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Obama : fenomeno o flop?

Ultimo Aggiornamento: 14/11/2012 00:18
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13/07/2010 22:01
 
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Obama a picco nei sondaggi:
non hanno fiducia in lui 6 americani su 10



NEW YORK (13 luglio) - Sondaggi a picco per Barack Obama quattro mesi prima del voto di metà mandato: secondo l'ultimo rilevamento AbcNews/Washington Post quasi sei americani su dieci non hanno fiducia nella capacità del presidente di prendere le decisioni giuste per il paese. “Hope we can believe in”, una speranza in cui possiamo credere: lo slogan della campagna 2008 per la Casa Bianca è lontano anni luce.

Il messaggero.it -
Una chiara maggioranza di americani disapprova quello che sta facendo Obama per l'economia. Il presidente raccoglie ancora la stima dei membri del Congresso, ma anche su questo fronte la forbice si sta chiudendo. Sette elettori registrati su dieci dicono di non aver fiducia dei parlamentari democratici e una percentuale analoga ha altrettanto bassa stima dei colleghi repubblicani. Oltre un terzo degli americani - il 36 per cento - non si fida della classe politica, sia che occupi la Casa Bianca che Capitol Hill.

Tra gli indipendenti la delusione è ancora più alta: due terzi degli elettori si dicono insoddisfatti o addirittura arrabbiati per come sta funzionando il governo federale. Solo il 43 per cento adesso approva quel che sta facendo Obama per l'economia, mentre il 54 per cento disapprova. Su questo fronte anche un terzo dei democratici è pronto a bocciare il suo presidente. Sulla questione della leadership il 58 per cento non crede che Obama sia in grado di prendere decisioni giuste per l'America contro un 42 per cento che continua a riporre fiducia nell'inquilino della Casa Bianca.

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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08/09/2010 11:50
 
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Studio ovale, errore sul tappeto di Obama
La frase non è di Martin Luther King
Secondo il 'Washington Post' l'ha pronunciata Theodore Parker, sacerdote della chiesa Unitaria morto nel 1860


Lo studio ovale dopo il cambio d'arredo (Epa)
WASHINGTON - Figuraccia per Barack Obama: il tappeto che ha scelto per rinnovare lo studio ovale contiene cinque frasi, tra cui una attribuita erroneamente a Martin Luther King. Secondo il Washington Post a pronunciare «l'arco dell'universo morale è lungo, ma tende verso la giustizia» non è stato il premio Nobel ma Theodore Parker. Questi era un sacerdote della chiesa Unitaria, abolizionista ante litteram, morto nel 1860 a Firenze, 69 anni prima della nascita del reverendo.

TUTTO NUOVO - Le altre frasi (corrette) sono di quattro presidenti, due democratici (John Fitzgerald Kennedy a Franklin D. Roosevelt) e due repubblicani (Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt). Di Roosevelt, il presidente del "New Deal", che come lui dovette affrontare la tragedia economica della Grande Depressione, Obama ha scelto il famosissimo motto: «L'unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa». Di Theodore Roosvelt, presidente repubblicano, che come Obama ha vinto nel 1906 il premio Nobel per la Pace: «Il benessere di ciascuno di noi dipende fondamentalmente dal benessere di tutti noi». Il celebre motto di Abraham Lincoln, un altro padre della patria, anche lui repubblicano, a cui Obama si rifà spesso: «Governo del popolo, dal popolo, per il popolo». Infine una frase di Jfk: «Nessun problema del destino umano è fuori dalla portata degli esseri umani». Usando fondi residui della sua campagna elettorale, il presidente ha scelto per la sua tolda di comando nuovi mobili, nuovi divani, cambiando perfino la carta da parati. E soprattutto ha sostituito il vecchio tappeto scelto dal suo predecessore George W. Bush, disegnato dalla moglie Laura, con uno sempre di forma ovale, con al centro il simbolo presidenziale. Ma l'impietosa stampa americana non si è lasciata sfuggire il "refuso".

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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08/09/2010 13:21
 
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Obama o non Obama per me è uguale.Cambia solo la faccia(e il colore).
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03/11/2010 08:11
 
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ELEZIONI DI MIDTERM
Sfida all'ultimo voto per Obama


C'era una volta l'America di Obama e forse c'è ancora. La notte più lunga degli States regala emozioni mozzafiato e dopo una giornata di sofferenza si conclude con un clamoroso pareggio.


I repubblicani spinti dal vento del Tea Party prendono saldamente il controllo della Camera. Ma il Senato che promettevano di riconquistare resta nelle mani del partito del presidente. Non è un risultato da poco: le speranze di tenere la Camera erano minime.

La vera partita s'è giocata su quel Senato che negli ultimi due anni ha fra l'altro deciso le politiche del paese: bloccando o rallentando quelle riforme - dalla sanità all'ambiente - che la camera a maggioranza democratica aveva spesso inutilmente vidimato. E adesso che cosa succederà? Alle sei della sera, quando in Italia erano già le 11, l'America aveva già capito come stava girando il vento. L'assegnazione del seggio in ballo, nel Kentucky, tra Rand Paul, il pasdaran ultraliberista dei Tea Party, e Jack Conway, l'uomo d'ordine a cui si sono affidati i democratici, era il segnale atteso per capire quanto lunga sarebbe stata l'onda dei repubblicani: e i primi exit poll hanno dato un clamoroso scarto di 11 punti. Ma col passare delle ore è diventato sempre più chiaro che l'onda non sarebbe diventata uno tsunami. E che i democratici avrebbero potuto raccogliersi intorno all'ultimo baluardo del Senato.

Per carità: la sconfitta è sonora. Le prime indicazioni suggeriscono la debacle dei democratici soprattutto tra le donne, la classe media, i bianchi, gli anziani e gli indipendenti. Cioè quelle categorie che due anni fa avevano incoronato Barack Obama - che oggi ha contro il 54 per cento degli americani - e adesso danno fiato al Tea Party della rabbia.

A Miami, per esempio, il Partito del Tè festeggia la superstar Marco Rubio. Per fermarlo, perfino il New York Times aveva invitato i suoi lettori a votare per un non democratico: il governatore repubblicano uscente, Charlie Crist, che correva da indipendente. Ma anche qui gli exit poll hanno dato subito vincente l'"Obama di destra" con un travolgente 21 per cento di vantaggio.

E lui, Barack? Il presidente parlerà alla nazione oggi all'una di Washington, le 18 in Italia, spiegando come intende cavarsela nei prossimi due anni di coabitazione con i repubblicani. Ma non per niente subito dopo la mezzanotte di ieri aveva già chiamato, fra gli altri , Nancy Pelosi e John Boenher, cioè l'attuale speaker democratica della Camera e il repubblicano che la sostituirà, augurandosi di "lavorare con lui e con i repubblicani per trovare un campo d'azione comune, andare avanti nel lavoro e realizzare quello che il popolo americano si aspetta". Bella mossa.

Nella notte più lunga, il presidente era rimasto nello Studio Ovale tra i suoi collaboratori più stretti - per la verità già sotto accusa per aver sbagliato strategia, demonizzando il nemico invece di pubblicizzare le riforme fatte: e il presidente infatti già minaccia un repulisti. "Possiamo battere i poteri forti, possiamo battere Big Money, possiamo riprenderci ancora una volta la nostra chance", aveva detto Barack nell'ultimo, disperato appello al voto. "L'unica cosa che i repubblicani vogliono nei prossimi due anni è distruggermi: ma anche
se il mio nome non è sulla scheda, la nostra agenda dipenderà da queste elezioni". Cioè da quello che sarebbe accaduto al Senato. Perché è qui, poi, che Obama si è giocato tutto. Chiaro: la carica repubblicana alla Camera, dove tutti i 435 deputati sono stati eletti ex novo, era scontata. Ma la tenuta del Senato era condizionata ancora dalle elezioni del boom democratico, visto che erano in lizza solo 37 dei 100 seggi. E così in tutt'America è stata sfida fino all'ultimo.

In California la democratica Barbara Boxer prevaleva negli exit poll ufficiosi di 8 lunghezze. E a questo punto ai democratici - che avevano conservato anche il seggio a rischio del Connecticut e portato a casa quello del New Hampshire (grazie a quel Joe Manchin che però ha condotto una campagna anti-Obama) - bastava tenere un solo altro Stato - dall'Illinois terra di Barack al Nevada dove il decano Harry Reid era insidiato dall'ennesima Tea Party Sharron Angle - per conservare il controllo su una camera. Così quando, nella notte, le proiezioni hanno indicato la vittoria proprio di Reid (per la cui rielezione si era spesa nientedimeno che Michelle Obama) per i democratici si è trattato della doccia più calda mai sognata.

Conservare il Senato è un risultato che non era riuscito nemmeno ai presidenti che pure al midterm erano sempre stati puniti: da Ronald Reagan a Bill Clinton fino a George W. Bush. Un fallimento - visto dal
punta di vista dei repubblicani - che il Gop ora potrebbe addebitare proprio alla donna che ha contribuito al determinante successo dei Tea Party, cioè quella Sarah Palin che ha scelto personalmente 61 candidati, tra cui 9 schierati nelle sfide che dovevano essere decisive. Compresa Christine O' Donnell, un'ex cattolica
intransigente ribattezzatasi puritana, che ha fatto perdere ai repubblicani il seggio senatoriale del Delaware. E, proprio nella sua Alaska, il discusso Joe Miller, che ha combattuto fino all'ultimo un'altra sfida in bilico, con i risultati rimasti appesi fino all'alba.

Insomma la contraddizione è tutta qui: i Tea Party hanno spinto i repubblicani ma li hanno anche penalizzati con quei candidati un po' troppo hard. E' successo nel Delaware, è successo nel Nevada. E' successo in California, dove oltre al Senato i democratici hanno riconquistato con un "vecchio arnese" come Jerry Brown perfino la poltrona di governatore da due mandati riscaldata dal repubblicano Arnold Schwarzenneger. Ed è successo a New York, dove l'ennesimo Tea Party, Carl Paladino, si è schiantato nella gara di governatore con il democratico Andrew Cuomo, figlio di cotanto Mario.

Non basta. Come se le sorprese in questa notte non dovessero finire mai, in California è stata anche bocciata la discussa proposta di legalizzare la marijuana. L'ultima certezza della vigilia andata, anche questa, irrimediabilmente in fumo.
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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22/03/2011 14:03
 
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Afghanistan 2010: soldati americani uccidono civili
indifesi. Accuse e critiche al presidente Obama


NEW YORK
Sono bastate poche ore perché le immagini apparse su Der Spiegel si trasformassero nell'Abu Ghraib di Barack Obama. Un’altra pagina buia della storia militare americana. Si tratta di foto che ritraggono i militari statunitensi in Afghanistan mostrare come trofei i corpi di civili uccisi senza motivo. Tre scatti definiti dagli stessi vertici del Pentagono «ripugnanti», destinati ad alimentare le tensioni tra Washington e Kabul e diventare un’arma di propaganda per le milizie talebane.

I protagonisti delle fotografie pubblicate il 20 marzo del magazine tedesco, sono membri del «Kill Team», tristemente noti per le loro gesta inumane. Der Spiegel ha coperto i volti dei cadaveri per evitare che le loro espressioni di morte fossero visibili, ma le facce dei soldati e i loro visi quelli pieni di sadico compiacimento sono chiari. Lo squadrone della morte, composto da militari statunitensi, è stato accusato di aver ucciso civili indifesi in maniera indiscriminata. Cinque soldati provenienti dalla 5 Striker Brigade della 2 Infantry Division, con base nello Stato di Washington, saranno giudicati dalla corte marziale per l’omicidio di tre persone. Altri sette membri sono accusati di crimini meno pesanti. Lo squadrone inscenava finti combattimenti per attaccare a caso afghani inermi con armi e granate. La vicenda è venuta alla luce grazie a un altro soldato che ha informato un ispettore dell'esercito di quanto stava avvenendo pagando sulla sua stessa pelle visto che è stato picchiato dai suoi commilitoni per «averli traditi».

Gli episodi avvenuti nel distretto di Maiwand, a Kandahar, una delle province a più alta intensità taleban, sono stati documentati con foto scattate dagli stessi membri del «Kill Team», le stesse apparse due giorni fa per la prima volta in Germania. Una delle immagini ritrae il soldato Jeremy Morlock, di Wasilla, in Alaska, posare con volto sorridente vicino a un afghano morto, il cui corpo quasi completamente nudo è coperto da sangue. Morlock alza per i capelli la testa della sua vittima come fosse un trofeo: ora deve rispondere di omicidio. Un altro scatto immortala il soldato Andrew Holmes inginocchiato accanto allo stesso cadavere. Su di lui pende lo stesso capo di imputazione. Una terza immagine mostra invece due civili afghani senza vita i cui corpi sono appoggiati sulla schiena uno accanto all’atro, le braccia distese sul suolo e intorno vestiti macchiati di sangue. Dell'esistenza delle foto ne avevano parlato gli avvocati difensori di alcuni soldati ma la loro pubblicazione era stata vietata, non si capisce infatti come Der Spiegel ne sia venuto in possesso.

Gli scatti hanno riportato subito alla mente quelli della prigione di Abu Ghraib, in Iraq, dove alcuni soldati americani si resero responsabili di torture nei confronti di prigionieri iracheni. Il tutto con una vasta documentazione fotografica venuta alla luce nel 2004, creando dure proteste specie tra il mondi islamico e andando a incidere sulla popolarità dell’ex presidente George W. Bush e della sua guerra nel Golfo. E mentre già si parla di «Abu Ghraib di Obama», diplomazia e vertici militari Usa assicurano che i responsabili saranno puniti. «L'esercito degli Stati Uniti si impegna a rispettare il codice di guerra, i diritti umani e le disposizioni sul trattamento dei combattenti, dei non combattenti e delle vittime - spiega il Pentagono in una nota -. I militari che si rendono responsabili di violazioni e comportamenti offensivi saranno trattati nella maniera appropriata».
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27/04/2011 17:16
 
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"Ecco il mio certificato di nascita"
Obama spazza via le polemiche



WASHINGTON
Barack Obama ha deciso di mettere fine alle polemiche sulla sua nascita rendendo pubblico il suo certificato di nascita in forma estesa, dal quale si evince che il presidente è effettivamente nato negli Stati Uniti e dunque è stato eletto legittimamente. «La questione va avanti da due anni e mezzo. Normalmente non commenterei, ho altro da fare», ha detto Obama in una dichiarazione nella sala stampa della Casa Bianca, «e da due anni e mezzo guardo con divertimento e stupore». Il movimento dei "birther" sostiene che Obama sarebbe nato all'estero e la sua elezione sarebbe quindi illegale, poiché la costituzione precisa che il presidente dev'essere nato negli Stati Uniti.

Il certificato reso noto oggi dalla Casa Bianca, firmato dall'ostetrico e dalla madre, conferma che Barack Hussein Obama II è nato alle 7.24 pomeridiane del 4 agosto 1961 a Honolulu, figlio di Barack Hussein Obama e Stanley Ann Dunham, studenti. La Casa Bianca ha espressamente richiesto il certificato in forma estesa, che lo stato delle Hawaii generalmente non rende pubblico. Finora era disponibile solo un estratto.

In una breve dichiarazione, dai toni insolitamente duri, Obama ha detto che la decisione di rendere pubblico il certificato è stata presa adesso per non distrarre il paese con polemiche mentre infuria il dibattito sul deficit di bilancio e l'economia continua ad arrancare. «Non abbiamo tempo per questo genere di sciocchezze, abbiamo dei grandi problemi da risolvere». Problemi che per Obama «possiamo risolvere, ma non se siamo distratti, se passiamo il tempo a darci contro, a dire che i fatti non sono fatti». Il presidente non ha fatto direttamente riferimento ai "birther" ma ha parlato di «imbonitori da circo». E non ha tralasciato un affondo contro i media: «Durante la settimana in cui la Camera repubblicana ha proposto un bilancio che ha potenzialmente conseguenze profonde, la notizia che dominava non era sulle scelte che dobbiamo affrontare come nazione, ma sulla mia nascita. E questo anche sulle reti che sono qui adesso».

La polemica era cominciata da prima dell'elezione di Obama alla presidenza nel 2008, quando frange della destra del partito repubblicano avevano cominciato a diffondere, principalmente attraverso siti e blog vicini all'ultraconservatorismo, la voce che Obama fosse nato in Kenya, il paese di suo padre. Il movimento aveva poi preso il nome di "birther" da "birth", nascita, chiedendo che lo stato delle Hawaii rendesse pubblico un certificato più comprensivo dell'estratto pubblicato durante la campagna elettorale. La questione non è mai scomparsa, nonostante la pubblicazione del documento, persino con voci che arrivavano a dire che Obama è in realtà musulmano, non cristiano protestante, e che la sua autobiografia (I sogni di mio padre: un racconto sulla razza e l'eredità") è un falso. E ha trovato nuova forza quando il costruttore Donald Trump ha cominciato a presentarsi come possibile concorrente alla nomination repubblicana del 2012 facendo della nascita di Obama il suo cavallo di battaglia. Fino a quando Obama ha deciso di dire basta, ma senza farsi illusioni: «Ci sarà qualcuno che non sarà convinto», ha detto. Secondo un sondaggio della Cnn, prima della pubblicazione del certificato in forma estesa, il 75 per cento degli americani pensava che Obama fosse nato negli Stati Uniti. Ma tra gli elettori repubblicani , ben il 40 per cento credeva che Obama non fosse nato in America.

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in Usa nn sanno a che attaccasse x fare fuori il Presidente..qua invece c'è l'imbarazzo della scelta e nn se smuove niente...
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28/04/2011 00:30
 
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flop flop.
ma si sapeva.
comandano le muiltinazionali e le lobbies. altro che nuovo messia.
i fenomeni sono tutti quegli idioti che avevano salutato la sua elezione addirittura come l'avvento di un nuovo Cristo.

è incredibile come anche tanti indubbi saggi, filosofi, geni, mostri di intelligenza abbaino avallato e creduto in questa svolta epocale.

camperò forse u'altra 40ina d'anni e continuerò a chiedermi come cazzo fa l'uomo a crearsi certe illusioni.
me lo chiederò pure dentro la tomba.


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22/06/2011 12:19
 
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La figuraccia del solare alla Casa Bianca


“In nove mesi si possono fare molte cose, persino un figlio”. Ormai gli ambientalisti americani non sono più neppure arrabbiati, la buttano direttamente sul sarcasmo. Così l’ultimo motivo di ironia sulla fallimentare capacità del presidente Barack Obama di tenere fede alle sue credenziali verdi è la mancata promessa di installare pannelli fotovoltaici e scaldabagno solari sul tetto della Casa Bianca.

Nell’ottobre scorso Obama aveva spedito il segretario di Stato all’Energia Steven Chu ad un simposio della George Washington University ad annunciare che, per ribadire anche simbolicamente l’impegno a favore delle rinnovabili, entro l’estate la sede presidenziale si sarebbe adeguata montando le nuove attrezzature. Il 21 giugno però è ormai alle spalle e della promessa non c’è traccia.

Così, l’animatore della campagna 350.org Bill McKibben, in un’intervista alla Associated Press ripresa dal New York Times, ha dato sfogo a tutta la sua delusione. “Non è una roba che richiede l’intervento del SEAL Team 6 (il corpo speciale che ha ucciso Bin Laden, ndr). Serve solo buona volontà”, ha commentato riferendosi al mancato montaggio dei pannelli solari.

A rendere la beffa ancora più insopportabile, l’esilerante giustificazione data dal Dipartimento dell’energia sul suo blog di aggiornamento del progetto. “I tempi non riusciranno ad essere rispettati per colpa delle procedure burocratiche”, spiega in sintesi il Doa evidentemente senza conoscere il senso del ridicolo.

“Roba – sferza McKibben parlando con il NYT – che questa amministrazione è stata capace di aprire il bacino del fiume Powder alle estrazioni carbonifere con un semplice tratto di penna”.

Certo, in questo momento il presidente ha grane ben più gravi che non pensare all’impianto fotovoltaico della Casa Bianca, ma l’episodio la dice lunga sul tradimento del programma ambientalista di Obama, voltafaccia denunciato ormai anche da settori che non possono certo definirisi “radicali”. Senza contare che, come ricorda il NYT, una delle prime regole per un buon politico è quella di non fare promesse che non si è in grado di mantenere.

repubblica.it
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28/06/2011 10:10
 
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La regina dei Tea Party punta alla Casa Bianca


Michele Bachmann: Barack Obama è un presidente che «non merita di essere rieletto perché ha allontanato da noi il sogno americano».



Presentandosi come paladina di «costituzione, famiglia e libertà», la deputata repubblicana Michele Bachmann ha lanciato la corsa alla Casa Bianca da Waterloo in Iowa, la cittadina del Midwest dov’è nata 55 anni fa.

Il discorso di circa mezz’ora, pronunciato davanti a un pubblico di centinaia di amici, parenti e sostenitori, è servito a esprimere certezza sul fatto che «se il partito repubblicano sarà unito saremo in grado di vincere nel 2012».

«Appartengo ai repubblicani che perseguono la pace attraverso la forza e ai conservatori fiscali, credo nei valori conservatori e faccio parte del movimento del Tea Party», ha detto, puntando a rappresentare la fusione di tutte le anime di un partito che al momento appare molto diviso. Cresciuta in una famiglia democratica e giovane volontaria per Jimmy Carter nel 1976, Bachmann assicura che «di certo io liberal non sono» e fa appello al voto anche dei democratici e agli indipendenti in fuga dagli errori di Barack Obama, un presidente che «non merita di essere rieletto perché ha allontanato da noi il sogno americano».

L’accusa si basa su una triplice motivazione: «Il debito nazionale aumenta, acquistare una casa diventa sempre più difficile e il costo della benzina continua a salire», obbligando milioni di famiglie della classe media a «subire le conseguenze economiche di un governo che diventa sempre più grande, comportando costi che ci obbligano a sacrificare i nostri sogni».

I sondaggi descrivono la deputata del Minnesota impegnata in un testa a testa in Iowa - lo Stato dove nel febbraio 2012 inizieranno le primarie repubblicane - con il favorito Mitt Romney. Nel duello è lei a rappresentare la sorpresa, attirando la curiosità dei network tv nazionali e dei blogger conservatori. Anche perché, a differenza di Romney, Michele Bachmann non esita a dirsi sicura della vittoria finale: «Possiamo battere Barack Obama nel 2012 e lo faremo».

I valori cui si richiama evocano i principi più cari ai militanti del Tea Party, con il costante richiamo ai «conservatori costituzionalisti», l’impegno a «consolidare e rafforzare l’istituto della famiglia» e la promessa di «difendere le nostre libertà aggredite da un governo sempre più invadente». Da qui il richiamo a Daniel Webster, il senatore federalista del Massachusetts che nella prima metà dell’Ottocento fu protagonista di molteplici battaglie legali per difendere i «diritti costituzionali» degli Stati dall’«invadenza del governo federale».

È la stessa sfida che ora Bachmann rilancia ai democratici, accusandoli di aver dimenticato che «l’America è una nazione indispensabile» proprio perché «difende i diritti dei cittadini dal potere del governo». La sfida presidenziale punta dunque a presentare alla nazione una «chiara scelta» tra la «filosofia di Obama incentrata sul ruolo del governo» e quella di Webster, secondo cui «al centro non deve esserci Washington ma i cittadini».


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28/06/2011 11:45
 
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Re:
quello che esce dal web, quando si cerca Obama è inquetante....se fosse davvero l'anticristo?
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04/08/2011 13:54
 
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Obama, compleanno amaro
tra recessione e crisi di consenso



Oggi festeggia 50 anni nella sua Chicago. Ma sarà una celebrazione oscurata da molte ombre accumulate negli ultimi giorni. Attacchi duri da sinistra al piano anti-default, visto come una resa ai repubblicani. E al panorama economico interno si aggiungono le difficoltà europee e i segnali di instabilità dal Medio Oriente

NEW YORK - "L'economia americana è indebolita, dobbiamo raddoppiare gli sforzi per rivitalizzarla". È con questo allarme che Barack Obama affronta un compleanno amaro: 50 anni compiuti oggi tra la sfiducia dei mercati, la disaffezione della sua base di sinistra, l'incubo di una ricaduta nella recessione. Per qualche ora cercherà rifugio e distrazione nella sua Chicago, dove "il giovane presidente con troppi capelli bianchi" oggi trascorre la festa. Cercherà di consolarsi ricordando due precedenti illustri nella galleria storica dei Giovani Presidenti Progressisti, passati velocemente attraverso lo stesso ciclo - grandi aspettative, grandi delusioni - cioè John Kennedy e Bill Clinton. Magra consolazione. Il mito kennediano fu troppo breve per consumarsi nel confronto con la realtà, e comunque l'American Dream era in piena fioritura negli anni Sessanta. Clinton non ebbe guerre né tragiche recessioni in eredità dal predecessore, si godette la bolla della New Economy e la fase più gloriosa (per il capitalismo Usa) della globalizzazione. Obama concentra nel suo mandato una crisi della leadership americana nel mondo, un'emergenza finanziaria, e una difficoltà di idee che attraversa tutte le sinistre occidentali.
Alla festa del compleanno arriva con troppe ferite aperte, recentissime, accumulate negli ultimi giorni.
Gli attacchi durissimi da sinistra, il marchio della "capitolazione totale" con cui i commentatori liberal da Paul Krugman a Robert Reich hanno bocciato la sua intesa anti-default coi repubblicani.
Accuse opposte e simmetriche gli arrivano da destra, riassunte così dal Wall Street Journal: "L'Obama-keynesismo non ha funzionato, per due anni Washington ha usato la spesa pubblica come motore di un rilancio, ed eccoci a crescita zero". Tutti sembrano avere una parte di ragione e solo lui sembra avere tutti i torti. I mercati hanno salutato il suo "capolavoro negoziale" sul debito pubblico con la peggiore serie consecutiva di ribassi dalla grande crisi del 2008. La ragione non sta tanto in un difetto specifico di quell'accordo, ma nel disastroso contesto generale. Lo deve riconoscere un'authority indipendente, il Congressional Budget Office: l'intesa bipartisan sul debito è già travolta dalla realtà, i conti di quell'accordo sono tutti sballati.

Presupponevano una crescita del Pil del 3,1% nel 2011 e del 2,8% nel 2012. Gli ultimi dati indicano che è impossibile: nel primo semestre la crescita è stata appena dello 0,8% e a questo punto ci vorrebbe uno scatto quasi "cinese" per recuperare nella seconda metà dell'anno. Senza crescita il debito pubblico diventa incurabile. Perciò Moody's anche dopo la storica intesa tra Obama e i repubblicani ha dovuto mantenere un "negative outlook", Standard&Poor's un "negative watch" sul debito di Washington: i conti non tornano. Lo spettro del "doppio tuffo", della ricaduta nella recessione, è annunciato in questi giorni dall'arretramento dei consumi (il più grave dal settembre 2009), dall'impennata dei licenziamenti (ai massimi degli ultimi 16 mesi). Il presidente ha salutato il Congresso che andava in vacanza implorando "una nuova manovra per il sostegno dell'occupazione". Ma con che risorse? E con quali voti? La destra che controlla la Camera vuole solo smantellare lo Stato sociale. Ci vuole tanto ottimismo per sperare che con questi numeri al Congresso, esca fuori un pacchetto significativo a sostegno dell'occupazione.

Nel frattempo Obama vede addensarsi le incognite dall'estero, politiche ed economiche: la "sua" primavera araba sembra nello stallo; la stabilità europea minacciata anche dalla crisi finanziaria dell'Italia; troppa inflazione in Cina e in Brasile rende un po' meno solidi anche i mercati emergenti. In casa sua spunta un altro allarme-default, stavolta riguarda solo la Federal Aviation Authority che governa gli aeroporti: senza fondi in cassa, lascia a casa 4.000 dipendenti senza stipendio. Bloccati i lavori di manutenzione delle piste e altri servizi "non di emergenza", per ora si continua a volare. Questa crisi forse è temporanea, di certo piccola rispetto allo scampato default del Tesoro. Ma serve a ricordare la coincidenza con un altro anniversario: esattamente 30 anni fa Ronald Reagan minacciava di licenziare in tronco i 13.000 controllori di volo in sciopero. Quel braccio di ferro spezzò il potere sindacale, alterò in modo brutale i rapporti di forze nei luoghi di lavoro, aprì un'èra diversa nelle relazioni industriali.

L'anniversario del trionfo reaganiano che si sovrappone con il compleanno di Obama, indica il vincolo a cui questo presidente è sottoposto. La fortuna elettorale della destra ha avuto alti e bassi in questi decenni, Obama spera ancora di ricacciarla indietro nel novembre 2012. Ma nella realtà sociale, il ciclo che fu aperto da Reagan non è mai finito veramente. Arrivato al giro di boa del mezzo secolo, i capelli bianchi di Obama sono anche la spia di questa fatica: conciliare le grandi speranze del 2008 e i veri rapporti di forze nella società americana.
(repubblica.it -04 agosto 2011)
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07/11/2012 10:03
 
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alla fine ha vinto..meno elettori rispetto al 2008..
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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14/11/2012 00:18
 
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Di obama,come dicevo qualche post su,non penso bene.
In generale la vedo come il mio giornalista preferito.

Tra Obama e Romney preferivo Sandy

Non riesco a capire come si possa prendere sul serio quel grande Barnum che sono le elezioni presidenziali americane, cui in Italia per giorni e giorni sono state dedicate dozzine di pagine, talk show e notturne ed estenuanti dirette. Sono una sorta di SuperBowl politico, altrettanto kitsch. Mancavano solo le puttanone scosciate a cavalcioni degli elefant e sarebbe stato perfetto. “Michelle, non ti ho mai amato tanto in vita mia come in questo momento” è una frase che, pronunciata nel più importante discorso alla Nazione, nemmeno Silvio Berlusconi avrebbe osato permettersi.

A me di queste elezioni, nonostante la grancassa, non importava nulla. E non credo di essere il solo. Fra i due candidati tifavo per l'uragano Sandy. Solo un sismografo sensibilissimo può avvertire le differenze fra repubblicani e democratici...In questa tornata poi, per conquistare il famoso cento per cento i programmi dei due schieramenti si sono …..i colori: azzurri gli uni, rossi gli altri. Chiunque avesse vinto nulla sarebbe cambiato in politica interna e in quella estera. Negli Stati Uniti, il Paese più potente, più forte, più ricco del mondo, che può sfruttare ancora la rendita di posizione per la vittoria militare di tre quarti di secolo fa, rimarranno comunque 40 milioni di poveri, un sesto circa della popolazione, che non hanno rappresentanza politica. Alla faccia della 'grande democrazia'. Solo in Italia si può credere che Obama sia un uomo di sinistra. Così come solo in Europa si può credere che i democratici siano meno guarrafondai dei repubblicani. Fu il democraticissimo Kennedy a iniziare la guerra del Vietnam e il repubblicano Nixon (il miglior presidente che gli Usa abbiano avuto nel dopoguerra) a chiuderla. Fu sempre Kennedy a combinare il pasticcio della Baia dei porci e il democratico Carter quello del blitz in Iran. E' stato il democratico Clinton a scatenare la più assurda delle guerre occidentali, quella contro la Serbia, eiropea e cristiana.In quanto al Nobel per la pace Barak Obama ha mandato altri 30 mila soldati in Afghanistan e, rispetto a Bush, ha aumentato del 13% le spese militari.

Ma il problema non sono gli americani e chi li comanda. Siamo noi europei. E' da quel dì, dal crollo dell'Unione Sovietica, che avremmo dovuto capire che gli Stati Uniti erano diventati, da alleati obbligati, degli avversari se non proprio dei nemici. Noi europei non abbiamo alcun interesse a seguire gli Stati Uniti nella loro politica soppressiva nei confronti del mondo arabo-musulmano, se non altro perché lo abbiamo sull'uscio di casa e non a diecimila chilometri di distanza. E in economia sono stati gli americani, inseguendo il demenziale sogno di ipotecare il futuro fino ad epoche siderali, a provocare una crisi devastante che hanno poi scaricato sull'Europa permettendosi anche di colpevolizzarla per una crisi che da loro è partita e di affossarla ulteriormente a colpi di previsioni negative delle loro agenzie di rating. Per gli americani noi siamo stati sempre degli 'utili idioti' da usare a loro piacimento. Avremmo dovuto già capirlo da tempo. E invece siamo ancora lì ad agitar bandierine, azzurre o rosse, per festeggiare il nostro servaggio.

Massimo Fini

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