin, un gigante vero nella sua disciplina.
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Sono la rovina della Roma


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15/10/2014 17:31
 
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Sicuro! un pò come bob e skeleton..te sembrano tutti uguali quando scendono.E fai sempre fatica a capì fino a che punto incidono i materiali e quanto l'atleta.
Però un pò piu' de cultura sportiva in italia nn farebbe male ma del resto so riusciti pure a chiude Cesana, l'unica pista italiana de slittino messa su nel 2006 per le Olimpiadi..mo che s'è ritirato Zoeggeler quelli rimasti possono tranquillamente andà a gareggià con l'Austria.
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18/02/2015 19:31
 
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È morto Claude Criquielion, iridato di ciclismo nel 1984

Il belga aveva 58 anni: domenica notte era stato colpito da un’emorragia cerebrale. È stato uno dei grandi della sua epoca: vinse il Fiandre e la Freccia Vallone, ma alla Liegi-Bastogne-Liegi si inchinò sempre ad Argentin

È morto Claude Criquielion. Era nato a Lessines, il paese dove aveva visto la luce, e i colori, e i sogni, René Magritte. “Crique”, come veniva chiamato dai ciclofili, o “Claudy”, dagli amici, aveva 58 anni. La notte fra domenica e lunedì è stato travolto da un’emorragia cerebrale. Trasportato all’ospedale di Aalst, a una trentina di km da Bruxelles, non si è più ripreso.
Claude Criquielion è stato uno dei principali protagonisti delle classiche della sua epoca. Nato a Lessines, nel Belgio vallone, l’11 gennaio 1957, pro’ dal 1979 al 1991, si rivelò già nel 1980 con il 3° posto alla Vuelta. Nelle gare di un giorno vinse la Classica di San Sebastian nell’83, preludio all’esplosione dell’anno dopo, con il trionfo al Mondiale di Barcellona, davanti a Claudio Corti e Steve Bauer. Lo stesso Bauer che 4 anni dopo lo farà cadere nella volata del Mondiale di Renaix, a beneficio del terzo incomodo, Maurizio Fondriest: una caduta che lo farà diventare più famoso della stessa vittoria di Barcellona e delle altre sue 59 affermazioni, tra cui il Fiandre ’87, la Freccia-Vallone ’85 e ’89, il Gp Merckx ’84. Memorabili i suoi duelli con Moreno Argentin, soprattutto alla Liegi-Bastogne-Liegi, mai vinta.

gazzetta.it

RIP..

Memorabile la beffa di Renaix..vinse Fondriest ma Criquelion fu scippato del Mondiale che correvain casa da Bauer nella volata finale.
I due caddero e l'italiano vinse..
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10/03/2015 08:38
 
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Francia sotto choc...morti in incidente con elicottero in Argentina Camille Muffat , Florence Arthaud e Alexis Vastine durante le registrazioni della nuova trasmissione Dropped, il cui lancio era previsto la prossima estate sull’emittente francese TF1.

La Muffat aveva sfidato piu' volte la Pellegrini..Vastine, una famiglia istituzione per la boxe francese..aveva pure perso la sorella in un incidente stradale due mesi fa.

Numerosi altri sportivi facevano parte del casting del programma televisivo, ma per fortuna non si trovavano a bordo degli elicotteri incidentati. Oltre all’ex pattinatore Philippe Candeloro e al calciatore Sylvain Wiltord, avrebbero dovuto partecipare anche il nuotatore Alain Bernard e la ciclista Jeannie Longo.
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29/09/2015 12:27
 
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E'morto Erik Roner l'uomo che si tuffava nel cielo con l'ombrello.


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18/11/2015 21:16
 
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E' morto Jonah Lomu, la leggenda degli All Blacks aveva 40 anni

Si era ritirato nel 2010, ma la sua carriera si era fermata nel 1999, per una malattia ai reni che l’aveva costretto al trapianto. Poi i tentativi di ritorno.

È morto all’età di 40 anni il rugbista neozelandese Jonah Lomu, leggenda degli All Blacks. Ne dà notizia la Federazione di rugby della Nuova Zelanda: «Jonah era una leggenda del nostro gioco, amato dai suoi tanti fan sia qui che in tutto il mondo - ha detto l’a.d. della federazione Steve Tew -. Non abbiamo parole, i nostri pensieri e sentimenti vanno alla sua famiglia». Nel rugby c’è un prima e un dopo Jonah Lomu: il tre quarti ala è stato la prima vera superstar globale della palla ovale, che la sua enorme popolarità aiutò a far conoscere ben oltre gli appassionati tradizionali (che già non erano pochi).
I tentativi di rientro
Nel 1999, a soli 24 anni una malattia degenerativa dei reni costrinse Lomu a un trapianto e stroncò la sua carriera al suo picco. Una carriera iniziata prestissimo: a 19 anni Lomu fu il più giovane debuttante neozelandese in un test match. Non riuscì mai a tornare ai livelli raggiunti prima di quel 1999. Non riuscendo a trovare una squadra nel suo paese (era nato a Auckland nel 1975 da genitori tongani), Lomu provò a ricominciare dall’Europa: sette mesi in Galles nei Cardiff Blues, interrotti da un infortunio alla caviglia. Jonah tornò in patria, ma dopo tre sole partite nel North Harbour (che militava in un campionato provinciale) il club rinunciò a lui. Nel 2007, anno dell’annuncio del suo ingresso nella Hall of Fame del rugby, arrivò quindi l’annuncio del primo ritiro. Due anni dopo, un altro tentativo di rientro. a Marsiglia, nel Vitrolles, squadra di Terza divisione: ma in tutta la stagione Lomu giocò solo sette partite per poi annunciare l’addio definitivo.
La malattia
Pur avendo partecipato a due sole edizioni di Coppa del Mondo e da giovane (1995 e 1999), Lomu è il giocatore che ha realizzato il maggior numero di mete (15). Nel 2011 le prime notizie sui problemi al rene trapiantato sette anni prima: la dialisi si rivelò insufficiente, rendendo necessario un nuovo trapianto. La morte è arrivata improvvisamente, nella notte fra martedì e mercoledì.

corriere.it


Era il 19 giugno del 1995 quando, con un'impressionante esibizione, Jonah Lomu, autore di quattro mete, trascinò la Nuova Zelanda alla finale della World Cup di Rugby poi persa contro il Sudafrica.


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21/05/2016 09:41
 
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Gregorio Paltrinieri straordinario.
Se vince a Rio si è preso tutto.
In Europa ormai passeggia su 800 e 1500 stile. Una progressione di tempi negli ultimi 3 anni impresisonante.

E Detti che gli arriva dietro non è affatto male.

Nuoto unico sport individuale di un certo peso mondiale dove riusciamo a proporre campioni. Pure l'oro di Dotto sui 100 stile mica è robetta agli Europei.
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24/05/2016 10:01
 
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Oggi tutti a parlare dei cinquant'anni di Cantona su ReteSport.
Ma sono l'unico che di Cantona non gliene è mai fregato una mazza? allì'epoca manco lo calcolavo, con tutti i calciatori che c'erano.
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24/05/2016 10:10
 
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Era un personaggio però: aveva un cervello, dice(va) cose non scontate (the never banal Eric [SM=x2478856] ), ha fatto pure un film co' Loach [SM=g11491] . Poi magari come calciatore un po' sopravvalutato.
[Modificato da jandileida23 24/05/2016 10:11]
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24/05/2016 10:14
 
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ma infatti a me Ken Loach non piace. Alla terza inquadratura di council estates con operai inglesi sul lastrico per colpa della Thatcher mi viene l'orchite. Con tutta la stima, eh, sono battaglie sacrosante, però du' palle.
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24/05/2016 10:23
 
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Vabbè ma i fratelloni Dardenne hai mai avuto il piacere? Loach al confronto è Massimo Boldi [SM=x2478856]

Era per dire comunque che faceva cose che da un calciatore normale non t'aspetti. Tipo, l'hai mai visto Messi con la maglia della Palestina che c'aveva una faccia che non sapeva manco che stava a regge in mano?
[Modificato da jandileida23 24/05/2016 10:26]
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24/05/2016 10:27
 
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sì, purtroppo ho avuto il piacere. Ho retto mezz'ora. Certi film mi fanno venire simpatie per l'arte per l'arte, tipo Huysmans o i Parnassiani.
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