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Ultimo Aggiornamento: 18/03/2024 03:14
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02/12/2010 18:32
 
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Re:
giove(R), 02/12/2010 18.05:

ho sentito quello che avrai wsentito pure te.
addirittura la Polizia avrebbe acquisito il libro per saperne di più!!!
ma te rendi conto? è come se Ranieri andasse da Torri a chiedergli cone gioca la Roma.
c'è anche un altro libro, prefazione di Caselli, "Nomi, cognomi e infami".
lo slogan di presentazione è "la mafia al nord esiste. ce la racconta chi da anni la combatte".

intanto mi sono preso un pò di roba come compiti per le vacanze:
Soza Boy il libro sponsorizzato da Saviano di KEn Saro Wiwa, scrittore impegnato in nigeria contro la distruzione delle terre degli Ogoni a causa dello sfruttamento dell'iundustira pretrolifera, impiccato con l'assenso della Shell, poi l'ultimo di Amarthya Sen, e infine il primo di una giornalista che è di recente balzata nella mia top five, Arundhaty Roy, indiana.

inchieste a go go sulla deriva nazionalista e anche un pò nazista dell'India, un tempo paese ..gandhiano.
è da poco tornata da un periodo nella giungla insieme ai guerriglieri naxaliti/maoisti/tribali cui il governo dà la caccia perchè vogliono difendere i loro territori, dove purtroppo per loro sono state trovate praticamente tutte le riserve di ricchezz mineraria ecc. le multinazionali sono lì che si fregano le mani e il governo indiano è impegnato a spazzare via chi non è d'accordo.
il fatto vuole che ai vecchi guerriglieri comunisti che combattono da tempo per altri motivi, si sono uniti tutti i poveracci dei villaggi, gente che combatte l'esercito con i bastoni, facendo imbiocate e guerriglia di altri tempi, per difendere le loro montagne sacre, i boschi sacri, ecc....

è una lotta impari, lei ha sposato la loro causa. di recente molta parte dell'opinione pubblica (disinformata) e delle autorità ha chiesto che venisse arrestata per quanto afferma.


vabbè non ve ne frega un cazzo ma tant'è... [SM=g27987]



la cosa che mi colpisce di più è che hai le vacanze natalizie, beato te [SM=g27992]
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Re: Re:
lucolas999, 02/12/2010 18.32:

beato te [SM=g27992]



che fai come shearer a Giove quando partiva per le vacanze[SM=g27987] ?


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"compiti per le vacanze" era per dire luco! c'avrò gisuto qualche giorno di ferie (anche se... si preannuncia molto promiscuo..).

lo so che quest'anno con gli incastri dei giorni di festa è veramente uno schifo.

no luca, è che per un paio d mesetti sò rimasto veramente a secco di lettura. mi rifaccio, tra l'altro sono tutti libri che volevo leggere già da un anno. (e troppi altri ce ne sarebbero, ad aver il tempo però...).




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02/12/2010 22:00
 
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Re: Re:
lucolas999, 02/12/2010 18.32:



la cosa che mi colpisce di più è che hai le vacanze natalizie, beato te [SM=g27992]



io mi son preso un periodo di pausa dal 24 al 7.
ne ho proprio bisogno.

giova, se trovo il tempo un paio di pagine di metastasi le leggo.

stasera ne parlava Castelli (per un attimo ho pensato fosse lui il leghista "protagonista") al tg di Mentana.


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"Sto lavorando duro per preparare il mio prossimo errore." Bertolt Brecht
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Re: Re: Re:
E_Dantes, 02/12/2010 22.00:



io mi son preso un periodo di pausa dal 24 al 7.
ne ho proprio bisogno.







che dio ti fulmini

scherzo se ti prendi sti giorni vuol dire che ne hai bisogno [SM=g27988]
la mia è più nostalgia delle pause scolastiche

voglio tornare bambino [SM=g28000]
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Re: Re: Re: Re:
lucolas999, 03/12/2010 9.23:




che dio ti fulmini

scherzo se ti prendi sti giorni vuol dire che ne hai bisogno [SM=g27988]
la mia è più nostalgia delle pause scolastiche

voglio tornare bambino [SM=g28000]




se è per questo la persona per cui lavoro (mi sentisse mio fratello [SM=g27995] ) ha deciso che lo studio rimarrà chiuso dalle 14 di oggi fino al mattino del 9 dicembre.

ora vado a rifugiarmi in un posto sicuro dove i fulmini non possono colpirmi.

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Re: Re: Re:
E_Dantes, 02/12/2010 22.00:



io mi son preso un periodo di pausa dal 24 al 7.
ne ho proprio bisogno.

giova, se trovo il tempo un paio di pagine di metastasi le leggo.

stasera ne parlava Castelli (per un attimo ho pensato fosse lui il leghista "protagonista") al tg di Mentana.






È Roberto Castelli il leghista che, secondo le dichiarazioni del pentito Giuseppe Di Bella, avrebbe fatto accordi con la 'ndrangheta nel 1990. Nello specifico, le accuse (contenute nel libro 'Metastasi' di Nuzzi Antonelli) si riferiscono ad accori con il clan Coco Trovato di Lecco. “Di Bella è uno dei tanti mistificatori che purtroppo abbondano nel mondo dei pentiti. Leggo su alcuni quotidiani – scrive il senatore sul suo profilo Facebook– che sarebbe saltato fuori il solito pentito che parla di un esponente leghista che avrebbe fatto accordi con il clan Coco Trovato a Lecco nel 1990. In quegli anni soltanto la Lega combatteva la mafia". Castelli continua: “È troppo comodo lanciare accuse e insinuazioni a cui non si può ribattere, con l’evidente tentativo di fermare l’avanzata della Lega in Lombardia. Invito questo ’signor pentito’ a fare nomi e cognomi. I riscontri diranno se ha detto la verità o se è uno dei tanti mistificatori che purtroppo abbondano nel mondo dei pentiti. Da un lato ci sono le affermazioni di un mafioso, dall’altro la storia della Lega che è sotto gli occhi di tutti”.
Il nome e cognome (il suo) lo fa Il Giornale, su cui l'ex ministro della Giustizia controbatte alle accuse. “E’ assurdo, io ho sempre combattuto le cosche. I miei unici contatti con le cosche risalgono a quando li ho mandati al 41bis come ministro della Giustizia” assicura. "Ho combattuto la ‘ndrangheta per tutta la vita, la Lega combatte la ‘ndrangheta da sempre, dagli anni in cui gli altri, tutti gli altri, dormivano e non si accorgevano del potere crescente dei boss trapiantati al Nord" aggiunge. L'ex guarasigilli del Carroccio prosegue: "Coco Trovato era il don Rodrigo di Lecco, un personaggio tutto in ombra. Si fa riferimento a me? Lo dicano chiaramente. Il ‘regno’ di Coco Trovato -spiega - finì nel ‘92, quando la Lega si impadroni’ di Lecco e sindaco divento’ Pogliani". Trovato "fu sepolto al 41 bis" e "il ministro che ha stabilizzato il 41 bis sono io" conclue il leghista.
L. S. D.
"Sto lavorando duro per preparare il mio prossimo errore." Bertolt Brecht
"Ubriacatevi. Di vino, di poesia o di virtù, a piacer vostro, ma ubriacatevi." Charles Baudelaire
04/01/2011 12:41
 
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L'INCHIESTA "Ecco perché scrivo" Gli autori raccontano
Da Vargas Llosa, a Camilleri, alla Nothomb: ecco come hanno risposto molti scrittori alla domanda sul loro mestiere. Che spesso è una necessità, un piacere, o semplicemente la possibilità di svegliarsi tardi...
di ANTONIO MONDA

C'È CHI ha 85 anni e chi 32. Chi ha pubblicato ancora poco e chi tanto. Qualcuno ha vinto il Nobel, qualcun altro, forse, lo vincerà. Sono scrittori. Questa settimana El País Semanal, il settimanale del quotidiano spagnolo, ha chiesto a 50 autori: perché scrivete? Ognuno ha dato la sua risposta. Brevissima, come Umberto Eco, che icastico ha detto: "Perché mi piace". O più articolata, come quella, con digressioni autobiografiche, di Mario Vargas Llosa. Prendendo spunto da El País, e raccogliendo da lì alcune risposte, abbiamo rivolto lo stesso quesito anche ad altri. Qualcuno (Camilleri, Haddon, Marías) sostiene di non saper fare cose diverse dalla scrittura, o quasi. Per Ken Follett scrivere è il primo pensiero del mattino. Per Amélie Nothomb è come innamorarsi. Per Nathan Englander si tratta dell'unico modo di fare ordine nel caos. Colum McCann la prende come una sfida a immaginare quello che non è ancora accaduto. Antonio Tabucchi trova una risposta ponendo altre domande. Ma prima cita Beckett, che rispondeva semplicemente: "Non mi rimane altro".


Shalom Auslander
Per evitare di uccidere me e/o gli altri. Per ora sta funzionando. Per ora.

Andrea Camilleri
Scrivo perché è sempre meglio che scaricare casse al mercato centrale.
Scrivo perché non so fare altro.
Scrivo perché dopo posso dedicare i libri ai miei nipoti.
Scrivo perché così mi ricordo di tutte le persone che ho amato.
Scrivo perché mi piace raccontarmi storie.
Scrivo perché mi piace raccontare storie.
Scrivo perché alla fine posso prendermi la mia birra.
Scrivo per restituire qualcosa di tutto quello che ho letto.

Umberto Eco
Perché mi piace.

Nathan Englander
Scrivo per fare un po' d'ordine nel caos.

Ken Follett
Quando mi sveglio la mattina la prima cosa che penso è di scrivere la prossima scena del mio libro. È quello che mi diverte di più. È fantastico dedicarsi a qualcosa che uno sa di fare bene. Mi diverto scrivendo, ma "divertirsi" è una parola che non dà del tutto l'idea. L'atto di scrivere mi appassiona. Coinvolge tutto il mio intelletto, le mie emozioni e comprende tutto quello che so del mondo e di come funziona l'essere umano. Tutto fa parte della sfida per accattivare i miei lettori. Il mio lavoro mi assorbe totalmente.

Mark Haddon
Fiction, poesia, teatro, pittura, disegno, fotografia... in realtà non importa.
Un giorno che non riesco a fare qualcosa, per piccola che sia, mi sembra un giorno sprecato.
Una settimana senza creare nessun tipo di arte mi risulta assolutamente dolorosa.
A volte può sembrare una benedizione essere così, sapere con tanta certezza quello che voglio fare.
Ma spesso è una sofferenza perché sapere ciò che vuoi non è lo stesso che sapere come fare.
Potrei essermi dedicato a qualsiasi altra cosa, salvo che non mi sento in condizione.
Odio che mi dicano quello che devo fare e quando devo farlo, anche se mi diverto in compagnia, ho bisogno di trascorrere diverse ore al giorno da solo, a pensare soltanto.
Per questo non sono mai riuscito a conservare un lavoro "vero" per più di sei settimane.
Perché scrivo? L'unica risposta è perché non posso fare altro.

Adam Haslett
Scrivo per viaggiare nelle vite degli altri.

Javier Marías
Come ho già detto in molte occasioni, scrivo per non avere un capo e non vedermi obbligato ad alzarmi presto.
Ma anche perché non ci sono molte altre cose che sappia fare e lo preferisco e mi diverte più che tradurre o insegnare, cose che, all'apparenza, sì so fare. O sapevo fare, sono occupazioni del passato.
Scrivo anche per non dovere quasi niente a quasi nessuno e per non dover salutare chi non voglio salutare.
Perché credo di pensare meglio davanti alla macchina da scrivere che in qualsiasi altro luogo o situazione.
Scrivo romanzi perché la fiction ha la facoltà di insegnarci ciò che non conosciamo e ciò che non è dato, come dice un personaggio del romanzo che ho appena concluso. E perché l'immaginario aiuta molto a comprendere quello che ci accade, che si è soliti chiamare "realtà".
Quello che non faccio è scrivere per esigenza. Potrei trascorrere anni tranquillo senza scrivere una riga. Ma in qualcosa bisogna occupare il tempo ed è necessario guadagnare qualche soldo. Scrivo anche per questo.

Colum McCann
Scrivo perché il mondo non è ancora compiuto e le storie non sono state raccontate tutte: l'abilità di scrivere è nell'immaginare che i fatti continuano ad accadere e che esistono ancora infinite storie.

Patrick McGrath
Scrivo per dare forma alle creazioni della mia immaginazione che altrimenti morirebbero nel silenzio e nel buio.

Stefan Merrill Block
Scrivo perché la scrittura è l'unico posto dove sento di avere un senso.

Amélie Nothomb
Mi chiedono perché ho scelto di scrivere. Io non l'ho scelto. È la stessa cosa che innamorarsi. Si sa che non è una buona idea e uno non sa come ci è arrivato, ma quanto meno deve provarci. Gli si dedica tutta l'energia, tutti i pensieri, tutto il tempo. Scrivere è un atto e, come l'amore, è qualcosa che si fa. Non se ne conoscono le istruzioni per l'uso così si inventa perché necessariamente devi trovare un mezzo per farlo, un mezzo per riuscirci.

Valeria Parrella
È la mia sacca di libertà. È l'unico momento in cui mi sento veramente libera. Quando scrivo non mi faccio nessun tipo di scrupolo: non penso mai se posso o non posso dire una cosa che voglio dire. Ed è l'unico caso in cui mi comporto così. Questo motivo è pre pubblicazione quindi credo sia quello di fondo. Poi possiamo parlarne per mesi.

Wole Soyinka
Vari anni fa, mi trovai a dover rispondere alla stessa domanda per il giornale francese Libération. In quell'occasione, dissi: "Credo che sia per quell'essere masochista che porto dentro di me". Da allora, non ho avuto alcun motivo di cambiare risposta.

Antonio Tabucchi
Preferirei formulare la domanda così: perché si scrive? Tempo fa, quando ero giovane ascoltai Samuel Beckett rispondere: "Non mi rimane altro". Le risposte possibili sono tutte valide, ma con un punto interrogativo. Scriviamo perché temiamo la morte? Perché abbiamo paura di vivere? Perché abbiamo nostalgia dell'infanzia? Perché il passato è fuggito in fretta o perché vogliamo fermarlo? Scriviamo perché a causa della vecchiaia sentiamo nostalgia, rammarico? Perché vorremmo aver fatto una cosa e non l'abbiamo fatta o perché non dovremmo aver fatto qualcosa che abbiamo fatto e non avremmo dovuto? Perché stiamo qui e vogliamo stare lì e se stessimo lì non sarebbe stato meglio per noi restare qui? Come diceva Baudelaire: la vita è un ospedale dove ogni malato vuole cambiare letto. Uno crede che potrebbe guarire più in fretta se si trovasse accanto alla finestra e un altro pensa che starebbe meglio vicino al riscaldamento.

Adam Thirlwell
Scrivo perché non c'è piacere paragonabile a quello di inventare lettori immaginari.

Mario Vargas Llosa
Scrivo perché imparai a leggere da bambino e la lettura mi procurò tanto piacere, mi fece vivere esperienze tanto entusiasmanti, trasformò la mia vita in una maniera così meravigliosa che credo che la mia vocazione letteraria fu una sorta di traspirazione, di derivazione da quella enorme felicità che mi dava la lettura.
In un certo modo, la scrittura è stata come il rovescio o il completamento indispensabile della lettura, che per me continua a essere la massima esperienza di arricchimento, quella che più mi aiuta ad affrontare qualsiasi tipo di avversità o fallimento. D'altra parte, scrivere, che all'inizio è un'attività che si mischia alla tua vita con le altre, con la pratica diventa il tuo modo di vivere, l'attività centrale, quella che organizza del tutto la tua vita.
La famosa frase di Flaubert che sempre cito: "Scrivere è un modo di vivere". Nel mio caso è stato esattamente così. È diventato il centro di tutto ciò che faccio al punto che non concepirei una vita senza la scrittura e, ovviamente, senza il suo complemento indispensabile, la lettura.
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SCHOPENHAUER - L'arte di insultare

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04/02/2011 13:24
 
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Psycho Pynchon, follie e figli dei fiori
tutto il fascino dei perdenti



"Vizio di forma" è l'ultimo romanzo dello scrittore che chiude la sua trilogia hippie raccontando le idee, le manie e le atmosfere dell'America degli anni Settanta di SANDRO VERONESI

"Pensavo / di avere incontrato un uomo / che diceva / di conoscere un uomo / che sapeva / cosa stava succedendo / Mi sbagliavo / era solo un bambino / che rideva / nel sole".

È il testo di un pezzo di David Crosby, Laughing, tratto dal suo leggendario album intitolato If I could only remember my name diventato un manifesto della cultura hippie - della sua caleidoscopica indeterminatezza, della supremazia che in quegli anni aveva instaurato del mondo insaturo su quello saturo, della confusione sull'ordine, della paranoia sulla ragionevolezza. L'album è del 1971: Paura e disgusto a Las Vegas, di Hunter Thompson, struggente ammissione di sconfitta da parte di uno dei più radicali interpreti della cultura flower-power, è stato scritto e pubblicato in quello stesso anno. È l'anno del processo alla Famiglia Manson, ed è anche l'anno in cui Thomas Pynchon ha deciso di ambientare il suo ultimo, meraviglioso romanzo, Inherent Vice (Vizio di forma, Einaudi, traduzione di Massimo Bocchiola, pagg. 470, euro 20), completando così, col tassello centrale, la propria trilogia hippie, dopo L'incanto del lotto 49, pubblicato e ambientato nel 1966, e Vineland, pubblicato nel 1990 ma ambientato nel 1984.

Come sempre quando scrive Pynchon, questo romanzo pulsa di un'incessante, entropica connessione tra il prima e il dopo, tra il reale e l'immaginario, tra l'ignoto e il conosciuto, pur accomodandosi stavolta nelle forme assai attraenti e insolitamente "facili" di un hardboiled psichedelico - tutto dark women, anime perse e dialoghi esilaranti. E come sempre quando scrive Pynchon, è inutile cercare di dar conto della trama: i personaggi sono la trama, a partire dal protagonista, l'investigatore privato Larry "Doc" Sportello, un perdente della stirpe degli Zoyd Wheeler, dei Benny Profane, dei Tyrone Slothrop - cioè perdenti che, per dirla con Sartre e con la sua concezione del romanzo, vincono. Sportello, del resto, sembra una versione freak di Philip Marlowe: ex-surfista, solitario, vive ancora sulla spiaggia e chiama ancora "terraferma" il resto della città, fuma spinelli in continuazione, non ha interesse per i soldi, ama non riamato, rimane incrollabilmente puro nell'attraversare qualsiasi sporcizia e risulta invulnerabile al crimine violento in mezzo al quale pure si ritrova a sguazzare. È lui la sonda che Pynchon utilizza per recuperare dalle profondità della storia quell'onda hippie che per un quindicennio ha rappresentato la speranza, prima di venire cancellata dalla risacca conformista che sembrava avere sommerso. Sportello viene innescato da una sua ex-fiamma, Shasta, che gli chiede di indagare sulla scomparsa del palazzinaro per il quale lo ha mollato, e così, per puro amore non corrisposto, per pura debolezza maschile, si mette a cercar di comporre quello che, per usare un concetto a Pynchon certamente caro, potremmo chiamare il "mosaico del dubbio", e che contiene rapimenti, ricatti, estorsioni, vendette, omicidi, traffico di droga, corruzione, ma anche antichi continenti perduti, telepatia, occultismo, lisergismo, zombie, surf-rock, dipendenza televisiva e cibo macrobiotico; e così facendo si ritrova a fluttuare nella magica "nebbia del drogato" che tutto apparenta e rende incerta qualsiasi storia - nella quale nebbia si dissolve anche il romanzo stesso, in un finale indimenticabile.

Come negli altri capolavori di Pynchon, si procede per accumulo. E "procedere", qui, è inteso come puro movimento dall'indeterminatezza verso il caos - non certo verso il disvelamento dei misteri; laddove però, come se ogni parola cliccasse sull'icona "ingrandisci" di una specie di Google Time Machine, la California del sud del 1971 emerge sempre più a fuoco, in una pazzia di dettagli straordinariamente vivi e definiti - topografici, commerciali, musicali, urbanistici, architettonici, nautici, giudiziari, politici, religiosi, sportivi, culturali, controculturali e sottoculturali, così che la citata menzione del continente sprofondato - Lemuria, la versione Pacifica dell'Atlantide di Platone - diventa il simbolo che accompagna la strepitosa opera di risveglio mnemonico di quel mondo perduto nel quale la purezza andava a braccetto con la sporcizia, l'ispirazione con il vomito e l'innocenza con il delirio. Non a caso Shasta, la ragazza fatale, porta il nome della montagna del nord della California dove la leggenda vuole che i sopravvissuti di Lemuria si siano rifugiati e nascosti come sorci in buche e cunicoli sotterranei - e puri, tuttavia, e incontaminati come palle di luce. Una luce che illumina ogni angolo della città confusa e maledetta attraversata da Sportello nella sua ricerca, una Los Angeles che è la summa di tutte le Los Angeles conosciute - mai così completa, sterminata, e vera; e che fa risplendere ogni singolo volto di quel 1971, tanto che alla fine sembra di averli visti proprio tutti, quei volti; di aver riconosciuto per esempio quello di Hunter Thompson, sì, intento a sparare alle iguane lungo l'autostrada per Las Vegas, o di David Crosby, che canta insieme a Graham Nash, o - clicca, ingrandisci - del tenente Colombo, che attraversa un incrocio sul Santa Monica Boulevard a bordo del suo catorcio, o dello stesso Pynchon, eh sì - clicca, ingrandisci - , proprio lui, malgrado nessuno l'abbia mai visto, è lui - ingrandisci - , dentro quella casa di Gordita Beach, seduto al tavolino - ingrandisci - , è lui per forza, intento a battere sui tasti della macchina da scrivere, perché in cima alla pila di fogli vicino a lui c'è scritto - clicca, ingrandisci - eh sì, c'è scritto Gravity's Rainbow - il suo capolavoro, il romanzo destinato a uscire e sbalordire il mondo tra due anni, trentotto anni fa, nel '73...

Ma forse non era lui, forse mi sbaglio. Forse era solo un bambino che rideva.

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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qualche giorno fa ho trovato questo libretto interessante sul periodo di Tangentopoli uscito un paio di anni fa.
Sicuramente aiuta a capirci qualcosa di piu'.


Mario Almerighi: "Tre suicidi eccellenti"
Editori Riuniti - pag 238, euro 12


Tre suicidi in un sistema che uccide

Cagliari, Castellari, Gardini: un magistrato ricostruisce la loro fine negli anni di Tangentopoli, in una democrazia che continua ad essere minacciata


La storia infinita dei misteri d'Italia ci ha insegnato negli anni che il sistema può anche uccidere chi, per qualche ragione, smetta di essergli funzionale e diventi così inaffidabile. E' accaduto per le stragi che già dal 1969, dalle bombe di Piazza Fontana, inaugurarono la strategia della tensione, fino al buio degli anni di piombo e agli innumerevoli omicidi di mafia i cui mandanti sono tuttora avvolti da buona dose di mistero.

Una realtà che il giornalismo investigativo ha più volte tentato di raccontare accollandosi l'onere di non poter mai arrivare a una soluzione certa del giallo e che ora viene invece sempre più spesso affrontata con l'arma della finzione. Una licenza d'inventare che riempie i vuoti della cronaca permettendo di confezionare racconti verosimili che risultano assai sovente più autentici delle cronache lacunose di pezzi di verità rimasti senza prove.

E' il caso di Tre suicidi Eccellenti, in libreria da qualche settimana per gli Editori Riuniti, marchio di recente tornato a occupare un ruolo di prestigio nel panorama dell'editoria, che ricostruisce tre "suicidi" eccellenti del periodo di Tangentopoli, rimasti tuttora senza certezze. Tre uomini di potere, tre uomini che si sarebbero tolti la vita, morti tutti e tre poche ore prima di andare ad affidare la loro versione dei fatti dinanzi alla magistratura. Sergio Castellari, direttore delle Partecipazioni statali, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni e Raul Gardini, il più importante industriale della chimica italiana. Tre personaggi, altrettanti casi misteriosi.

Autore di questo libro, rigoroso come un'inchiesta ma accattivante come un giallo è Mario Almerighi, magistrato di qualità, ricco di memoria storica e scrittore talentuoso, già autore di
I banchieri di Dio (2002) e di Petrolio e politica (2006). Tre suicidi eccellenti ha il merito di mettere in scena personaggi veri e figure inventate e di regalare a chi legge una storia affascinante che affida alla cronaca i particolari ( tutti veri) e alla fantasia le ipotesi (verosimili) che mettono in dubbio la versione ufficiale data negli anni di Tangentopoli. Una lettura istruttiva come un saggio, intrigante come un noir.

Il suo libro ricostruisce tre suicidi eccellenti. Quanto c'è di vero in questo romanzo del verosimile?
"Ho cercato di ricostruire i fatti nel rispetto di quanto realmente accaduto. Può accadere che la verità giudiziaria a volte non coincida con quella reale. Ciò può dipendere sia dal mancato approfondimento o da errori nella fase delle indagini, sia da valutazione dei fatti che tradiscono la logica e, direi di più, il buon
senso.

Il caso più eclatante è quello di Castellari. Il pubblico ministero ha sposato la tesi del suicidio di fronte ad una serie di elementi che urtano fortemente con tale conclusione. Sebbene il cadavere sia stato trovato all'interno di un terreno fangoso, la suola delle scarpe era pulita. La pistola è stata rinvenuta infilata nella cintura senza che vi fossero impronte di alcun genere. Le dita mozzate, il viso totalmente sfigurato e una parte della teca cranica mancante. Le valutazioni di questi ed altri elementi da parte del pubblico ministero si basano su ipotesi di verosimiglianza che sono messe in discussione da personaggi da me inventati.

Altrettanto accade per le morti di Gabriele Cagliari e Raul Gardini. I fatti reali accertati nelle indagini lasciano dei buchi neri che possono essere colmati o con una riapertura delle indagini oppure con ipotesi di verosimiglianza. Anche nei provvedimenti dei giudici c'è il vero e il verosimile. Anzi, è essenzialmente sulla linea del verosimile che si muovono le loro decisioni sui suicidi. Ma quale verosimiglianza si avvicina più al vero? Il romanzo contiene ipotesi alternative. Ho cercato di porre il lettore nelle condizioni di ergersi a protagonista nella valutazione dei fatti e scegliere".

Sapremo mai la verità sui tanti misteri d'Italia?
"Sarà molto difficile. Nel nostro paese il pubblico ministero è indipendente dal potere politico, ma questo ha un rapporto di supremazia gerarchica nei confronti della polizia giudiziaria che a volte interferisce col rapporto di dipendenza funzionale dall'autorità giudiziaria. A ciò deve aggiungersi una sorta di sudditanza psicologica di alcuni magistrati nei confronti del potere politico. Basti pensare all'epoca in cui il palazzo di giustizia di Roma era denominato "il porto delle nebbie". Deve, inoltre, considerarsi che ogni qualvolta magistrati hanno superato il livello di accertamento della verità e della legalità voluto dal potere - sia politico che economico-finanziario - alcuni di loro sono stati uccisi e sono state adottate controriforme perché certe indagini non potessero ripetersi. Illecito finanziamento ai partiti, falso in bilancio e intercettazioni telefoniche costituirono strumenti essenziali nel processo del petrolio degli anni '70 e in tangentopoli degli anni '90. I primi due reati sono stati pressoché cancellati e attualmente è in cantiere la controriforma sulle intercettazioni telefoniche. L'elenco di altre controriforme degli ultimi 20 anni è enorme tanto che oggi la giustizia può considerarsi in stato preagonico. Se a ciò si aggiunge la riduzione degli spazi di libertà nel settore dell'informazione, credo che sarà molto difficile nel prossimo futuro conoscere la verità sui misteri d'Italia. Credo che vi sia sempre stata una certa volontà politica che tali rimangano. Basti pensare, ad esempio all'omicidio di Aldo Moro. Lo aveva capito Giovanni Falcone quando, all'indomani del fallito attentato dell'Addaura, parlò di "menti raffinatissime".

Sin dall'epoca della c. d. strage delle Ginestre, la storia d'Italia è costellata di stragi e omicidi che si intrecciano con le vicende politiche. Credo che la verità si avrà quando il potere politico conquisterà una completa autonomia dai centri di potere economico-finanziario legali e illegali del paese; quando verrà risolto il problema del finanziamento dei partiti secondo la proposta che fece a suo tempo don Sturzo, in base alla quale era prevista la personalità giuridica dei partiti e, quindi, con garanzie di trasparenza e un controllo esterno dei loro bilanci; quando il sistema giustizia e l'informazione verranno considerati dal potere politico presidi di indipendenza e libertà e non strumenti a tutela di interessi di parte; quando le istituzioni della Repubblica si porranno, nel rispetto dei rispettivi ruoli, l'obbiettivo comune di restituire ad essa le dimensioni di un vero Stato di diritto.

Perché ha scelto di raccontare proprio un pezzo di Tangentopoli?
"Ritengo che le tre storie siano emblematiche di quanto ho appena detto. Perché l'aspetto giallistico che contraddistingue le tre morti si estende alla interdipendenza tra gli interessi imprenditoriali pubblici e privati e la disponibilità interessata di certe frange politiche che sfocia in un terreno di assoluta illegalità. Tangentopoli è stata definita la madre di tutti gli scandali. Il processo del petrolio degli anni '70 è stato secondo me il padre. Si tratta di un matrimonio che ha partorito il mostro che sta dilaniando la nostra democrazia".
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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12/03/2011 14:39
 
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dove vivo c'è una libreria fantastica.
C'è questa living room enorme con un biliardo al centro, tre divani (nessun televisore) e pareti colme di libri. In questi giorni ho ripreso tra le mani un ricordo di adolescenza: "Memorie dal sottosuolo" di Dostoevskij.

L. S. D.
"Sto lavorando duro per preparare il mio prossimo errore." Bertolt Brecht
"Ubriacatevi. Di vino, di poesia o di virtù, a piacer vostro, ma ubriacatevi." Charles Baudelaire
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IL LIBRO

L'uomo mite che spaventò i violenti
in libreria la storia del vescovo Romero


Torna il volume di Ettore Masina sulla ribellione agli squadroni della morte e ai silenzi del Vaticano del prelato salavadoregno ucciso sul sagrato della sua chiesadi MATTEO TONELLI


ROMA - "Vi sono storie che ti abbracciano così stretto che non riesci a dimenticarle". Storie che parlano di un uomo mite che spaventò i violenti. Che si fece rivoluzionario solo perché decise di stare con gli ultimi quando degli ultimi non importava niente a nessuno. Storie di un uomo che consacrò la sua vita alla religione e su un altare trovò la morte. La storia di Oscar Romero, l'arcivescovo salvadoregno freddato, il 24 marzo 1980, dai proiettili degli squadroni della morte a cui il regime lasciava mano libera. Ettore Masina consegna alle stampe la sua terza versione della biografia di Romero (la prima era uscita nel 1996). "L'arcivescovo deve morire" si intitola (edizioni Il Margine, pagine 400, 18 euro) e racconta la storia di un uomo mite ma armato di una volontà ferrea. Che decise di condurre una lotta, solitaria, nella totale indifferenza prima e ostilità poi, delle alte gerarchie ecclesiastiche, silenti spettatrici delle atrocità commesse dall'allora governo salvadoregno. Romero, invece, dice no. Non resta indifferente davanti ai massacri del suo popolo, all'eliminazione di quei preti "scomodi" schierati con i deboli. Si schiera e incassa l'accusa di essere "comunista". Marchio con cui venivano bollati tutti coloro che, in quella parte di mondo negli anni 80, lottavano per migliori condizioni di vita e minori disuguaglianze: sindacalisti, oppositori politici, contadini, sacerdoti. Tutti accusati di simpatizzare per la guerriglia.

La repressione scatenata
dall'allora presidente Carlos Humberto Romero è tremenda. Le violenze degli squadroni della morte senza controllo. Sparizioni, torture, processi sommari diventano "il pane quotidiano dei cristiani". Il cardinal Romero decide di non tacere e Masina racconta per intera questa ribellione che finisce nel mirino del regime. Proprio il vescovo che al momento della sua elezioni era definito "un buon conservatore" si ritrova addosso l'accusa di marxismo. Le gerarchie ecclesiastiche locali lo lasciano solo additandolo come "incitatore della lotta di classe e del socialismo". E il prelato, ricorda Masina, replica così: "E' uno scandalo che i cristiani di oggi critichino la Chiesa perché "pensa in favore dei poveri" e così facendo rischi di trasformarsi in comunista".

Lasciato solo Romero decide di far conoscere la situazione del suo Paese direttamente in Vaticano. Nell'agosto del 1979 vola a Roma e (tra molte difficoltà) riesce ad incontrare Giovanni Paolo II. Al papa polacco Romero racconte le violenze che funestano il Salvador, parla dell'assassinio del sacerdote Octavio Ortiz, delle sofferenze del suo popolo. Ma non serve. Wojtila resta freddo davanti a quel vescovo in odore di "comunismo". Quello stesso comunismo che il papa polacco osteggiava con forza. Al punto che lo strabismo del Vaticano tendeva a chiudere un occhio davanti "alle dittature di destra, che spesso esibivano un cerimonioso rispetto per la Chiesa cattolica" mostrandosi inflessibile davanti a quelle "comuniste che miravano a essere definitive e radicalmente anticristiane" scrive Masina

Romero, dunque, resta solo. Ma non si ferma. Ogni sua messa, ogni sua omelia vengono interpretate dal regime come un atto di sfida. Le gerarchie locali vedono in lui un pericoloso sostenitore della "teologia della liberazione". Lui, che negava di avere "la vocazione del martire" come tale finisce la sua vita. Ucciso mentre celebra la messa da un colpo di pistola da un uomo degli squadroni della morte del maggiore D'Aubuisson. E ancora sangue scorrerà il giorno dei funerali. Sangue impunito come quello di Romero.

E ancora oggi, a distanza di 31 anni dalla sua morte, la sua figura provoca imbarazzi in Vaticano. Non a caso la causa di canonizzazione è ancora ferma sul tavolo della Congregazione dei santi. Nel 1997 i vescovi latinoamericani (quelli della vecchia generazione sono morti ndr) hanno chiesto, senza esito, che la causa di Romero venisse istruita rapidamente. Nel suo pontificato Giovanni Paolo II ha proclamato più di milleottocento tra santi e beati. Non Romero però: anche se nel 2000 il defunto papa polacco inserì il vescovo salvadoregno tra "i nuovi martiri". E anche oggi c'è chi frena sostenendo che un santo non debba fomentare divisioni ma essere segno di unità. Un contrasto che interessa poco chi, come il popolo del Salvador, considerava Romero beato anche da vivo. E poco si cura delle rigide regole dei canonisti.

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nn proprio un libro da portarsi in spiaggia..ma interessante per capire una certa politica " vaticana " negli anni'80..di cui era partecipe direttamente o meno pure Papa Wojtila..che del resto x altre vicende legate allo Ior si tenne stretto Marcinkus nei primi anni di pontificato fino a che nn divenne indifendibile.. ( vedi libro Vaticano S.p.A. )
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28/06/2011 12:37
 
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Hemingway: 50 anni morte, Cuba lo ricorda


L'AVANA - A Cuba persiste ancora, anche se non in modo omogeneo, un sentimento di avversione nei confronti degli americani, spesso considerati 'yankee' o ''imperialisti''. C'e' un'eccezione alla regola, anche perche' all'Avana non lo si considera un americano: Ernest Hemingway, che ebbe profondi vincoli con l'isola, dove il 50/o anniversario della sua morte, il 2 luglio 1961, viene ricordato con numerosi eventi.

Secondo Ada Rosales - direttrice del Museo Finca Vigia, a suo tempo residenza cubana di Hemingway - lo scrittore non aveva scelto Cuba semplicemente per riposarsi: ''si sentiva infatti cubano, e a tutti gli effetti''. Sono proprio i luoghi dell'isola caraibica a raccontare quanto Hemingway amasse queste terra.

A cominciare dall'Hotel Ambos Mundos, di cui lo scrittore rimase innamorato quando vi soggiorno' nel 1938 solo per un breve scalo, di ritorno dalla Spagna della guerra civile dove fece il giornalista. Un breve periodo negli Usa fu solo il preambolo al ritorno definitivo a Cuba un anno piu' tardi, con la sua terza compagna, Martha Gellhon, ancora una volta all'Ambos Mundos. Qui comincio' l'ultima bozza di 'Per chi suona la campana''. Dall'albergo, scrive lo stesso Hemingway, si poteva ammirare la cattedrale, lo sbocco della baia ed il mare, facendo colazione con latte freddo ed un pezzo di pane, tenendo d'occhio il molo di San Francisco, dove era ormeggiata Anita, la sua barca. Erano gli ultimi anni della dittatura di Machado e Hemingway aspettava la fine di quello che aveva definito come un ''miserabile tiranno''.

Martha, pero', non aveva trovato la stessa pace, e inizio' la ricerca di un luogo piu' appartato, per allontanarsi dalle continue visite all'Ambos Mundos. La soluzione fu la Finca Vigia, a San Francisco de Paula, alle porte de L'Avana. La affitto' ed affronto' le lamentele di un riottoso Hamingway, che non voleva lasciare L'Avana per andare a finire in un luogo cosi' isolato. Fece di piu', la ristrutturo' e riusci' a far cambiare totalmente idea al compagno: nel dicembre del 1940 la Finca fu acquistata.

Da quel momento si trasformo' nello sfondo di un periodo intensissimo nella vita dell'artista. Da li' passarono grandi personalita', da Spencer Tracy a Katherine Hepburn e Gary Cooper, Jean Paul Sartre, al pugile Rocky Marciano. Si racconta perfino che Ava Gardner si facesse il bagno nuda nella piscina della villa, e che Hemingway invitasse gli altri ospiti a immergere i piedi nell'acqua dove era appena stata la diva. Un luogo che oltre ad essere al centro della sua vita privata lo legava alla dimensione pubblica dell'isola: e infatti Mary Welch, sua ultima compagna, dono' alla morte dello scrittore la Finca al governo cubano, seguendo le ultime volonta' del compagno.

Ma la vita cubana di Hemingway non era limitata alla tranquillita' casalinga, visto che era socio del Club della Caccia di El Cerro e dello Yacht Club. Aveva conti aperti in ristoranti come il 'Florida', la 'Zaragozana' o il 'Pacifico'. Hemingway e' arrivato a descrivere perfino gli odori, da quello della farina nei magazzini de L'Avana vecchia fino a quello del legno degli imballaggi del porto, pieni di caffe' e tabacco. La sua personalita' si e' insomma totalmente compenetrata con l'anima dell'isola, fino a lasciare tracce che a tutt'oggi sono piu' che mai vive nella quotidiana cubana.

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07/10/2011 10:55
 
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Processi perversi": l'Italia e il caso di Carlo Parlanti

Il libro (e il raffronto con l'omicidio Kercher) nell'opinione di Fabio Polese

In questo particolare momento storico, ci piace ripubblicare un bel pezzo del nostro collaboratore Fabio Polese apparso ne Il sito di Perugia qualche mese fa. Vogliamo offrire uno spunto in più a chi vuole riflettere a margine della sentenza d'appello del processo per il delitto di Meredith Kercher.


Ho conosciuto il caso di Carlo Parlanti in concomitanza con quello della studentessa Meredith Kercher assassinata a Perugia. Non c’è bisogno che parli del delitto perugino, i media hanno già costruito il caso come se fosse un tristissimo Truman show dal quale non è più possibile uscire.

Quello che però mi ha incuriosito sin dall’inizio è stato l’effetto che l’arresto della studentessa americana ha provocato nell’opinione pubblica, nei media e nei politici made in Usa. Dopo la sentenza del Tribunale di Perugia contro Amanda Knox - giudicata colpevole dell'omicidio Kercher - il primo cittadino della città di Seattle – gemellata con la città di Perugia -, Mike McGinn, aveva deciso di sospendere l’iniziativa di intitolare un parco di Seattle proprio a Perugia. Quasi a significare che, la signorina Knox, sia la vittima scelta dalla magistratura italiana. La decisione del Sindaco della cittadina statunitense aveva fatto “innervosire” anche il primo cittadino di Perugia che gli aveva scritto una lettera dove sottolineava: “La vicenda di Amanda Knox è una vicenda esclusivamente giudiziaria e l'amministrazione della giustizia in Italia compete allo Stato, non alle città: le relazioni tra le comunità di Perugia e Seattle non c'entrano nulla, nè devono entrarci in alcun modo”. Ancora prima di questo, subito dopo la sentenza, si scatenarono commenti ed articoli in blog e giornali americani dove l’Italia veniva messa in dubbio sul piano della giustizia. “Amanda is America” intitolava un articolo il Newser dove si leggeva: “Fino a non molto tempo fa Amanda Knox, che è stata condannata l’altro giorno, in Italia, per aver assassinato la sua coinquilina, Meredith Kercher, era chiamata Foxy Knoxy. Adesso è Amanda la martire, una Giovanna d’Arco dei tabloid internazionali, un personaggio estremamente simpatico al centro di un mostruoso aborto della giustizia. (...) Non si tratta di chi ha ucciso Meredith Kercher. A causa di errori nelle indagini, cattiva gestione delle prove e ogni sorta di pregiudizi, non ci sarà mai probabilmente una ragionevole certezza di colpevolezza - o di innocenza -. Quindi, la storia è basata, in parte, su errori e pregiudizi”. Secondo la senatrice Usa Maria Cantwell il processo di Perugia è arrivato alla condanna della ragazza nonostante una evidente “mancanza di prove” e ha rilevato “una serie di difetti nel sistema di giustizia italiano”. Insomma, in poche parole, sembrerebbe che in Italia ci sia un anti-americanismo sfrenato. O, molto più semplicemente, che negli Stati Uniti ci sia una maggiore propensione a difendere ad ogni costo un connazionale. Al contrario, lo Stato Italiano e i media nostrani non hanno speso molto tempo a parlare di Carlo Parlanti, detenuto nel carcere californiano di Avenal, nella contea di King dal 5 luglio del 2004. Carlo Parlanti è un presunto carnefice, accusato di stupro nei confronti di una cittadina statunitense, ed è tuttora prigioniero nonostante che la testimone accusatrice sia stata dichiarata psichicamente instabile dai dottori. “Stupro? Processi perversi. – Il caso di Carlo Parlanti” è il titolo di un libro-denuncia scaturito da sei mesi di studio di tre stimati criminologi dell'ambiente universitario romano – Vincenzo Maria Mastronardi, Walter Mastroeni e Ascanio Trojani -, che smentisce tutte le accuse ed arriva ad affermare la colpevolezza criminale della donna. Il libro è un autorevole lavoro che mette in mostra i perversi meccanismi del caso giudiziario analizzando l’integrità del procedimento processuale; esso accusa la polizia e la procura di aver utilizzato evidenze contraffatte e di aver occultato fatti a discarico e incolpa numerosi medici - non solo californiani - di aver emesso certificazioni false ed in contrasto con le foto della polizia ed altre certificazioni. “Come è possibile che si continui a tacere?” Queste sono state le parole di Katia Anedda, responsabile del sito www.carloparlanti.it e dell’Associazione Italiana Prigionieri del Silenzio, quando, lo scorso dicembre, l’ho incontrata a Perugia per conoscere e capire meglio il caso. In quell’incontro ho avuto pure l’occasione di parlare telefonicamente con Carlo Parlanti; con una voce calma e tranquilla mi spiegava - tra una “simpatica” registrazione del carcere americano che mi ricordava che stavo parlando con un pericoloso delinquente - la sua situazione e mi invitava a leggere il libro appena uscito. Invito che rivolgo anche a voi perché a volte il presunto carnefice può essere una reale vittima. (Fabio Polese)

Titolo: Stupro? Processi perversi: il caso Parlanti
Autori: Mastronardi-Mastroeni-Troiani

ilsitodiperugia.it
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22/04/2015 12:12
 
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Me sa che lo devo ripescà sto libro.


Eduardo Galeano: Splendori e miserie del gioco del calcio.

Mondiali del '30 a Maradona e Ronaldo: la storia del pallone come fabbrica di miti e industria del consenso politico.

Il calcio per sognare. Il calcio come arte, religione e bellezza. Il calcio come linguaggio comune, modo per riconoscersi e ritrovarsi. Il calcio, figlio del popolo, che non deve cedere alle lusinghe dei potenti, di chi vuole trasformarlo in strumento per produrre denaro, uccidendo la fantasia e l'innocenza.Eduardo Galeano, grande scrittore uruguayano, tifoso appassionato e calciatore mancato («Come tutti gli uruguagi, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte mentre dormivo;durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese»), ci guida, con il suo «Splendori e miserie del gioco del calcio» (Sperling & Kupfer), nel mondo magico del football. Con un'avvertenza: non fidatevi dell'enfasi retorica intorno al pallone, non fidatevi dei dittatori quando vi vogliono illustrare, con la complicità di un Mundial, il finto benessere del loro paese.Galeano cita la Coppa del mondo in Argentina nel 1978, nel tempo triste e crudele di Videla, dei desaparecidos, delle mamme di piazza di Maggio: «Parteciparono dieci paesi europei, quattro americani, Iran e Tunisia. Il Papa inviò la sua benedizione. Al suono di un amarcia militare, il generale Videla decorò Havelange durante la cerimonia di inaugurazione nello stadio Monumental di Buenos Aires. A pochi passi da lì era in pieno funzionamento la Auschwitz argentina, il centro di tortura e di sterminio della Scuola di meccanica dell'esercito. E alcuni chilometri più in là, gli aerei lanciavano i prigionieri vivi in fondo al mare».
Il Sudamerica è il continente delle laceranti contraddizioni: bene e male, miseria e nobiltà, oro e fango, tutto e niente. Dove il football, per davvero, diventa metafora della vita: sentimenti e ribellioni si celano dietro un dribbling, un gol, un gesto estetico. I grandi scrittori sudamericani hanno spesso utilizzato il pallone per raccontare i disagi del quotidiano, per denunciare le malefatte di politici e militari senza scrupoli, per mettere a nudo, con malinconica ironia, il malessere della società.
Maestro, in tal senso, è stato il sempre più compianto Osvaldo Soriano. L'autore di «Triste solitario y final», giocatore di buon livello in Patagonia («Quando ero adolescente, l'unica cosa che mi interessava era giocare a calcio. Nessuno mi disse mai che avrei potuto essere un buon giocatore, ma i miei compagni di squadra confidavano nella mia indole di goleador»), ha criticato l'Argentina del potere militare facendo scendere in campo i suoi improbabili, straordinari assi, sottili fustigatori del regime grazie a un calcio di rigore, a un match impossibile. Come dimenticare, ad esempio, la partita Argentina-Inghilterra a Puerto Argentino all'epoca della guerra delle Malvinas, oppure il figlio di Butch Cassidy arbitro di un match tra comunisti e socialisti nella Terra del Fuoco?
Il calcio, dunque, è in grado di diventare simbolo della giustizia, mezzo per esprimere il disagio di vivere, per condannare la violenza e l'oppressione. Gli scrittori sudamericani si sono impossessati, con letteraria abilità, del pallone. «Perché - avverte il brasiliano Edilberto Coutinho - lo scrittore scrive sempre delle sue passioni. E l'uso che in certi casi le dittature fanno del calcio non invalida il gioco, la forza magica della sua bellezza e della sua emozione, che continuano a prevalere. Perché il calcio, come la letteratura, se ben praticato, è forza di popolo. I dittatori passano. Passeranno sempre. Ma un gol di Garrincha è un momento eterno».
Eduardo Galeano raccoglie tutte queste denunce, tutti questi concetti in «Splendori e miserie», muovendosi su due piani narrativi: da una parte, il pallone come mistero agonistico e galleria di assi; dall'altra, il pallone come fenomeno culturale e sociale, come territorio ambito dai potenti per le loro ciniche scorribande politiche e finanziarie. Lo scrittore effettua una sintesi perfetta dei varimondifin dalle prime pagine, ipotizzando la possibilità di una salvezza: «La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall'allegria di giocare per giocare. In questo mondo di fine secolo, il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed è inutile ciò che non rende. E a nessuno porta guadagno quella follia che rende l'uomo bambino per un attimo, lo fa giocare come gioca il bambino con il palloncino o come gioca il gatto col gomitolo di lana. Il gioco si è trasformato in spettacolo, con molti protagonisti e pochi spettatori, calcio da guardare, e lo spettacolo si è trasformato in uno degli affari più lucrosi del mondo, che non si organizza per giocare ma per impedire che si giochi. La tecnocrazia dello sport professionistico ha imposto un calcio dipura velocità e forza, che rinuncia all'allegria, che atrofizza la fantasia e proibisce il coraggio. Per fortuna appare ancora sui campi di gioco, sia pure molto di rado, qualche sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito e commette lo sproposito di mettere a sedere tutta la squadra avversaria, l'arbitro e il pubblico delle tribune, per il puro piacere del corpo che si lancia contro l'avventura proibita della libertà».
E ce ne sono, di sfacciati con la faccia sporca, di campioni senza età e senza tempo, nel libro di Galeano: come Artur Friedenreich (uno degli idoli di Jorge Amado) o come lo stesso Diego Armando Maradona che «giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto». Ma la grandezza dello scrittore uruguagio sta nel fatto di schierare, in un ideale campo che è poi la vita, personaggi così diversi tra loro, ma uniti da quel filo conduttore che è ilpallone: Salvador Allende e Humphrey Bogart, Roberto Baggio e Henry Kissinger, Pier Paolo Pasolini e Marilyn Monroe, Karl Marx e Benito Mussolini, René Higuita e Adolf Hitler.E al termine del match, resta il calcio, mistero senza fine bello. Come ci indica Galeano: «Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l'arte dell'imprevisto. Dove meno te l'aspetti salta fuori l'impossibile, il nano impartisce una lezione al gigante, un nero allampanato e sbilenco fa diventare scemo l'atleta scolpito in Grecia».


www.storiedicalcio.altervista.org/
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17/10/2016 10:03
 
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"Sempre avanti" di Maurito Icardi

In attesa degli amici criminali argentini [SM=g7557]
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22/02/2020 13:32
 
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Coronavirus, la “profezia” di Dean Koontz nel suo romanzo del 1981: “Nel 2020 si diffonderà in tutto il mondo Wuhan-400, una grave polmonite”

Il Coronavirus cinese? Già ideato e scritto in un romanzo di quarant’anni fa. Sul web da ore non si parla d’altro, e anche con qualche imprecisione. Il libro thriller in questione è The eyes of darkness ed è stato pubblicato nel 1981 a firma di Dean Koontz, autore statunitense di numerosi bestseller. Le pagine originali di diverse copie cartacee stanno circolando online in foto con le sottolineature a pagina 333. “Wuhan-400 è un’arma letale (…) intorno al 2020 una grave polmonite si diffonderà in tutto il mondo (…) in grado di resistere a tutte le cure conosciute”, c’è scritto. Pochi paragrafi più sopra ed ecco l’origine del Wuhan-400 che ricorda paurosamente quello che sembra essere accaduto recentemente in Cina: “Uno scienziato cinese di nome Li Chen fuggì negli Stati Uniti, portando una copia su dischetto dell’arma biologica cinese più importante e pericolosa del decennio. La chiamano ‘Wuhan-400’ perché è stata sviluppata nei loro laboratori di RDNA vicino alla città di Wuhan ed era il quattrocentesimo ceppo vitale di microorganismi creato presso quel centro di ricerca”.

Le analogie sono sconcertanti, anche se, come segnalano diverse testate cinesi, la versione dell’81 del romanzo, inedito in Italia, ha subito una variazione fondamentale. In origine il virus non era il Wuhan-400 ma il “Gorki-400”, più in linea con l’epoca di piena guerra fredda tra Usa e Urss. Solo dal 1989 in avanti, segnala il South China Morning Post, allegando una copia più recente del 1996 della pagina in questione, il virus si è trasformato in “Wuhan-400”. A gettare acqua sul fuoco è il blogger antibufale Paolo Attivissimo.

Interpellato dall’Adnkronos ha parlato di inevitabilità: “E’ pressoché inevitabile che fra i milioni di storie che vengono scritte prima o poi qualcuna ci azzecchi, almeno vagamente (leggendo i dettagli del romanzo, le caratteristiche del ‘Wuhan-400’ divergono fortemente da quelle del coronavirus)”. Infine aggiunge: “Quello di Koontz non è il primo caso di apparente precognizione letteraria: il romanzo del 1898 The Wreck of the Titan di Morgan Robertson ‘previde’ il disastro del Titanic del 1912 descrivendo un transatlantico, il Titan, che affondava nel Nord Atlantico dopo uno scontro con un iceberg. In questo caso, però, il romanzo fu ritoccato dopo il 1912 per renderlo più calzante. Nella versione originale, infatti, la nave era di stazza minore, e il titolo era un ben più generico Futility”.


ilfattoquotidiano.it

Libro che ora andrà in ristampa..ed esaurito
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22/02/2020 14:30
 
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che tocca fa pè venne :D


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09/08/2020 00:56
 
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In genere non leggo quasi mai letteratura italiana contemporanea, mi sembra sempre roba che oscilla tra il banale, il politicamente corretto e il nulla da dire. per esempio ho letto recentemente Il colibrì di Veronesi e, seppure si legga molto bene, è la classica maripionata acchiappa premi.

Però adesso sto leggendo La ragazza con la Leica (comprato da mia moglie quando viaggiare era facile e di cui avevo letto recensioni demmerda) e vi devo dire che è un bel libro, con uno stile tutto suo, affascinante nella ricostruzione di un'epoca storica come gli anni '30, centrato nella descrizione dei personaggi, qua e là anche non banale nel cogliere la difficoltà di certe scelte nella vita di ognuno. Non è un capolavoro ma se non avete niente per le mani ve lo consiglio.
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Sono la rovina della Roma


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