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Personaggi internazionali

Ultimo Aggiornamento: 20/02/2024 18:24
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15/10/2013 18:48
 
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mi dispiace per questo epilogo,non sapevo della sua malattia.
Veramente me lo ricordo solo per quel senegal sorprendente di diversi anni fa,con fadiga,diouf e diop.
rip.
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08/01/2014 18:28
 
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Quella "Pantera Nera" sospesa tra Mozambico e Portogallo:storia di Eusebio


Ci sono posti in cui il gioco del calcio è vissuto e praticato come un'arte: non solo un fatto agonistico e non solo fine a se stesso, i novanta minuti di una partita di calcio. Ci sono posti in cui il calcio è pura poesia popolare, sublime azione artistica che misteriosamente, si materializza senza alcun preavviso. Di questo calcio, uno degli alfieri, uno dei grandi interpreti - dello scroso secolo - è sicuramente stato Eusebio.
Questa è la sua storia.
E' stato molto più di un semplice giocatore Eusenio che, con il suo sorriso abbinato alla velocità d'esecuzione ha lasciato un segno indelebile nella storia del calcio, "do futebol" - come lo chiamano in Sudamerica - e, con quel sorriso, Eusebio Da Silva Ferreira ha saputo tracciare una linea strettissima che ha unito per sempre l'Africa, e il Mozambico - antica colonia portoghese - al Portogallo.
Eusebio se ne è andato domenica scorsa all'età di 71 anni e lascia in eredità 300 gol con la mitica maglia rossa del Benfica; e 41 gol - in appena 64 partite - con la maglia (rossa anch'essa) del Portogallo. Aveva un repertorio calcistico vario e irresistibile: il "suo" calcio era animato dalla giocata d'astuzia abbinata anche all'esecuzione acrobatica che spesso e volentieri, sapeva lasciare di stucco difensori e portieri avversari. Lo chiamavano "Pantera Nera" per la rapidità e la velocità del suo modo di giocare e per il colore della sua pelle.
-LE ORIGINI
Eusebio Da Silva Ferreira era nato in un giorno imprecisato del 1942 - solo molto più tardi gli venne comunicato che un giorno buono poteva essere il 25 gennaio - a Lourenco Marques, l'attuale Maputo, in Mozambico. Era poverissimo, ultimo di otto figli, orfano di padre. Le sue origini sono talmente umili che, quando si mette a giocare con palloni di fortuna - e di stracci - lo chiamano "Ninguém" ovvero "niente, nessuno". Ma non sarà così. perché Eusebio, sarà destinato a divenire uno dei più grandi calciatori del Novecento.
Il suo volto è perennemente malinconico e, questo deve averlo aiuto non poco quando arrivò a Lisbona poco più che dicottenne. un filo sottile lega le origini africane della "Pantera Nera" al destino del Portogallo, di quel Portogallo che sotto la spinta colonialista e fascista di Salazar sbarcherà in Africa per conquistare il Mozambico e le altre colonie cosiddette dell'"Africa portoghese". Una malinconia che si armonizza con Lisbona schiacciata, umiliata dalla lunga dittatura fascista che finirà per essere asfissiata dal regime feroce e razzista proprio come in Africa e, in Mozambico in particolare.
Tuttavia il suo calcio è pura poesia e allegria e le "sue" giocate riescono a dare un pò di sollievo al popolo portoghese e, ai tifosi del Benfica in particolare.
-LA CARRIERA
La leggenda vuoloe che Eusebio sia stato scoperto da un ex calciatore italiano, un ex portiere della Juventus, Ugo Amoretti, allenatore della formidabile futura "Pantera Nera" nel piccolo e modesto club di Lourenco. L'allenatore italiano lo segnala prontamente ai dirigenti delle squadre italiane ma, non lo ascoltano e non gli danno credito. Invece, la segnalazione dell'ex centrocampista della nazionale brasiliana Bauer va a buon fine: l'ex giocatore lo segnala all'ebreo ungherese Béla Guttman - a quel tempo tecnico del club lusitano non ancora diventato grande - che lo porta immediatamente alla squadra di Lisbona molto meno prestigiosa dello Sporting.
Fu così che Eusebio arrivò in al Benfica e conquistò tutti diventando l'ambasciatore nel mondo del Portogallo intero; divenne un simbolo transanazionale finendo per conquistare anche la Rivoluzione dei Garofani che dopo tempo immemore riuscì a far cadere la dittatura di Salazar.
Il giovane Eusebio esordì nel Benfica quando la squadra si era appena laureata - ancora una volta - campione d'Europa. Al Benfica gioca interrottamente dal 1960 al 1975; il suo palmarès comprende: 11 campionati portoghesi , cinque Coppe del Portogallo e una Coppa Campioni del 1962. Una partita memorabile quella. Eusebio aveva da poco compuito 20 anni e, il 2 maggio 1962 si trova ad Amsterdam pronto a giocarsi la partita della vita. Non è una partita come le altre: vale la vittoria della Coppa Campioni - la coppa dalle "grandi orecchie", come la chiamano cronisti e tifosi di tutta Europa - l'avversario che la "Pantera Nera" si trova davanti è quello da far tremare i polsi. E' il Real Madrid, il club "merengues", pluridecorato, infarcito di grandi campioni del calibro di Puskas - il fenomenale giocatore magiaro e, il grandissimo Alfredo Di Stefano elegantissimo centrocampista dal gioco universale, che sapeva far tutto con i piedi fatati di cui disponeva; giocatore di origene argentina, naturalizzato spagnolo - quel Real Madrid ambasciatore dei vessilli fascisti del Generalissimo Franco.
La finale prende subito una piega drammatica per la squadra di Lisbona: in men che non si dica, il Real Madrid è gia avanti di due gol, reti segnate entrambe da Puskas. Il Benfica però non si da per vinto riuscendo a risalire la corrente e a pareggiare. Tuttavia il real Madrid - con la forza dei vincenti e del grande club - riesce nuovamente a passare in vantaggio. Sembra la fine per il Benfica. Nella squadra portoghese milita un grandissimo giocatore, un giocatore dalla classe scristallina: Coluna che, nella gara più importante riesce a cancellare dal cuore della sfida per il "tetto d'Europa" nientemeno che Di Stefano e, riesce a portare sul pareggio il Benfica. A questo punto irrompe nella storia della finalissima Eusebio. Quando mancano 30 minuti alla fine dei tempi regolamentari, la "Pantera Nera" imperversa e spacca la partita riuscendo a segnare una storica doppietta portando il risultato finale sul 5 a 3. E' l'apoteosi di Eusebio e del Benfica.
-EUSEBIO E LA NAZIONALE PORTOGHESE
La carriera di Eusebio con la nazionale del Portogallo si snoda in appena 64 partite e con lo score invidiabile di 41 gol. Questa media eccezionale si deve al fatto che Eusebio con la maglia rosso-verde del Portogallo giocava in modo differente rispetto al Benfica: qui, la "Pantera Nera" si muoveva da "finto centravanti" - un ruolo toccato ad altri mostri sacri del calcio, giocatori del calibro di Pelé, Sivori e, in epoche a noi più prossime ad assi del calibro di Maradona e Messi - aveva compiti particolari Eusebio: svariare su tutto il "fronte d'attacco" in modo che poi, la sua presenza finiva col favorire un cursore infaticabile come José Augusto, un'ala velocissima Simoes e, sopratutto, un regista dalla classe immensa, un giocatore fantastico, colored (proprio come Eusebio), con la fascia da capitano al braccio, il già citato (e indimenticabile) Mario Coluna.
A Eusebio sono state dedicate pagine bellissime da parte di scrittori e narratori, uno di questi è il grandissimo scrittore uruguayano, Eduardo Galeano. In "Splendore e miserie del gioco del calcio" gli dedica un breve ma intenso ritratto: "Fece il suo ingresso sui campi correndo come può correre solo chi fugge dalla polizia o dalla miseria che gli morde i talloni....E allora lo chiamarorno la Pantera. Nel Mondiale del '66, le sue zampate lasciarono un mucchio di avversari a terra e i suoi gol da angolazioni impossibili suscitarono ovazioni che sembravano non finire mai. Fu un africano del Mozambico il miglior giocatore di tutta la storia del Portogallo: Eusebio, gambe lunghe, braccia cadenti, sguardo triste".
-EUSEBIO E IL PORTOGALLO DEMOCRATICO
Al termine della lunga dittatura di Salazar, Eusebio riesce inoltrarsi con naturalezza nel Portogallo democratico forse, in qualche modo - attraverso le sue proverbiali giocate - preannunciato quando ancora ci credevano in pochi. E' stato un personaggio atipico: rimanendo un individuo laconico, non ha mai avuto nè gli atteggiamenti nè l'appeal della star forse perché non ha potuto dimenticare mai da dove provenisse, da quale parte del mondo era nato e, che quella storia ( e quella geografia) porta indelebilmente i segni dell'asfissiante, opprimente colonialismo dal tratto decisamente razzista e altrettanto indelebile "faccia" militarista, sanfedista, del fascismo. Sarà per questi tratti che il suo volto ha sempre avuto quella sottile, intensa piga di tristezza e di malinconia che tanto lo rendeva simile a Lisbona, quella Lisbona cantata, descritta da Fernando Pessoa.
-L'ULTIMO SALUTIO.
Appena la notizia della morte dell'ex "Pantera Nera" è diventata di dominio pubblico, le autorità portoghesi hanno istituito 3 giorni di lutto nazionale. Il Portogallo intero si è fermato per ricordare Eusebio.Migliaia di tifosi del Benfica, commossi, sono accorsi - nella mattinata dell'Epifania, allo stadio "Da Luz", il tempio della squadra lusitana - e Lisbona ha così tributato il suo ultimo saluto al suo "figlio prediletto" quell'africano del Mozambico che con il suo ncalcio poetico li ha saputi ben rappresentare in tutto il mondo. Alle 11 i cancelli sono stati aperrti e, come espressamente richiesto dal grande giocatore, in mezzo al campo è stata allestita la camera ardente. A fare da cornice la feretro di Eusebio c'erano distese di fiori, candele, sciarpe e maglie del Benfica che, a turno sono state depositate ai piedi della statua dedicata al Pallone d'Oro 1965. A questo punto, per l'ultima volta, Eusebio e il suo feretro nella bara ha fatto l'ultimo giro d'onore nel "Da Luz". Negli stessi iostanti partiva l'inno del club cantato all'unisono da tutti i presenti. Il cerimoniale poi ha visto la processione del feretro per le strade di Lisbona.
Intanto il Benfica ha deciso che le maglie del club lusitano d'ora in avanti avranno l'immagine di Eusebio su sfondo nero.
Un ultimo sentito omaggio alla "Pantera Nera".

bob-fabiani.blogspot.it/

[SM=g10633]

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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01/02/2014 12:49
 
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è morto Luis Aragones, bandiera dell'Atletico Madrid da calciatore e allenatore e tecnico della Spagna campione d'Europa del 2008..il ciclo vincente di Iniesta and co. praticamente l'ha avviato lui.

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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01/02/2014 13:21
 
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Re:
Sound72, 08/01/2014 18:28:


Quella "Pantera Nera" sospesa tra Mozambico e Portogallo:storia di Eusebio


Ci sono posti in cui il gioco del calcio è vissuto e praticato come un'arte: non solo un fatto agonistico e non solo fine a se stesso, i novanta minuti di una partita di calcio. Ci sono posti in cui il calcio è pura poesia popolare, sublime azione artistica che misteriosamente, si materializza senza alcun preavviso. Di questo calcio, uno degli alfieri, uno dei grandi interpreti - dello scroso secolo - è sicuramente stato Eusebio.
Questa è la sua storia.
E' stato molto più di un semplice giocatore Eusenio che, con il suo sorriso abbinato alla velocità d'esecuzione ha lasciato un segno indelebile nella storia del calcio, "do futebol" - come lo chiamano in Sudamerica - e, con quel sorriso, Eusebio Da Silva Ferreira ha saputo tracciare una linea strettissima che ha unito per sempre l'Africa, e il Mozambico - antica colonia portoghese - al Portogallo.
Eusebio se ne è andato domenica scorsa all'età di 71 anni e lascia in eredità 300 gol con la mitica maglia rossa del Benfica; e 41 gol - in appena 64 partite - con la maglia (rossa anch'essa) del Portogallo. Aveva un repertorio calcistico vario e irresistibile: il "suo" calcio era animato dalla giocata d'astuzia abbinata anche all'esecuzione acrobatica che spesso e volentieri, sapeva lasciare di stucco difensori e portieri avversari. Lo chiamavano "Pantera Nera" per la rapidità e la velocità del suo modo di giocare e per il colore della sua pelle.
-LE ORIGINI
Eusebio Da Silva Ferreira era nato in un giorno imprecisato del 1942 - solo molto più tardi gli venne comunicato che un giorno buono poteva essere il 25 gennaio - a Lourenco Marques, l'attuale Maputo, in Mozambico. Era poverissimo, ultimo di otto figli, orfano di padre. Le sue origini sono talmente umili che, quando si mette a giocare con palloni di fortuna - e di stracci - lo chiamano "Ninguém" ovvero "niente, nessuno". Ma non sarà così. perché Eusebio, sarà destinato a divenire uno dei più grandi calciatori del Novecento.
Il suo volto è perennemente malinconico e, questo deve averlo aiuto non poco quando arrivò a Lisbona poco più che dicottenne. un filo sottile lega le origini africane della "Pantera Nera" al destino del Portogallo, di quel Portogallo che sotto la spinta colonialista e fascista di Salazar sbarcherà in Africa per conquistare il Mozambico e le altre colonie cosiddette dell'"Africa portoghese". Una malinconia che si armonizza con Lisbona schiacciata, umiliata dalla lunga dittatura fascista che finirà per essere asfissiata dal regime feroce e razzista proprio come in Africa e, in Mozambico in particolare.
Tuttavia il suo calcio è pura poesia e allegria e le "sue" giocate riescono a dare un pò di sollievo al popolo portoghese e, ai tifosi del Benfica in particolare.
-LA CARRIERA
La leggenda vuoloe che Eusebio sia stato scoperto da un ex calciatore italiano, un ex portiere della Juventus, Ugo Amoretti, allenatore della formidabile futura "Pantera Nera" nel piccolo e modesto club di Lourenco. L'allenatore italiano lo segnala prontamente ai dirigenti delle squadre italiane ma, non lo ascoltano e non gli danno credito. Invece, la segnalazione dell'ex centrocampista della nazionale brasiliana Bauer va a buon fine: l'ex giocatore lo segnala all'ebreo ungherese Béla Guttman - a quel tempo tecnico del club lusitano non ancora diventato grande - che lo porta immediatamente alla squadra di Lisbona molto meno prestigiosa dello Sporting.
Fu così che Eusebio arrivò in al Benfica e conquistò tutti diventando l'ambasciatore nel mondo del Portogallo intero; divenne un simbolo transanazionale finendo per conquistare anche la Rivoluzione dei Garofani che dopo tempo immemore riuscì a far cadere la dittatura di Salazar.
Il giovane Eusebio esordì nel Benfica quando la squadra si era appena laureata - ancora una volta - campione d'Europa. Al Benfica gioca interrottamente dal 1960 al 1975; il suo palmarès comprende: 11 campionati portoghesi , cinque Coppe del Portogallo e una Coppa Campioni del 1962. Una partita memorabile quella. Eusebio aveva da poco compuito 20 anni e, il 2 maggio 1962 si trova ad Amsterdam pronto a giocarsi la partita della vita. Non è una partita come le altre: vale la vittoria della Coppa Campioni - la coppa dalle "grandi orecchie", come la chiamano cronisti e tifosi di tutta Europa - l'avversario che la "Pantera Nera" si trova davanti è quello da far tremare i polsi. E' il Real Madrid, il club "merengues", pluridecorato, infarcito di grandi campioni del calibro di Puskas - il fenomenale giocatore magiaro e, il grandissimo Alfredo Di Stefano elegantissimo centrocampista dal gioco universale, che sapeva far tutto con i piedi fatati di cui disponeva; giocatore di origene argentina, naturalizzato spagnolo - quel Real Madrid ambasciatore dei vessilli fascisti del Generalissimo Franco.
La finale prende subito una piega drammatica per la squadra di Lisbona: in men che non si dica, il Real Madrid è gia avanti di due gol, reti segnate entrambe da Puskas. Il Benfica però non si da per vinto riuscendo a risalire la corrente e a pareggiare. Tuttavia il real Madrid - con la forza dei vincenti e del grande club - riesce nuovamente a passare in vantaggio. Sembra la fine per il Benfica. Nella squadra portoghese milita un grandissimo giocatore, un giocatore dalla classe scristallina: Coluna che, nella gara più importante riesce a cancellare dal cuore della sfida per il "tetto d'Europa" nientemeno che Di Stefano e, riesce a portare sul pareggio il Benfica. A questo punto irrompe nella storia della finalissima Eusebio. Quando mancano 30 minuti alla fine dei tempi regolamentari, la "Pantera Nera" imperversa e spacca la partita riuscendo a segnare una storica doppietta portando il risultato finale sul 5 a 3. E' l'apoteosi di Eusebio e del Benfica.
-EUSEBIO E LA NAZIONALE PORTOGHESE
La carriera di Eusebio con la nazionale del Portogallo si snoda in appena 64 partite e con lo score invidiabile di 41 gol. Questa media eccezionale si deve al fatto che Eusebio con la maglia rosso-verde del Portogallo giocava in modo differente rispetto al Benfica: qui, la "Pantera Nera" si muoveva da "finto centravanti" - un ruolo toccato ad altri mostri sacri del calcio, giocatori del calibro di Pelé, Sivori e, in epoche a noi più prossime ad assi del calibro di Maradona e Messi - aveva compiti particolari Eusebio: svariare su tutto il "fronte d'attacco" in modo che poi, la sua presenza finiva col favorire un cursore infaticabile come José Augusto, un'ala velocissima Simoes e, sopratutto, un regista dalla classe immensa, un giocatore fantastico, colored (proprio come Eusebio), con la fascia da capitano al braccio, il già citato (e indimenticabile) Mario Coluna.
A Eusebio sono state dedicate pagine bellissime da parte di scrittori e narratori, uno di questi è il grandissimo scrittore uruguayano, Eduardo Galeano. In "Splendore e miserie del gioco del calcio" gli dedica un breve ma intenso ritratto: "Fece il suo ingresso sui campi correndo come può correre solo chi fugge dalla polizia o dalla miseria che gli morde i talloni....E allora lo chiamarorno la Pantera. Nel Mondiale del '66, le sue zampate lasciarono un mucchio di avversari a terra e i suoi gol da angolazioni impossibili suscitarono ovazioni che sembravano non finire mai. Fu un africano del Mozambico il miglior giocatore di tutta la storia del Portogallo: Eusebio, gambe lunghe, braccia cadenti, sguardo triste".
-EUSEBIO E IL PORTOGALLO DEMOCRATICO
Al termine della lunga dittatura di Salazar, Eusebio riesce inoltrarsi con naturalezza nel Portogallo democratico forse, in qualche modo - attraverso le sue proverbiali giocate - preannunciato quando ancora ci credevano in pochi. E' stato un personaggio atipico: rimanendo un individuo laconico, non ha mai avuto nè gli atteggiamenti nè l'appeal della star forse perché non ha potuto dimenticare mai da dove provenisse, da quale parte del mondo era nato e, che quella storia ( e quella geografia) porta indelebilmente i segni dell'asfissiante, opprimente colonialismo dal tratto decisamente razzista e altrettanto indelebile "faccia" militarista, sanfedista, del fascismo. Sarà per questi tratti che il suo volto ha sempre avuto quella sottile, intensa piga di tristezza e di malinconia che tanto lo rendeva simile a Lisbona, quella Lisbona cantata, descritta da Fernando Pessoa.
-L'ULTIMO SALUTIO.
Appena la notizia della morte dell'ex "Pantera Nera" è diventata di dominio pubblico, le autorità portoghesi hanno istituito 3 giorni di lutto nazionale. Il Portogallo intero si è fermato per ricordare Eusebio.Migliaia di tifosi del Benfica, commossi, sono accorsi - nella mattinata dell'Epifania, allo stadio "Da Luz", il tempio della squadra lusitana - e Lisbona ha così tributato il suo ultimo saluto al suo "figlio prediletto" quell'africano del Mozambico che con il suo ncalcio poetico li ha saputi ben rappresentare in tutto il mondo. Alle 11 i cancelli sono stati aperrti e, come espressamente richiesto dal grande giocatore, in mezzo al campo è stata allestita la camera ardente. A fare da cornice la feretro di Eusebio c'erano distese di fiori, candele, sciarpe e maglie del Benfica che, a turno sono state depositate ai piedi della statua dedicata al Pallone d'Oro 1965. A questo punto, per l'ultima volta, Eusebio e il suo feretro nella bara ha fatto l'ultimo giro d'onore nel "Da Luz". Negli stessi iostanti partiva l'inno del club cantato all'unisono da tutti i presenti. Il cerimoniale poi ha visto la processione del feretro per le strade di Lisbona.
Intanto il Benfica ha deciso che le maglie del club lusitano d'ora in avanti avranno l'immagine di Eusebio su sfondo nero.
Un ultimo sentito omaggio alla "Pantera Nera".

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non lo sapevo.. mi dispiace


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26/04/2014 12:22
 
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22:50 - Tito Vilanova non ce l'ha fatta. L'ex allenatore del Barcellona, ricoverato in gravi condizioni in un ospedale della città catalana, è morto a 45 anni a causa dell'aggravarsi del tumore alla ghiandola parotidea. Inutile è stato l'ennesimo intervento di urgenza per le complicazioni a livello gastrico, Vilanova si è arreso alla grave malattia che lo perseguitava dal 2011. A darne l'annuncio alla stampa spagnola è stata la famiglia del tecnico.
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che calvario che ha passato,mi dispiace molto.
RIP [SM=g27992]
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27/04/2014 23:10
 
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Addio pure a Vujadin Boskov...

a momenti ci porta in B l'anno con Ciarrapico arrestato e Caniggia dopato..
ma impossibile non volergli bene...
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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27/04/2014 23:26
 
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mi dispiace,erano anni che non si avevano notizie di boskov.Un protagonista del calcio vero e un personaggio genuino.Grande quella samp.Da noi è capitato nel momento sbagliato.rip
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02/06/2014 20:50
 
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Brasile, morto Francisco Marinho fu una delle stelle di Monaco '74

L'ex terzino della nazionale verdeoro, celebre per la sua capigliatura, lo stile di gioco arrembante e una vita sregolata, è deceduto per una emorragia interna durante un evento a Joao Pessoa. Aveva 62 anni ed aveva problemi di alcol. Negli anni Settanta era un idolo: fece anche un tunnel a Pelè.

E' morto all'alba di oggi, all'età di 62 anni, Francisco das Chagas Marinho, da tutti conosciuto come Francisco Marinho. Ex terzino della nazionale brasiliana degli anni Settanta, Marinho è rimasto vittima di una emorragia interna ieri durante un evento dedicato ai collezionisti di figurine Panini (popolarissime anche in Brasile) a cui stava partecipando, nella città di Joao Pessoa. Immediatamente soccorso, era stato poi ricoverato in un ospedale cittadino, dove è morto all'alba di oggi, alle 3 ora brasiliana, secondo quanto ha confermato la famiglia dell'ex calciatore, che aveva 62 anni. Era stato uno dei giocatori simbolo dei mondiali tedeschi del 1974. "Uno degli ultimi romantici del calcio ha perso la lotta contro l'alcol" ha titolato Tv Globo (ripreso poi anche dal sito 'Globoesporte') annunciando la scomparsa dell'ex calciatore.

Francisco Marinho, nato nel 1952 a Natal, si era calcisticamente 'consacratò nel Botafogo, poi aveva giocato nel Fluminense e nel San Paolo, prima di diventare una delle stelle dei New York Cosmos, dove era andato per far parte di un team di stelle come Pelè (al quale una volta fece un tunnel in un Botafogo-Santos al Maracanà), Beckenbauer, Chinaglia, Carlos Alberto e Neeskens. Tornato in patria giocò nel Fortaleza, per poi vivere un'esperienza in Germania, all'Augsburg.

Famoso per i lunghi capelli biondi che lo rendevano popolarissimo presso il pubblico femminile (era considerato, anche per il suo stile di vita, una sorta di 'George Best brasiliano'), è stato uno dei primi terzini 'all'olandese' con le sue sgroppate sulla fascia sinistra, nonostante il suo piede preferito fosse il destro. Da tempo colui che al Botafogo venne considerato l'unico erede dell''Enciclopedia del calciò Nilton Santos, aveva problemi di dipendenza dall'alcol e già l'anno scorso aveva rischiato di morire per un'altra emorragia interna. In quella circostanza, dopo un ricovero in terapia intensiva di dieci giorni in un ospedale di Natal, aveva giurato "di non bere più nemmeno una goccia d'alcol: l'anno prossimo ci sono i Mondiali in casa nostra, e non posso proprio perdermeli". Purtroppo 'o Bruxa' (la Strega), com'era soprannominato, non potrà realizzare questo desiderio.

repubblica.it

www.youtube.com/watch?v=lxXaXfwhfJk

gran fisico, triste fine
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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13/06/2014 16:58
 
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Carlos Caszely: l'attaccante che non salutava Pinochet

Santiago del Cile, 21 novembre 1973. A due mesi dal golpe militare che ha portato al potere il generale Augusto Pinochet, la nazionale di calcio si gioca la qualificazione ai Mondiali dell'anno successivo, in programma in Germania Ovest: sulla strada dei sudamericani c'è lo spareggio contro la temibile Unione Sovietica. Il 26 settembre a Mosca va in scena il match di andata: le due squadre chiudono a reti inviolate grazie all'eccellente prestazione dei centrali difensivi cileni Quintano e Figueroa. Il ritorno è in programma nella capitale cilena: lo stadio nazionale, da luogo dedicato allo sport più popolare del mondo, è diventato in men che non si dica un grande campo di concentramento a cielo aperto. Gli spalti si trasformano in prigioni, gli spogliatoi nel luogo delle fucilazioni, i sotterranei nelle camere di tortura.
L'eco della triste trasformazione dell'Estádio Nacional solca gli oceani e giunge in tutto il mondo: i sovietici si rifiutano di giocare in uno stadio pieno di prigionieri politici, chiedono di far disputare il match di ritorno in campo neutro ed invitano la Fifa ad effettuare delle verifiche all'interno dell'impianto. Gli ispettori del massimo organo calcistico mondiale, però, non ravvisano alcuna irregolarità e concedono l'agibilità all'Estádio Nacional. Ma l'Urss, frattanto, non si schioda dalla sua posizione: in segno di protesta, non scenderà in campo. La Roja allenata da Luis Álamos viene invitata dalla Federcalcio nazionale a presentarsi comunque allo stadio, con la consapevolezza che i sovietici sono rimasti a Mosca: la vittoria a tavolino per 2-0 qualifica di diritto il Cile ai prossimi Mondiali.
I militari approfittano dell'occasione per radunare sugli spalti migliaia di tifosi che assistono ad una delle più grandi pantomime nella storia dello sport: la nazionale cilena scende in campo contro un avversario fantasma, con un arbitro austriaco che si presta alla messinscena, pronto a dare il fischio d'inizio di un'assurda contesa.

Dopo essere passato tra i piedi di nove diversi giocatori, il pallone finisce a Carlos Caszely, popolare attaccante del Colo Colo e fervido sostenitore di Allende: deciso a calciarlo in fallo laterale per non prestarsi alla farsa sceneggiata dal regime, all'ultimo istante lo passa al capitano Francisco Valdés, figlio di operai e militante di sinistra, l'incaricato di depositare la sfera nella porta sguarnita. Valdés, al rientro negli spogliatoi, si rinchiude in bagno ed inizia a vomitare. Anche Caszely si sente un vigliacco e con lui tutti gli altri giocatori: la paura che serpeggiava prima dell'incontro adesso cede spazio alla vergogna.

Berlino Ovest, 14 giugno 1974. Il Cile esordisce ai Mondiali contro i padroni di casa della Germania Ovest: i tedeschi rompono gli indugi con una staffilata di Breitner, il terzino sinistro maoista, e mantengono l'esiguo ma prezioso vantaggio sino alla fine. Non è una giornata memorabile per Caszely: El Gerente - questo il suo soprannome - tenta di scalciare il difensore avversario Vogts e si fa espellere, divenendo così il primo calciatore nella storia dei Mondiali a vedersi sventolare il cartellino rosso, introdotto nell'edizione precedente.

La Roja, orfana del suo principale terminale offensivo, pareggia il successivo incontro con la Germania Est (1-1) per poi chiudere mestamente con uno scialbo 0-0 contro la modesta Australia. L'uscita di scena è tanto immediata quanto ingloriosa, il rosso della maglia sembra coincidere con il sangue di cui il regime si è macchiato, così come sporca era la qualificazione del Cile ai Mondiale.

Per anni quella stessa maglia sarà interdetta a Caszely, a causa della sua avversione a Pinochet: viene richiamato per la Copa America del 1979, nel corso della quale trascina i compagni in finale, e poi contribuisce alla qualificazione per i Mondiali di Spagna del 1982. Qui Carlitos fallisce un rigore nell'incontro con l'Austria: la stampa cilena lo accuserà di averlo fatto intenzionalmente per le sue simpatie socialiste. Chiude la sua esperienza in nazionale con 49 presenze e 29 reti: attualmente è il terzo miglior marcatore di sempre nella storia della Roja, dopo l'ex laziale Marcelo Salas e l'ex interista Ivan Zamorano. Nel 1985 si ritira dall'attività agonistica: la sua ultima partita si chiude come una tumultuosa manifestazione politica, contrassegnata da numerosi incidenti.

Dopo aver vissuto per anni con un profondo senso di vergogna per non aver fatto niente per il suo paese, per gli amici seviziati e fucilati allo stadio, Caszely decide di uscire allo scoperto. Corre l'anno 1988: le norme transitorie della Costituzione, scritta e voluta dallo stesso Pinochet, prevedono l'indizione di un referendum per votare un nuovo mandato presidenziale della durata di 8 anni. Nella propaganda elettorale televisiva Caszely diventa protagonista di un duro spot contro il dittatore: l'ex attaccante racconta la cruda storia di sua madre, sequestrata e torturata dai golpisti.

La sua popolarità, specie tra i cileni che avevano subito gli orrori del regime, contribuisce alla sorprendente vittoria del fronte del No con il 58% dei consensi: la Costituzione stessa prevede adesso libere elezioni per l'anno successivo. Alle urne i cileni decidono di voltare pagina, scegliendo il candidato avversario Patricio Aylwin, esponente di centrosinistra.

Tuttavia, Pinochet rimane a capo dell'esercito fino al 1998, divenendo in seguito senatore a vita con il beneficio dell'immunità parlamentare e ricevendo nel frattempo (1993) una speciale benedizione da parte del papa Giovanni Paolo II. Muore il 10 dicembre 2006, dopo diciassette anni di dittatura e 30mila vittime sulla coscienza e senza un solo giorno trascorso in un carcere.

Intervistato da una radio spagnola, Caszely, divenuto nel frattempo giornalista sportivo e commentatore in patria per l'emittente tv Canal 13, ha raccontato all'indomani della scomparsa del dittatore: "Nella nazionale cilena non ci fu mai un sì o un no: non si parlava di politica". E poi: "Tutte le volte in cui ho incontrato Augusto Pinochet in occasioni ufficiali non l'ho salutato né gli ho dato la mano, non mi sono mai piaciuti i dittatori. Credo nella democrazia e credo anche di essere stato l'unico calciatore democratico degli anni Settanta".

simonepierotti.blogspot.it/2009/ ... ochet.html

La farsa di Cile-Urss

www.youtube.com/watch?v=KvMi0cXaZDI

Si disse anche che Caszely si fece espellere contro i tedeschi dell'ovest per non giocare contro la DDR del regime comunista e della Stasi.
Che storia cmq
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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07/07/2014 19:49
 
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Addio ad Alfredo Di Stefano, leggenda e signore del calcio

Aveva 88 anni. Per molti era più forte di Pelé e Maradona.
Due volte Pallone d’Oro, vinse tutto con la maglia del Real


La «saeta rubia» ha smesso di correre, Alfredo Di Stefano è morto oggi due giorni dopo essere stato colto da infarto. Al di là dei numeri (1 Coppa America appena ventenne, 8 volte campione di Spagna col Real, 5 Coppe dei Campioni consecutive sempre con le «merengues» e segnando in tutte le finali, 2 Palloni d’oro), la Storia lo ricorderà come una leggenda e comunque tra i più grandi di sempre.

“Meglio di Pelé e Maradona” Molti di quelli che lo hanno visto giocare, infatti, sono pronti a giurare che la sua grandezza fosse addirittura superiore a quella di Pelé e Maradona. La classifica rimane arbitraria e comunque impossibile da stilare, certo è che la “saeta rubia” è stato il primo giocatore universale.

Voluto da Franco
Di Stefano, scomparso all’età di 88 anni, era nato a Buenos Aires: ma fu in Spagna, nel Real Madrid, che scrisse pagine indelebili del calcio mondiale. Per uno scherzo del destino, Di Stefano era destinato a vestire la maglia del Barcellona, ma fu dirottato nella capitale spagnola da un intervento diretto del Caudillo Franco. Fu soprannominato la «saetta bionda» perché spaziando in ogni parte del campo era capace di salvare la sua porta dal gol per infilare poi subito la palla nella porta avversaria, raggiunta con una delle sue discese travolgenti che gli portarono appunto il soprannome di «saeta rubia». In più, aveva una caratteristica unica per quei tempi: un attaccante di pura classe che aiutava la difesa, impostava l’azione e andava in gol. Il tutto ad una velocità sconosciuta per quei tempi, quando il calcio si muoveva ancora al rallentatore. Insomma, un leader per classe, carisma e per quell’innato senso di superiorità, proprio di un altro argentino che trent’anni dopo gli avrebbe rubato la scena.
Gli esordi e i trionfi
Dopo un inizio di carriera nell’argentino River Plate e nei Millionarios di Bogotà, contribuì poi in maniera determinante ai successi del Real Madrid dal 1953 al 1964. Eletto Pallone d’oro due volte (1957 e 1959), Di Stefano aveva realizzato 49 gol in 58 partite di Coppa Campioni (l’attuale Champions League) che aveva vinto cinque volte consecutive con il Real (1956-60), mentre era stato otto volte campione di Spagna. Nel 1989, una giuria formata dai lettori di France Football lo pose al vertice della speciale classifica “Super Pallone d’Oro”, davanti ai nomi pur prestigiosi di giocatori come Cruijff, Platini e Beckenbauer.
Il flop da allenatore
La sua carriera di allenatore non fu altrettanto fulgida come quella di giocatore. Anzi, fu costellata da molti esoneri, prima fra tutti da quello del Real Madrid, di cui prese la guida nel 1982, succedendo al dimissionario Vujadin Boskov ma che fu costretto a lasciare dopo meno di due anni. Poca fortuna anche con il Boca Juniors nel 1985 ed altro esonero dalla panchina del Valencia preso nel 1987 e costretto a lasciare l’anno dopo. Né ebbe molta fortuna il successivo ritorno alla guida del Real nel novembre del 1990 durato appena pochi mesi. Decisiva per il secondo esonero fu l’eliminazione dalla Coppa dei Campioni, nel marzo dell’anno successivo, sconfitto in casa 3-1 dallo Spartak Mosca.


Campione anche fuori dal campo
Dopo questo esonero, la vecchia gloria madridista tornò a fare il consigliere del presidente, fino a essere nominato successivamente presidente onorario del club. Al leggendario ex-giocatore argentino è intitolato anche lo stadio del Real Madrid Castilla, la squadra riserve delle merengues. Situato nel centro sportivo di Valdebebas, fu inaugurato nel maggio 2006. Campione a tutto tondo, in campo e fuori, campo, Di Stefano ha vinto tutto e incantato tutti. Con l’unica «sfortuna» di essere grandissimo quando la televisione era ancora troppo piccola per poterlo celebrarne come avrebbe meritato il suo innato talento.


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01/08/2014 16:34
 
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è morto a 42 anni Belkevich, ex nazionale bielorusso e capitano della Dinamo Kiev...
mi dispiace, bel centrocampista, aveva pure qualità...
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17/09/2014 18:08
 
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Re:
Sound72, 01/08/2014 16:34:

è morto a 42 anni Belkevich, ex nazionale bielorusso e capitano della Dinamo Kiev...
mi dispiace, bel centrocampista, aveva pure qualità...




e' scomparso a 41 anni anche Gusin, compagno di squadra di Belkevich nella Dinamo Kiev, uno dei punti fermi della nazionale con Rebrov e Shevchenko ..incidente con la moto.. [SM=g27992]

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07/10/2014 20:14
 
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Wim Kieft. Coca e debiti: "Tossico perso"


Tossicodipendenza, debiti, matrimonio fallito e tentativi di disintossicazione andati male: così si racconta l'ex giocatore di Pisa e Torino nel suo libro "Kieft"

Diciannove anni di tossicodipendenza, un matrimonio e una relazione fallita, 4 figli, 400 mila euro di debiti con lo Stato, 2 tentativi di disintossicazione andati male e un naso che perde sangue. Così si descrive oggi Wim Kieft nel suo libro "Kieft", che integra il già nutrito filone di biografie shock, genere di moda in Olanda. Dopo Van der Meyde, Ricksen e Helder, tocca all’ex Pisa e Toro raccontare la sua vita. Con un’avvertenza. "Chi vuol leggere di strip bar, folli corse notturne in auto e sesso con modelle ha sbagliato libro. Non c’è niente di selvaggio in un uomo solo in una camera d’albergo, con 4 bottiglie di vino e una montagna di coca".
BISOGNO DI AIUTO — È andata avanti così fino al 2013, quando Kieft è tornato nella clinica di Best per la terza volta, quella decisiva. "Almeno per la cocaina, perché sull’alcol ci sto lavorando. È un processo lungo e difficile, frequento ogni giorno le riunioni del Narcotics Anonymous, interiorizzando il loro motto: se ti svegli alle 6 di sera, ricordati che la tua malattia è già in piedi da un’ora. Al primo incontro col medico dissi: Sono Kieft, penso lei sappia con chi stia parlando. E lui: Sì, con un tossico che ha un disperato bisogno di aiuto". Kieft è un libro che parla di dipendenza e fragilità. Nella prima Kieft ci è caduto chiusa la carriera. Vale la pena ricordarla: debutto a 17 anni nell’Ajax, Scarpa d’Oro a 20, campione d’Europa nel 1988 con Olanda e Psv, oltre 200 reti in carriera. "Ma mi sono sempre sentito inadeguato. A Parigi, mentre mi consegnavano la Scarpa d’Oro, pensavo: ecco un perdente in giacca e cravatta. Guardavo Platini e Paolo Rossi accanto a me, si muovevano disinvolti, io me la facevo sotto". A 18 anni è già l’idolo delle ragazzine: dalle fan gli arrivano fino a 60 lettere al giorno. "Ma la mia prima ragazza l’ho avuta solo a 19 anni, ed è poi diventata mia moglie. Il mio complesso di inferiorità scompariva solo quando bevevo: a 17 anni presi la mia prima sbronza, alla giornata di pesca con l’Ajax". Dietro la faccia d’angelo si sono sempre nascoste depressione, vergogna e paura. "Se sbagliavo un rigore a casa piangevo".
IN ITALIA IN ETERNO — In carriera c’è pure l’Italia. "Mia madre mi comprò un giaccone rosso: devi fare bella figura, disse. Arrivai a Pisa e c’erano 35 gradi. I primi mesi volevo scappare, al terzo anno avrei voluto rimanere in Italia in eterno, nonostante al Toro Radice mi disse che dopo l’infortunio al ginocchio non sarei più tornato quello di prima. Ma mi cercò il Psv, uno squadrone, e così me ne andai". Poi Bordeaux, di nuovo Psv e poi il buio. "Ho provato la coca per la prima volta a 33 anni, in discoteca. Da allora ne avrò sniffata una quantità pari a mezzo milione di euro. Oggi vivo con 20 euro al giorno, se ne avessi 100 li spenderei tutti. Giro in treno e in bici, non posso permettermi un taxi. Il piano di rientro dai debiti con lo Stato lo gestisce il mio manager. Per fortuna il lavoro, da opinionista o commentatore tv, non mi manca. Mi facevo perché mi piaceva e ho continuato perché non potevo più farne a meno, come un tossico qualsiasi".

gazzetta.it

quanto avrà pippato? 5-6 chili di coca? [SM=x2478856]
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10/10/2014 14:55
 
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mi dispiace... Wim Kieft era uno dei primissimi stranieri arrivati in Italia con la riapertura. lo prese prima il Pisa, all'epoca se ne poteva prendere solo uno. non era un campione ma segnava, a me non dispiaceva. e aveva la faccia simpatica.

beh non avrei mai pensato nascondesse tale profonda insicurezza.
e fa (per l'ennesima volta) pensare. che poi questi che vediamo come "animali da prestazione", a cui chiediamo tante cose, sia tecniche, che fisiche, che mentali...
e resta più che mai il discorso sulla mentalità, nellos port (e non solo). ecco perchè è così importante scegliere gli uomini prima dei giocatori.

spero gli vadano bene le cose, Kieft era proprio un goleador dalal faccia pultia, e naturalmente mi ricorda gli inizi del mioa vvicnamento al calcio "visto" e non più SOLO giocato.
avevo 14 anni quando arivà al Pisa. sono passati più di 30 anni.

auguri.


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22/10/2014 19:41
 
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Carlos Henrique Kaiser, l’uomo che si finse calciatore per 20 anni
ottobre 16, 2014


Ha giocato nei più importanti club brasiliani sfruttando le sue amicizie, ma non era un calciatore.


E’ possibile fare carriera nel mondo del calcio senza essere un calciatore, senza giocare nessuna partita e guadagnando anche dei soldi? Per quanto possa sembrare impossibile, sì. Questa è la surreale e quasi comica storia di un giovane brasiliano che, con la sua straordinaria capacità di risolvere situazioni apparentemente compromesse, è riuscito a “giocare” per quasi 20 anni nell’elite del calcio brasiliano, messicano e francese. Carlos Henrique Raposo, nato a Rio de Janeiro nel 1963, aveva un dono e non era precisamente quello di saper giocare a calcio: sapeva intrattenere relazioni come nessuno.
Assiduo frequentatore delle notti della Rio de Janeiro degli anni ’80, Carlos diventò il principale punto di riferimento per i calciatori che cercavano un po’ di svago nella città brasiliana, da Ricardo Rocha a Edmundo, passando per Romario, Bebeto, Renato Gaucho e chi più ne ha più ne metta. A quel punto l’idea geniale: convincere i giocatori a farlo ingaggiare dai club come calciatore professionista. Era sicuro di quello che faceva, Carlos, in primo luogo perchè era convinto di poter giocare, secondo poi perchè lo aiutava un fisico atletico – simile, da come raccontano, a quello di Beckenbauer e da lì il soprannome Kaiser – che evitava qualsiasi tipo di sospetto a prima vista.
Il primo contratto da professionista arriva nel 1986, tra le fila del Botafogo. Il tutto grazie a Mauricio, suo amico dai tempi dell’infanzia, che era uno dei calciatori più amati della torcida del club. Partite giocate a fine campionato: zero. “Facevo dei movimenti strani durante l’allenamento, mi toccavo il muscolo e me ne stavo 20 giorni in infermeria. A quel tempo non esisteva la risonanza magnetica. I giorni passavano, ma avevo un amico dentista che mi faceva dei certificati dicendo che avevo problemi fisici. E così, i mesi passavano…”.
Non avendo giocato nessuna partita non fu difficile trovare un’altra squadra da abbindolare, così l’estate successiva fu il turno del Flamengo. Lì c’era un altro grande amico, Renato Gaucho, ex giocatore della Roma e della Selecao, attualmente allenatore: “Sapevo che Kaiser era un nemico del pallone. Durante gli allenamenti si accordava con alcuni compagni per farsi colpire in modo di andare direttamente in infermeria”. Zero minuti giocati anche al Flamengo.
C’era anche un immagine pubblica da curare. Per alimentare la sua fama, si presentava agli allenamenti del Flamengo con un enorme telefono cellulare – che all’epoca rappresentava un alto status sociale – e fingeva telefonate in inglese affermando che erano grandi club europei interessati al suo ingaggio. I compagni e lo staff tecnico gli hanno sempre creduto, finchè un dottore che aveva vissuto in Inghilterra rivelò che le sue conversazioni erano totalmente senza senso. Una volta scoperto, si resero conto che non solo Carlos fingeva, ma che il cellulare che usava era un giocattolo.
Bisogna tener conto che negli anni ’80 le informazioni non erano accessibili a tutti come oggi. Niente programmi specializzati, nessun sito internet per scoprire informazioni su un calciatore, nè tantomeno video per ammirare le sue presunte qualità. Bastavano un paio di articoli di giornale che ne parlassero bene e la diceria popolare avrebbe fatto il resto. “Ho una facilità incredibile nello stringere amicizia con le persone. Conoscevo bene molti giornalisti di quel tempo, trattavo tutti bene. Qualche regalo, qualche informazione interna potevano aiutare e loro ricambiavano parlando del ‘grande calciatore’.”
Dopo il Brasile però era il momento di conquistare nuove mete, e il Messico fu la tappa successiva. Fu ingaggiato dal Puebla, formazione di Primera Division, con un contratto di 6 mesi. Zero minuti giocati e via negli Stati Uniti, a El Paso. “Firmavo sempre il contratto di rischio, il più corto, normalmente di sei mesi. Ricevevo i bonus e me ne andavo in infermeria.”
Nel 1989 torna in Brasile, al Bangù, dove si rese protagonista di uno degli aneddoti che lo descrivono nel migliore dei modi. Infastidito dai suoi comportamenti, l’allenatore decise di convocarlo per la partita della domenica. A metà del secondo tempo lo mandò a scaldarsi a bordocampo e Henrique, intuita la possibilità di un suo esordio in campo, si inventò il colpo di genio: litigò e fece a botte con un tifoso degli avversari, procurandosi l’espulsione diretta. Quando la squadra rientrò negli spogliatoi, prima che l’allenatore inferocito gli potesse dire qualcosa, si diresse verso di lui e sbottò: “Dio mi ha dato un padre e me l’ha tolto. Ora che Dio mi ha dato un secondo padre – riferendosi all’alenatore – non posso permettere che nessuno lo insulti.” Bacio in fronte e rinnovo del contratto per altri 6 mesi.
Grazie ai tanti amici nel mondo del calcio, giocherà anche nel Vasco da Gama, nella Fluminense e nell’America. Ma come faceva ad avere tutti questi amici? Semplice, lo racconta lui stesso: “Quando venivo a conoscenza dell’hotel che ci avrebbe ospitato mi recavo lì con due o tre giorni d’anticipo. Affittavo camere per dieci donne nell’albergo, in modo che anziché scappare di nascosto io e i miei compagni potessimo semplicemente scendere le scale per divertirsi.”
Altro suo grande amico fu l’ex giocatore del Real Madrid, Ricardo Rocha, che lo descrive così: “E’ un grande amico, una persona squisita. Peccato che non sappia neanche giocare a carte. Aveva un problema con il pallone, non l’ho mai visto giocare in nessuna squadra. Ti racconta storie di partite, però non ha mai giocato la domenica alle quattro di pomeriggio al Maracanà, ve lo posso assicurare! In una gara di bugie contro Pinocchio vincerebbe Kaiser…”.
Dopo altre avventure in terra brasiliana tra cui Palmeiras e Guaranì, riesce a fare il grande salto in Europa, in Francia tra le fila dell’Ajaccio. In quegli anni un brasiliano che arrivava in Europa era sinonimo di successo e la presentazione che il club aveva riservato al brasiliano lo colse di sorpresa: “Lo stadio era piccolo, ma era gremito di gente in ogni posto. Pensavo che dovessi solo farmi vedere dalla folla e salutare, per vidi moltissimi palloni in campo e capii che ci saremmo dovuti allenare. Ero nervoso, si sarebbero resi conto che non sapevo giocare al mio primo giorno.” Per un giocatore abituato a ingannare tutti però, questa era una passeggiata. “Entrai in campo e cominciai a scaraventare tutti i palloni in tribuna. Allo stesso tempo salutavo e baciavo la maglietta. Chiaramente dalla tribuna non è tornato nessun pallone…”. In dieci minuti si era guadagnato l’affetto di tutti i tifosi senza aver giocato un minuto.
Chiuse la “carriera” al Guarany da Camacqua, a 39 anni. In quasi venti anni ha realizzato un totale di 20 presenze, tutte terminate anzitempo per infortunio. “Non mi pento di nulla. I club prendono in giro moltissimi calciatori, qualcuno doveva pure vendicarli…”

[SM=x2478856]


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17/11/2014 19:31
 
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Scompare Mezague, ala del Camerun: sostituì Foé, morto in campo nel 2003

Si sospetta il suicidio. Aveva 30 anni, era molto depresso. Nella gara di Confederations cup, in cui Foé ebbe l’infarto fatale, subentrò al suo posto.

Coincidenza, certo. Ma a volte la realtà rende vere cose che sarebbero giudicate incredibili in una sceneggiatura cinematografica. Il centrocampista del Camerun Valery Mezague, 30 anni, è stato trovato morto nella sua casa di Tolone, dove giocava nel club locale che milita nella quarta divisione francese. Secondo quanto riportano alcuni media francesi, la polizia non ha trovato segni di violenza sul corpo del calciatore e prende consistenza l’ipotesi che si sia trattato di un suicidio. Sembra infatti che Mezague avesse problemi di depressione derivanti dal fatto che non si era mai ripreso completamente dalle conseguenze di un incidente automobilistico che, dieci anni fa, lo aveva fatto entrare in coma per tre giorni e, in pratica, ne aveva interrotto una carriera che probabilmente era destinata ad essere per le sue qualità tecniche, di altissimo livello.
Coincidenza
In Francia aveva giocato anche nel Montpellier, Sochaux e Le Havre, mentre in Inghilterra aveva fatto parte del Portsmouth in Premier League. Aveva avuto un’esperienza anche nel calcio minore della Grecia. Mezague soprattutto aveva messo insieme 7 presenze con la maglia della nazionale africana, dopo aver optato per i «Leoni Indomabili», dato che proprio nel 2003 anche la Francia lo aveva convocato in Nazionale. Tra le gare giocate quelle nella Confederations Cup del 2003, segnata per i «Leoni Indomabili» dalla tragedia della morte in campo di Marc-Vivien Foé, colpito da attacco cardiaco mentre disputava la semifinale contro la Colombia. E Mezague in quella partita era entrato proprio al posto di Foe’. Poi aveva giocato anche la finale persa 1-0 contro la Francia. A distanza di 11 anni se ne sono andati prematuramente i due giocatori che giocarono l’uno al posto dell’altro quella partita destinata comunque a restare nella storia del calcio per quel che successe in campo a Foé.
Cordoglio
Lo Sporting Tolone, nel confermare via Twitter l’accaduto ha espresso «grande tristezza per la morte di Valery Mezague. Il nostro pensiero va in questo momento alla sua famiglia». Anche il centrocampista del Milan, Michael Essien, ha postato un tweet per lui: «Triste e sotto shock nell’apprendere la brutta notizia su Valery Mezague. Riposa in pace amico mio, i miei pensieri e le mie preghiere vanno alla tua famiglia».

corriere.it
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17/11/2014 21:03
 
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Che brutta coincidenza.Chissà se l'episodio dello stesso Foè inconsciamente lo abbia condizionato negli anni seguenti.
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29/12/2014 23:52
 
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Mendieta, il 'bidone' da 90 miliardi che oggi fa il deejay

Gaizka Mendieta, professione centrocampista, ex giocatore di Valencia, Lazio, Barcellona, Middlesborough e della selezione spagnola: per tutti però quel biondo basco nativo di Bilbao è Mister 90 miliardi, i soldi che spese Cragnotti per portarlo alla Lazio dal super Valencia di Hector Cuper. L'ingaggio? Da capogiro: quinquennale da 8 miliardi a stagione.

MIGLIOR GIOCATORE CHAMPIONS 2000-01 - "La Lazio sarà il mio Real": questa la frase con cui si qualifica Mendieta, il giorno della presentazione a Formello con la maglia biancoceleste. I tifosi dell'Aquila impazziscono: giocatore in grado di ricoprire qualsiasi ruolo di centrocampo, dopo aver iniziato la carriera nel Castellón, club nel quale è cresciuto, si trasferisce al Valencia, di cui in breve diventa capitano. Con il club murcielago, dopo aver vinto la Coppa del Re e la Supercoppa spagnola nel 1999, disputa due finali consecutive di UEFA Champions League, perdendole entrambe con Real Madrid e Bayern Monaco, ma ottiene comunque un premio di consolazione come miglior giocatore della competizione nella stagione 2000-2001. Si fa notare anche con la maglia della Roja, disputando un ottimo Europeo nel 2000.

BIDONE PREZIOSO - Completo, dotato di grande visione di gioco e grande abilità negli inserimenti, fiuto del gol, freddezza dal dischetto e preciso sui calci di punizione: questa volta Cragnotti sembra davvero aver fatto il colpo della vita. Non sa di aver appena comprato il bidone più costoso del calcio italiano: Dino Zoff, tecnico dei biancocelesti, che di calcio ne sa qualcosa in più, sin da subito si pone il problema della collocazione del giocatore. Problema che si ripresenta anche con il nuovo tecnico, Zaccheroni. Lo spagnolo è irriconoscibile, gioca fuori ruolo e sbaglia tanto, quasi tutto. Alla fine del campionato 27 gettoni tra campionato e Champions League, zero gol. L'anno precedente erano state 13 le reti realizzate al Valencia, addirittura 19 due stagioni prima e 12 nel 1999. Numeri impietosi, per colui che avrebbe dovuto essere il nuovo Nedved. Dopo solo una stagione in Italia, a Roma sono già stufi del basco.

CLAUSOLA ANTI-REAL - Oltre al danno, per la Lazio c'è anche la beffa: nel contratto stipulato tra Lazio e Valencia c'era infatti una clausola che impediva ai biancocelesti di cedere il giocatore al Real Madrid. Clausola che, alla luce dei fatti, si era rivelata provvidenziale, ma per i Blancos. A Cragnotti non rimane altro che cedere Mendieta in prestito, al Barcellona: i blaugrana però non erano quelli di oggi, chiudono sesti in classifica, non si qualificano alla Champions League e decidono di non riscattare il basco. Intanto la Lazio sprofonda nella crisi economica in seguito al crack Cirio e deve liberarsi assolutamente di un ingaggio pesante come quello di Mendieta: interviene il Middlesbrough che prende in prestito il giocatore. Mendieta nella mediocrità generale della squadra in qualche modo galleggia e si toglie la soddisfazione di vincere la Coppa di Lega 2003/04, primo trofeo assoluto del club. Questo storico evento convince i dirigenti del Boro a riscattare il cartellino del giocatore per intero. Mendieta gioca col Middlesbrough fino al 2008: 73 presenze in 4 anni e una finale di Coppa Uefa raggiunta. Non certo quello che ci si aspettava da lui. Addirittura, per saldare completamente il debito contratto col Valencia, la Lazio deve cedere agli spagnoli Stefano Fiore e Bernardo Corradi: altri due flop, stavolta in terra spagnola.

MR 90 MILIARDI OGGI FA IL DEEJAY - Oggi, a tanti anni dal suo ritiro agonistico, Mendieta vive con la famiglia a Yarm, città alle porte di Middlesborough; a 38 anni, fa il DJ part time nei nightclub. La musica? Spazia da Aretha Franklin a The Jam e Kings of Leon. I 90 miliardi e il calcio sono lontani.

www.calciomercato.com/

8 miliardi all'anno..certo che sul doping amministrativo ParmaLatio ce n'era de materiale..
E poi lo spalmadebiti..e Geronzi e Baraldi e Lotito..
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04/02/2015 19:18
 
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La Germania piange Udo Lattek: fu il primo a vincere le tre coppe europee

Scompare a 80 anni un mito del calcio tedesco: vinse 8 volte la Bundesliga, trionfò più volte in Europa. Tra le squadre allenate, Bayern Monaco, Borussia Moenchengladbach e Barcellona

Lutto per il calcio tedesco piange Udo Lattek, uno degli allenatori più vincenti della storia scomparso all'età di 80 anni. Lattek è stato uno degli allenatori tedeschi più vittoriosi di sempre, avendo conquistato otto titoli in Bundesliga e la prima Coppa dei Campioni del Bayern Monaco nel 1974 (in Baviera lanciò futuri campioni del calibro di Franz Beckenbauer, Sepp Maier e Gerd Mueller) e diventando anche il primo tecnico ad aver vinto Coppa Uefa, Coppa dei Campioni e Coppa delle Coppe. Dopo di lui c'è riuscito solo Giovanni Trapattoni. In carriera ha allenato anche Borussia Moenchengladbach, Borussia Dortmund, Colonia e Schalke. A Barcellona, tra il 1981 e il 1983 ha avuto a sua disposizione campioni come Maradona e Schuster, conquistando una Coppa delle Coppe e una Coppa de Re.

"La notizia della morte di Lattek ci ha profondamente commosso", ha detto in un comunicato il presidente del Bayern,Karl-Heinz Rummenigge. "Lattek è stato uno degli allenatori più vincenti di sempre del calcio tedesco e una delle più grandi personalità dello sport a livello nazionale e internazionale per decenni. Perdiamo uno dei grandi uomini del Bayern Monaco, un mentore e un amico". L'ex tecnico, nato a Bosemb il 16 gennaio 1935, soffriva da tempo del morbo di Parkinson e ha passato gli ultimi anni della sua vita in una casa di cura a Colonia.

repubblica.it

Un mito Lattek


en.wikipedia.org/wiki/Udo_Lattek
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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Città: ROMA
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Sesso: Maschile
07/02/2015 11:29
 
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Dopo Oliha,Yekini e Okafor scompare anche il portiere Agbonavbare,tutti ex della nigeria di USA 94.
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